533 IL LIBRO DEI GIORNI

1

I fiori di cactus non sono paragonabili agli altri fiori. A guardarli sembra quasi che abbiano ottenuto una vittoria e che stranamente abbiano voglia di sposarsi oggi stesso, anche se non è chiaro con chi. Il mio cactus più vecchio, che era già qui quando arrivai, quarant’anni fa, è tutto fatto di contrasti, come se avesse tante età diverse. Ha le foglie larghe, ammesso che si possano chiamare foglie: sono più che altro grandi mani protese ma prive di dita, verdi e massicce forme ovali cosparse di piccoli aculei, insomma il cliché del cactus in un paesaggio messicano. Io di cactus non so niente. Qui gli autoctoni erano loro, io sono l’intruso. Crescono in diversi punti. Dietro il mio studio c’è una zona poco curata del giardino della quale sono i dominatori assoluti. Il cactus dei contrasti si trova da un’altra parte. All’estremità di quello che in seguito diventerà il frutto, chiamato qui chumbo e in Francia figue de Barbarie,* c’è ora, in estate, un fiore giallo. Alcune foglie – continuo a chiamarle così – sono come di cuoio disseccato, ma qui e là hanno a loro volta delle piccole mani di un verde più chiaro e vivo. Tolti gli aculei si può farne delle fette sottili e mangiarle. Le grandi mani morte, sorprendentemente pesanti, i cactus le lasciano cadere. Dopo una tempesta, quando curo il giardino rastrellando tutto quel che è caduto dagli alberi, le sollevo con cautela, preferibilmente usando i guanti, e ne butto via la parte morta. Ma se mi avvicino alla pianta – un uomo ben più alto di me –, mi accorgo che in basso sembra essersi fatta legnosa, morta, secca e pesante, e che però dalla materia morta spuntano nuove manine. È questo che intendevo quando parlavo di contrasti, come se io stesso fossi fatto in parte di materia già morta e, allo stesso tempo, mi crescessero nuove membra, anche se non so bene come immaginarmelo. Quale potrebbe essere l’equivalente di quel fiore giallo?

L’anno scorso, dopo un viaggio nel deserto di Atacama, nel Nord del Cile, decisi di piantare un po’ di cactus nel mio giardino spagnolo. Dall’altra parte dell’isola c’è un vivaio. Chiesi dei cactus e mi indicarono un’enorme pianta fallica e pelosa, che mi superava di un bel pezzo in altezza. Impossibile infilarla nella mia auto. Lì intorno c’era però un piccolo esercito di piantine, e i venditori chiamavano cactus anche quelle: erano tante, ufficiali e soldati in uniformi diversissime tra loro. Ogni volta che, vedendo una forma diversa da tutte le altre, domandavo il nome della pianta, la risposta era inevitabilmente «cactus» e così ora nel mio giardino – se possiamo chiamarlo giardino – i cactus sono sei. Con una sola eccezione sono sopravvissuti all’inverno, ed è difficilissimo descriverli. Nello Zibaldone Leopardi scrive che il poeta non solo deve imitare la natura e descriverla perfettamente, ma deve farlo anche in modo naturale. Non è mica facile. Non assomigliano per niente ai cactus che erano già qui, gli autoctoni. Uno è una colonnina vegetale color verde mare che mi arriva alle ginocchia. Provo a cercare i loro nomi nel libro sui cactus che mi sono comprato, ma non è immediato. Un altro si innalza per un metro scarso, poi si divide in tanti rami e continua così la sua crescita. Ma perché poi dico «rami»? Sembrano piuttosto parti del tronco che hanno preso delle vie laterali. E forse nemmeno «tronco» è la parola giusta. Un cactus che si sviluppa lateralmente, diciamo. Nemmeno Xec sa come si chiama, ma sostiene che possa diventare molto grande. A me pare di aver visto quella forma in una pubblicità della tequila. O forse era sull’etichetta di una bottiglia e avevo la vista offuscata da una nebbia alcolica. C’è poi un proiettile della Prima guerra mondiale: una specie di bulbo piuttosto rozzo, suddiviso in segmenti e dotato di innumerevoli aculei che tengono lontane le tartarughe. «Suddiviso in segmenti»: è l’espressione giusta? Come faceva Humboldt? Come si fa a descrivere un oggetto che è verde, ha perduto la sua euclidea forma conica a causa di una quantità di tacche profonde – saranno quattordici – e semplicemente se ne sta lì attaccato a terra, pericoloso e possente, cercando di dimostrare sa il cielo cosa con quegli aculei che gli crescono dappertutto e che in punta sono di un profondo rosso cremisi? Ma – lezione numero uno – non posso dire «aculei», per quanto minacciosamente affilati e lunghi appaiano. Un cactus ha «spine». Naturalmente Humboldt studiava le caratteristiche, il genere, le possibilità di riproduzione, le parentele. A me mancano gli strumenti necessari: ho soltanto le mie prime impressioni e la povertà della mia lingua. Se dico «verde», infatti, cosa intendo dire? Quanti verdi esistono? Mi basta guardare i miei sei nuovi cactus e cercare di descriverne i colori per trasformarmi in un maestro dell’aggettivazione.

Sia come sia, ho creato per loro una piccola enclave delimitata da un lato da un antichissimo muro di pietre solo sovrapposte – una pared seca – e dall’altro da una quantità di pietre, simili a quelle che compongono il muro, che ho sistemato sul terreno bruno per creare un confine poroso, di cui, peraltro, le tartarughe non si curano affatto. Naturalmente possono arrivare solo alle foglie più basse, ma le ferite lasciate dai loro morsi sono bizzarre quanto le forme di alcune delle piante stesse. Intorno ai cactus ho piantato altre succulente, che in nederlandese chiamiamo vetplanten, «piante grasse». Una di queste, una delle molte varietà di eonio, ha foglie di un nero profondo e lucente, così magnificamente disposte intorno al centro da far pensare a un’intenzionale ricerca di simmetria e armonia. Il nero di quelle foglie è talmente intenso e, in realtà, sensuale da farne l’ornamento ideale per la tomba di una poetessa morta giovane. Per quanto io voglia bene alle mie tartarughe, stamattina ho visto quella più vecchia, una matriarca che da un’infinità di anni sopravvive qui all’inverno in mia assenza, provare con tutte le sue forze a distruggere con i suoi vecchi denti l’armonia di quella matematica simmetria a furia di morsi perversi: un sacrilegio.

Ma come si fa a punire una tartaruga che qui ha diritti molto più antichi dei miei? Per quanto ne so, le tartarughe non hanno anelli di accrescimento, così non ho idea di quanto sia vecchia. E le mie paternali non le ascolta. Mi piacerebbe moltissimo osservarmi dalla sua prospettiva e vedere come le appaio. Una specie di torre indicibilmente alta e in movimento che, se glielo si chiede con chiarezza, ti dà dell’acqua. In estate, quando fa più caldo, arriva a volte sulla terrazza e mi dà delle spintarelle contro il piede. Allora spruzzo dell’acqua sulle pietre e lei le lecca lentamente, con cura. Le pietre che ho disposto l’anno scorso intorno alle piante per mettere al riparo le foglie più basse dai suoi attacchi le ha scostate millimetro dopo millimetro, come un bulldozer vivente.

Chumbo: il frutto del cactus

Non solo dei cactus, ma anche delle tartarughe so poco. Comunque mi sembra che abbiano alcune cose in comune: l’indocilità, la testardaggine, forse addirittura la materia di cui sono fatti, dura, resistente. Carapaci e spine sono strumenti di difesa, la zampa di una tartaruga suscita al tatto la stessa sensazione della pelle di certi cactus e le mie tartarughe depositano le uova sottoterra, come se anche loro pensassero di essere piante. Possono fare a lungo a meno dell’acqua, ma sanno farmi capire quando hanno sete. Forse pensano che io sia acqua. L’enigma dei cactus e dell’acqua devo ancora risolverlo, mistero del troppo o del troppo poco. Sono rimasto qui fino a ottobre, poi un breve soggiorno a dicembre. Jabi, il vicino, dice che quest’inverno ha piovuto molto. Ma nel deserto, di cui i cactus sono originari, non piove per niente, mai. Stanotte, dopo un temporale elettrico, è venuto un violento acquazzone. Sembra che al ficus e all’albero di fichi sia piaciuto: le loro foglie sono lucenti. I cactus non danno a vedere niente, o almeno niente che io capisca.

Esibiscono la stranezza della loro forma come se fosse un dovere, e naturalmente è così. Obbediscono al loro DNA come facevano i loro antenati già un’eternità fa, secondo un libro della legge che un tempo fu scritto per loro e a cui si attengono, paragrafo per paragrafo. O l’hanno scritto loro stessi, in epoca immemorabile, adattandolo poi in infiniti processi e interpretazioni? A domande come queste rispondono con un ostinato silenzio. Gli alberi ondeggiano, gli arbusti si piegano, il vento mormora, ma i cactus non partecipano a questo genere di conversazioni. Sono monaci, il loro crescere non lo si può sentire, se emettono suoni le mie orecchie non sanno coglierli. La loro forma è il loro scopo, lo sapeva già Aristotele. Probabilmente non gliene importa niente che io possa vederli.

* In Italia è detto «fico d’India». (Tutte le note al piede sono a cura del traduttore.)

2

Il giorno in cui sono arrivato, dopo qualche ora è comparso Xec con un libro sulla morte.

Il postino l’aveva lasciato fuori, in balia della pioggia. Lui l’aveva salvato.

Poi ci siamo messi a parlare del suo lavoro. Lui è uno scultore in negativo: modifica la forma degli alberi perché il giardino riceva più luce. Una mezza vita fa piantai delle palme. Mi arrivavano al ginocchio. Per anni ho segato via io stesso i rami morti, finché non ce l’ho più fatta. Gli alberi – ce ne sono due – sono ormai troppo alti e io troppo vecchio.

I rami di palma richiamano inevitabilmente la Domenica delle palme, quella che precede la Pasqua: l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, gente che agita fronde di palma lungo la strada. La Domenica delle palme i rami venivano benedetti, poi potevi portarti un rametto a casa, una miniatura che non assomigliava a un vero ramo di palma, perché nel punto in cui il ramo era attaccato all’albero, la parte da segare, spuntavano numerosi coltelli che potevano fare molto male. Durante l’inverno Xec dà un’occhiata al giardino, un bizzarro amalgama di ostinati abitanti che erano già qui ad aspettarmi quando arrivai più di quarant’anni fa. Da allora una parte di quella popolazione è morta: il clima non è clemente, e un giardino senza giardiniere ha una vita difficile, su un’isola in cui il vento è un dominatore dispotico e a volte soffia furioso da nord, portando con sé il sale del mare. Xec è giovane e forte, era venuto con la sua figlia piccola e se quel giorno l’ho associato alla morte è per via del libro che aveva con sé. Era un libro di Canetti, un uomo che non voleva morire, ma questo non è di per sé sufficiente per associare un giardiniere alla morte. La ragione era un’altra. Gli ho domandato perché non avesse tolto i gigli che avevano sempre la prepotenza di volersi infilare tra le piante di eonio. Eravamo rimasti d’accordo che l’avrebbe fatto. A quanto pare quei gigli – li chiamo così perché non so come si chiamino davvero – fioriscono quando io non ci sono, e già questo è un buon motivo per averli in antipatia. Ma come si fa a descrivere un’antipatia? Bisogna cominciare con le piante di eonio, piante grasse raggruppate come un piccolo esercito di fronte al terrazzo e rivolte verso la casa, la prima cosa che vedo quando comincio la mia giornata. È gente semplice. Con le loro foglie di un verde chiaro disposte in tondo in un bell’ordine matematico e la loro materia robusta, si sono guadagnate il diritto a esistere semplicemente restandosene lì per tutto questo tempo, quasi sempre in solitudine. I gigli sono degli intrusi, con foglie lunghe e strette che si tendono verso l’alto, aggrappati a bulbi tenaci, caparbi, quasi impossibili da estrarre senza che ci si porti dietro metà dell’eonio. Io mi sono quasi rovinato la schiena provandoci. Xec aveva promesso di toglierli quando il terreno fosse stato un po’ più trattabile e io fossi stato all’altro capo del mondo.

In risposta alla mia domanda Xec ha sollevato la gamba. Sulla pianta del piede c’era una grande macchia nera che sembrava una forma di corruzione, un segno di sventura. E in effetti lo era: Xec mi ha raccontato di essere stato operato al piede per un cancro della pelle. La macchia nera, i gigli, il libro di Canetti con quel titolo disperato: così il pensiero della morte si era insinuato in me tra i cactus e le tartarughe. Mi è tornata alla mente la tomba di Canetti, che ho visitato una volta a Zurigo, non lontana da quella di Joyce. Sono stato lì due volte: la prima volta aveva ancora una croce cattolica, esattamente come la tomba di Brodskij a Venezia, che poi è stata sostituita da una tomba priva di croce, senza per questo diventare una tomba ebraica. Certo, su entrambe le tombe erano sparsi dei sassolini come quelli che avevo visto anche su quelle di Celan e di Joseph Roth a Parigi. La cosa che più saltava all’occhio nelle due tombe di Zurigo, così vicine l’una all’altra, era la differenza di carattere. Joyce se ne sta lì sereno, con le gambe disinvoltamente accavallate: un signore una domenica mattina, uno che avrebbe potuto benissimo fumarsi una sigaretta. Di solito i morti non stanno seduti, e men che meno fumano, ovviamente. Chi sta seduto può alzarsi in piedi, mentre nel caso dei morti – almeno per il momento – è escluso che ci si possa alzare dalla tomba. Accadrà, sempre che accada, solo alla fine dei tempi. L’unico ornamento sulla tomba di Canetti era la sua firma, che aveva un che di rabbioso, di incattivito. La chiusura di una furiosa lettera a un avversario troppo stupido: ecco cosa sembrava. Apro il suo libro e leggo: «D’improvviso i risorti, in tutte le lingue, accusano Dio: il vero Giudizio universale.»* Sdegno, anche in questa frase. La vita come complotto ordito da Dio contro gli esseri umani, dono con annessa condanna a morte. In un punto precedente del libro va a far visita al luogo dove verrà sepolto, un posto scelto da lui stesso. E questo sembra quasi il contrario dello sdegno, sembra desiderio. Si domanda cosa penserà Joyce quando lui gli giacerà così vicino. Ma siccome Canetti non è tipo da sottovalutarsi, si domanda anche se è contento lui di giacere così vicino a Joyce, sul quale in fin dei conti aveva scritto: «Se fossi assolutamente sincero con me stesso, dovrei dire che mi piacerebbe distruggere tutto ciò per cui Joyce si era battuto. Sono contro la vanità del dadaismo nella letteratura, la quale si innalza al di sopra delle parole. Io adoro le parole integre.» Chi parla qui è un uomo del Popolo del Libro, e questo si fa evidente quando poi prosegue: «Per me la componente più autentica del linguaggio è costituita dai nomi. Io posso dar l’assalto ai nomi e abbatterli, ma non farli a pezzi. Questo vale persino per il nome di colui che odio sopra ogni cosa, l’inventore e custode della morte: Dio.» Joyce e il dadaismo, non c’ero ancora arrivato, ma odiare qualcuno che non esiste potrebbe essere un’altra forma di dadaismo.

Il caso vuole (ma per i lettori il caso non esiste) che allo stesso tempo io stessi leggendo un vecchio libro di Philip Roth, Il teatro di Sabbath, il cui protagonista Mickey Sabbath, proprio come Canetti, va in cerca del luogo in cui farsi seppellire. Due ebrei alla ricerca della loro tomba, e anche Sabbath è ossessionato dalla morte; il libro è un’«aria della follia» di eros e thanatos, con le ripetute masturbazioni sulla tomba della moglie adultera con cui Sabbath aveva una relazione ipererotica, descritta da Roth in modo estremamente esplicito, con una sovrabbondanza di dettagli che, di tanto in tanto, provoca nel lettore una spossatezza vicaria, come se, con un caldo soffocante, dovesse percorrere un interminabile sentiero di montagna, fino a non poterne più. Per un lettore come me è l’opposto dell’erotismo di Nabokov, che sa essere altrettanto estremo limitandosi però a suggerire, senza accumulare bizzarre aberrazioni e realistici dettagli in un flusso incontenibile.

Sabbath non è dunque Humbert Humbert, ma nella sua grottesca ossessione resta pur sempre un personaggio indimenticabile, ed è questo personaggio che se ne va in giro sperduto per un cimitero trascurato della provincia e si mette a mercanteggiare con il custode sul luogo e, soprattutto, sul prezzo della sua sepoltura, una somma che paga all’istante. Non so se Canetti si sarebbe riconosciuto in questo episodio, ma sicuramente avrebbe avuto un moto di disgusto per lo scandaloso epitaffio che Sabbath desidera per la sua tomba e che consegna subito, sigillato, all’impresario delle pompe funebri insieme al denaro per il funerale e il compenso del rabbino. La differenza, naturalmente, sta nel fatto che Sabbath non è esistito davvero. Le persone non esistenti hanno bisogno di più parole; a Canetti è bastata la sua firma incisa sulla lapide e i nomi della prima e della seconda moglie, Veza e Hera.

* Questa e le sei citazioni da Canetti che seguono sono tratte da Elias Canetti, Il libro contro la morte, trad. it. di Ada Vigliani, Adelphi, Milano 2017.

3

Quando si può dire che un fatto sia un evento? Un incidente ferroviario, una visita del tutto inaspettata, la caduta di un fulmine. Qui sull’isola, in estate, quest’ultima cosa accade regolarmente: un cielo percorso da elettrici mene tekel e poi un colpo mortale. Il giorno dopo è sul giornale locale: un evento. Come si dice quando accade qualcosa che non sarebbe mai considerato un evento dal mondo, ma da te sì? Mattina presto, le esteras – delle tendine fatte di giunchi intrecciati – non erano ancora state abbassate. Sono seduto in terrazza quando all’improvviso mi si posa accanto un’upupa con inimitabile spettacolarità. Non mi ha visto, altrimenti sarebbe subito volata via. L’Upupa epops è un uccello molto timido. Ma ora è qui, accanto a me sul terreno secco e marrone, vicino all’ibisco appena piantato e che non vuol crescere. Se esiste un uccello che assomigli a un fiore è proprio questo. In spagnolo si chiama abubilla, qui sull’isola puput. Sarà consapevole della sua bellezza? Ha un alto ciuffo di piume verticali che sono color cannella alla base, ma che in cima diventano bianche e nere. Il becco, lungo e curvo, è di un grigio brunastro, le zampe color ardesia, l’estremità della coda è una sottile striscia bianca che si allarga poi in una più ampia fascia nera. Rimango seduto immobile, ma è sufficiente che, dopo un po’, io muova impercettibilmente la mano per metterlo in fuga. È chiaramente un maschio. Lo vedo allontanarsi e sparire volando basso, ora salendo, ora di nuovo scendendo, sul campo dei vicini.

Non ho mai visto un nido d’upupa, ma pare che sia un gran pasticcio, come capita a volte anche con le persone belle. Si può definire un evento un fatto che ti cambia la giornata?

4

«Il faut cultiver notre jardin», dice Voltaire in conclusione del Candide. E se le cose stessero diversamente? O se fosse il contrario? Io non sono una pianta, ma se fosse il giardino a coltivare me? A insegnarmi inaspettate forme di attenzione? Non ho mai riflettuto sul rosso della surfinia. Forse nemmeno sul rosso in quanto tale, su come sia possibile che certe tonalità di rosso verrebbe da definirle nere. Le ore del giorno, la presenza o l’assenza di nuvole portano con sé delle proprie forme di pittura. E di teatro. Niente nuvole, l’ora più calda del pomeriggio: la surfinia si fa rosso sangue, il rosso di un delitto passionale, cattivo, il rosso nero nella sabbia dell’arena quando il toro viene trascinato via. Cambia il vento, tramontana, minaccia di temporale, cielo grigio cenere: la surfinia diviene improvvisamente un’attrice, talentuosa maestra di mimetismo, un nero plumbeo si insinua nel rosso, una sciagura è in arrivo, sono stato avvertito.

5

La politica letteraria (esiste anche questa: egemonie, influenze, triumvirati, eredità) e la morte.

Elias Canetti («Il profeta Elia ha sopraffatto l’Angelo della Morte. Il mio nome mi suona sempre più inquietante») su Thomas Bernhard. Lo reclama per sé, ma ha paura di doverlo cedere a Beckett. «Lo innalzo a mio allievo e naturalmente lui lo è, e in un senso molto più profondo di quanto non lo sia ad esempio Iris Murdoch [la sua ex amante], che volge tutto al piacevole e al leggero ed è diventata, in fondo, una sagace e divertente scrittrice d’intrattenimento. Già solo per questo non è una mia vera allieva, perché invasata dal sesso. Thomas Bernhard invece è invasato dalla morte, come me. A dire il vero negli ultimi anni è soggetto a un’influenza che mette in ombra la mia, ovvero a quella di Beckett. Il suo carattere ipocondriaco lo predispone a Beckett. Come quest’ultimo, Bernhard indulge alla morte, non la contrasta. […] Ritengo quindi che, adesso, grazie al rinforzo venutogli da Beckett, Bernhard goda di una sorta di sopravvalutazione che scende dall’alto: i tedeschi trovano in lui il loro Beckett.»

Un discepolo è liquidato, si è rivolto a un altro maestro, ha versato dell’acqua nel vino della morte. Punito. Questo accadeva nel 1970. Bernhard reagisce furibondo sulla Zeit. Sei (!) anni più tardi, Canetti gli scrive una lettera che non spedisce. «Lei adesso, fuori di sé, mena colpi alla cieca.» L’ultima frase della lettera mai spedita: «Lei non ha nessuno che Le dica la verità, e la verità Le è forse diventata indifferente?» Per Canetti la morte era il peggiore dei nemici, che doveva essere combattuto come un avversario vivo. Odiava chi scendeva a patti con questo nemico, e il suo odio non era astratto. Menare colpi alla cieca, mi piacerebbe esserne capace. Cosa c’è in me che non va?

6

Una volta, più di cinquant’anni fa, scrissi un libro, De ridder is gestorven («Il cavaliere è morto»). Il verso di un uccello notturno me l’ha fatto ricordare. Il romanzo è ambientato in un’isola mediterranea, non questa, più vicino all’Africa. Anche lì si sente quest’uccello. All’epoca descrissi questo suono ripetuto in continuazione come un «gluk, silenzio, poi di nuovo gluk». Non ho riletto il brano, ma riconosco il fascino di quel suono per la sua regolare ripetizione. È come se fosse prodotto da un metronomo, gli intervalli hanno sempre la stessa durata, misurano il tempo. Il mio manuale di ornitologia rende il verso dell’assiolo con ciùh. L’assenza di una consonante sorda alla fine è giusta, ma in realtà l’imitazione migliore sarebbe un puh pronunciato dolcemente. È un suono molto misterioso, e se si ascolta con attenzione si percepisce anche la risposta, uguale ma più sommessa, un suono che appartiene alla notte, e alla caccia, un richiamo che annuncia la morte di scarabei, maggiolini e ragni. Lui chiama, lei risponde, io vengo coinvolto in un’invisibile intimità, nascosta nel buio della notte mediterranea.

Tratto da: Cees Nooteboom, 533 Il libro dei giorni, Iperborea Edizioni 

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