Il campo del dolore
Il basso e ondulato paesaggio danese era silenzioso e sereno, misteriosamente desto nell’ora che precede il levar del sole. Non c’era una nube nel cielo pallido, non un’ombra nel perlaceo crepuscolo che avvolgeva i prati, le colline e i boschi. La bruma si stava alzando dalle valli e dalle gole, l’aria era fresca, l’erba e le foglie stillanti di rugiada. Non guardata dagli occhi dell’uomo, e non disturbata dalla sua attività, la campagna respirava una vita senza tempo, per la quale le parole erano inadeguate.
Eppure da mille anni, su quella terra, viveva una razza umana che era stata formata da quel suolo e da quel clima, e che quella terra aveva segnata con i propri pensieri, al punto che nessuno ormai avrebbe potuto dire dove finisse l’esistenza dell’una e cominciasse quella dell’altra. Il sottile nastro grigio di una strada che serpeggiava lungo la pianura e su e giù per i colli era la materializzazione concreta del desiderio umano, e dell’umana certezza, che è meglio stare in un posto anziché in un altro.
Chi fosse nato in quei luoghi avrebbe letto quel vasto paesaggio come un libro. Il mosaico irregolare dei prati e dei campi di cereali era un – screziato di tenui pennellate gialle e verdi – della lotta che la gente sosteneva per il pane quotidiano; i secoli le avevano insegnato ad arare e a seminare in quel modo. Su una collina lontana le ali immobili di un mulino a vento, una piccola croce azzurra contro il cielo, segnavano una delle tappe successive dell’evoluzione del pane. Il profilo confuso dei tetti di paglia – una bassa, bruna escrescenza della terra – là dove si accalcavano le casupole del villaggio, raccontava dalla culla alla tomba la storia del contadino, la creatura più vicina alla terra e che più ne dipende, prospero in un anno fertile e alle soglie della morte negli anni di siccità e di calamitosi flagelli.
Un po’ più in alto, circondata dalla tenue linea orizzontale del muro calcinato del cimitero, e con al fianco il susseguirsi verticale degli alti pioppi, la chiesa dal tetto di tegole rosse testimoniava, fin dove giungeva lo sguardo, che quello era un paese cristiano. Chi era nato in quei luoghi la conosceva come una strana casa, abitata soltanto per poche ore ogni sette giorni, ma dotata di una voce forte e limpida per annunciare le gioie e i dolori della terra: una semplice, squadrata rappresentazione della fiducia del paese nella giustizia e nella misericordia del cielo. Ma nel punto in cui, tra boschetti e macchie tondeggianti, svettava nell’aria l’altera siluetta piramidale dei filari di tigli, là c’era un grande maniero.
Chi era nato in quei luoghi avrebbe letto molte cose in quegli eleganti simboli geometrici che spiccavano sull’azzurro brumoso. Parlavano di potere, quei tigli schierati intorno a una fortezza. Là era stato deciso il destino della terra circostante e degli uomini e delle bestie che la abitavano, e il contadino alzava gli occhi con timoroso rispetto verso quelle verdi piramidi. Esse parlavano di dignità, di decoro e di gusto. Il suolo danese non produsse mai fiore più bello della signorile dimora alla quale portava il lungo viale alberato. Nelle sue stanze maestose la vita e la morte si portavano con grazia imponente. Il maniero non guardava verso l’alto, come la chiesa, né teneva lo sguardo al suolo come le casupole; aveva sulla terra un più ampio orizzonte, ed era imparentato con gran parte dell’architettura aristocratica di tutta l’Europa. A ornarlo di pannelli e di stucchi erano stati chiamati artigiani stranieri, e i suoi abitanti giravano il mondo in lungo e in largo e ne riportavano idee, mode e oggetti d’arte. Quadri, arazzi, argenti e cristalli di lontani paesi avevano finito con l’acclimatarsi, e ormai facevano parte della vita di campagna danese.
La grande casa era solidamente radicata nel suolo della Danimarca quanto le casupole dei contadini, e non meno di loro fedelmente alleata ai quattro venti e alle mutevoli stagioni del paese, alla vita dei suoi animali, ai suoi alberi e ai suoi fiori. Ma gli interessi del maniero erano su un piano più alto. Entro il dominio dei tigli, i pensieri e i discorsi non si aggiravano più sulle mucche, le pecore e i maiali, ma sui cavalli e sui segugi. La fauna allo stato brado, la selvaggina del paese, contro la quale il contadino agitava il pugno al solo vederla nel suo campo di segale ancora verde o tra le sue spighe di grano che cominciavano a germogliare, per i residenti dei manieri era la principale occupazione e la vera gioia della vita.
Ciò che era scritto nel cielo proclamava solennemente la continuità, una immortalità sulla terra. I grandi manieri tenevano duro da molte generazioni. Le famiglie che vivevano tra quelle mura nutrivano per il passato lo stesso rispetto che avevano per la propria stirpe, perché la storia della Danimarca era la loro storia.
Fin dove la gente riusciva a ricordare, a Rosenholm c’era sempre stato un Rosenkrantz, a Hverringe un Juel, a Gammel-Estrup uno Skeel. Costoro avevano visto succedersi case regnanti e stili accademici, e – con orgoglio e umiltà – avevano anteposto l’esistenza della loro terra alla propria esistenza personale, sicché tra i loro pari e presso i contadini erano conosciuti col nome dei loro possedimenti: Rosenholm, Hverringe, Gammel-Estrup. Per il re e per il paese, per la famiglia e per lo stesso castellano era del tutto secondario sapere quale particolare Rosenkrantz, Juel o Skeel, di una lunga serie di padri e di figli, incarnasse in quel momento nella propria persona i campi e i boschi, i contadini, il bestiame e la selvaggina della tenuta. Molti doveri gravavano sulle spalle dei grandi proprietari terrieri – verso Dio onnipotente, verso il re, verso i vicini e verso se stessi – e tutti armonicamente radicati nella convinzione del dovere verso la terra. Sommo tra tutti gli altri era il dovere di perpetuate la sacra continuità della schiatta, e di dar vita a un nuovo Rosenkrantz, Juel o Skeel che si prodigasse per Rosenholm, Hverringe e Gammel- Estrup.
La grazia femminile era molto apprezzata nei castelli feudali. Insieme con la buona caccia e il vino pregiato, era la gemma e l’emblema della nobile esistenza che si svolgeva in quei luoghi, e sotto molti aspetti le famiglie andavano orgogliose più delle figlie che dei figli maschi.
Le dame che passeggiavano lungo i viali di tigli, o li percorrevano su grandi carrozze tirate da due pariglie di cavalli, portavano nel grembo il futuro di quegli aristocratici nomi, e sostenevano i loro casati come dignitose, bonarie cariatidi. Erano anch’esse consapevoli del proprio valore, tenevano alto il proprio prezzo, e si muovevano in un nimbo di leggiadra adorazione, che ricevevano dagli altri e tributavano a se stesse. Si poteva persino supporre che vi aggiungessero, di propria iniziativa, un’aggraziata, maliziosa, paradossale arroganza. A qual punto erano libere, infatti, e a qual punto potenti! I loro signori potevano governare il paese e concedersi molti privilegi, ma quando si arrivava alla suprema questione della legittima discendenza, che era il principio vitale del loro mondo, su di loro, le dame, poggiava il centro di gravità.
I tigli erano in fiore. Ma in quel primo accenno di luce soltanto una tenue fragranza fluttuava nel giardino, un aereo messaggio, un’eco profumata dei sogni trascorsi nella breve notte estiva.
In un lungo viale che partiva dalla casa e attraversava tutto il giardino, raggiungendo poi, laggiù in fondo, un piccolo padiglione bianco di stile classico di dove si godeva un’ampia vista sui campi, passeggiava un giovane. Era vestito semplicemente, di marrone rischiarato da bei lini e merletti, la testa nuda coi capelli legati da un nastro. Era bruno, con una figura robusta e vigorosa, begli occhi e belle mani; zoppicava leggermente.
Il grande maniero in cima al viale, il giardino e i campi, erano stati il paradiso della sua infanzia. Ma lui aveva viaggiato molto, era vissuto fuori della Danimarca, a Roma e a Parigi, e attualmente era incaricato presso la Legazione Danese alla corte di Re Giorgio, il fratello della giovane e sventurata regina di Danimarca morta poco tempo prima. Da nove anni non vedeva la dimora dei suoi avi e gli veniva un po’ da ridere nel constatare che tutto era tanto più piccolo di come lo ricordava, ma insieme si sentiva stranamente commosso da quel nuovo incontro. I morti venivano ad accoglierlo sorridendo; un bambino con un gran colletto lo sorpassò di corsa reggendo un cerchio e l’aquilone, e nel passare lo guardò con occhi limpidi, domandandogli con uno scoppio di risa: « Vorresti dire che tu sei me? ». Lui Cercò di rincorrerlo per rispondergli: « Sì, ti assicuro che sono te », ma la figurina svelta non aspettò la risposta.
Il giovane, che si chiamava Adam, era in un rapporto particolare col maniero e con la terra. Per sei mesi era stato l’erede di tutto; nominalmente lo era ancora. Era stata questa circostanza a farlo tornare dall’Inghilterra, e mentre lentamente percorreva il viale, proprio su quei fatti si soffermavano i suoi pensieri.
Il vecchio signore del castello, fratello di suo padre, aveva avuto una vita familiare molto infelice. Sua moglie era morta giovane, e due dei suoi figli erano spirati nella prima infanzia. L’unico figlio rimastogli, il compagno di giochi del cugino, era un ragazzo malaticcio e malinconico. Per dieci anni il padre non aveva fatto che trasferirsi da una stazione climatica all’altra, in Germania e in Italia, quasi sempre senz’altra compagnia che quella del suo taciturno figliolo moribondo, difendendo con ambo le mani la tenue fiamma della sua vita, perché a tempo debito potesse dar vita a un nuovo discendente della loro stirpe. E nello Stesso periodo lo aveva colpito un’altra sventura: era caduto in disgrazia a Corte, dove fino a quel momento aveva goduto del massimo favore. Proprio quando stava per ristabilire il prestigio della famiglia, grazie al matrimonio che aveva combinato per il figliolo, il fidanzato, non ancora ventenne, era morto prima che le nozze potessero aver luogo.
Adam era in Inghilterra quando fu informato della morte del cugino, e delle proprie mutate fortune, dalla sua ambiziosa e trionfante madre. Rimase a lungo con la sua lettera in mano, domandandosi che valore avesse per lui tutto ciò.
Se quegli avvenimenti fossero accaduti quando era ancora bambino in Danimarca, rifletteva, per lui avrebbero avuto un’enorme importanza. E se i suoi amici e i suoi compagni di scuola si fossero trovati al suo posto, sarebbe stato così anche per loro, e in quel preciso momento si sarebbero di certo congratulati con lui o gli avrebbero invidiato la sua fortuna. Ma lui, per indole, non era né avido né vanitoso; aveva fiducia nelle proprie doti, e la consapevolezza di dover contare sulle proprie capacità per riuscire nella vita lo rallegrava. La sua lieve imperfezione fisica lo aveva sempre tenuto un po’ in disparte dagli altri ragazzi; forse, di fronte a molte cose della vita, gli aveva dato una sensibilità più affinata, tanto che adesso non gli sembrava del tutto giusto che ha rappresentare la casata ci fosse un uomo con una gamba zoppa. E neppure le sue prospettive gli apparivano nella stessa luce in cui le vedeva la sua famiglia in Danimarca. In Inghilterra aveva conosciuto un fasto e un’opulenza che loro nemmeno si sognavano; aveva avuto una fortunata e felice relazione con una dama inglese di così alti natali e così immense ricchezze che la più bella proprietà terriera di Danimarca, ne era certo, le sarebbe sembrata una fattoria giocattolo.
E in Inghilterra aveva avuto la possibilità di conoscere le nuove grandi idee dell’epoca: sulla natura, i diritti e la libertà dell’uomo, sulla giustizia e la bellezza. Grazie a quelle idee, l’universo era diventato per lui infinitamente più vasto; voleva scoprirne ancora di più, e aveva in animo di andare in America, nel nuovo mondo. Per un istante si era sentito preso in trappola e imprigionato, come se i morti della sua stirpe tendessero dalla cripta di famiglia le loro braccia mummificate per afferrarlo.
Ma al tempo stesso, di notte, aveva cominciato a sognare la vecchia casa e il giardino. In sogno camminava per quei viali, e sentiva il profumo dei tigli fioriti. Quando, a Ranelagh, una vecchia zingara gli aveva letto la mano predicendogli che un figlio suo si sarebbe installato nella dimora dei suoi avi, egli aveva provato tutt’a un tratto una profonda soddisfazione, molto bizzarra in un giovane che sino a quel momento non si era mai dato pensiero dei propri figli futuri.
Poi, se mesi dopo, sua madre gli aveva scritto di nuovo per comunicargli che lo zio aveva sposato lui stesso la fanciulla destinata al figliolo morto. Il capo del loro casata era ancora vegeto, non aveva superato i sessant’ anni, e sebbene Adam lo ricordasse piccolo e mingherlino nella persona, era un uomo vigoroso; era probabile che la giovane sposa gli desse dei figli.
La madre di Adam, accecata dalla delusione, aveva addossato a lui tutta la colpa. Se fosse tornato in Danimarca, l’aveva rimproverato, forse lo zio avrebbe finito col considerarlo come un figlio e non si sarebbe deciso a quel passo; anzi, non era escluso che potesse offrire a lui la mano della fanciulla. Adam non ne era affatto convinto. I possedimenti familiari, a differenza delle proprietà vicine, si erano trasmessi di padre in figlio sin da quando il capostipite della loro famiglia si era insediato. La tradizione della successione diretta era l’orgoglio del clan e, per suo zio, un dogma consacrato; egli avrebbe sicuramente voluto un figlio della sua carne e del suo sangue.
Ma a quella notizia il giovane era stato colto da uno strano, profondo, accorato rimorso nei confronti della sua casa avita in Danimarca. Era come se avesse preso alla leggera un gesto amichevole e generoso, e si fosse dimostrato sleale con qualcuno che era stato verso di lui di una lealtà incrollabile. Sarebbe stato più che giusto, pensava, se d’ora in avanti quei luoghi lo avessero ripudiato, dimenticandolo completamente. Fu preso dalla nostalgia, un sentimento che non aveva mai conosciuto; per la prima volta si aggirava per le strade e per i parchi di Londra come uno straniero.
Scrisse allo zio per chiedergli se poteva andare a soggiornare da lui, prese congedo dalla Legazione e s’imbarcò per la Danimarca. Era venuto nel maniero per fare la pace con lui; aveva dormito poco, quella notte, e si era alzato così presto e stava passeggiando nel giardino per spiegare le proprie ragioni ed essere perdonato.
Mentre lui camminava, il giardino silenzioso riprendeva a poco a poco le sue occupazioni giornaliere. Un grosso serpente, della specie che suo nonno aveva portato dalla Francia e che quando lui era bambino, ricordava, veniva a mangiare in casa, stava già tracciando con grande dignità un’orma argentea lungo il viale. Gli uccelli cominciarono a cantare; egli si fermò sotto un albero tra le cui fronde molti di loro stavano tormentando un gufo: il regno della notte era finito.
Si fermò alla fine del viale e vide che il cielo si schiariva. Una luminosità estatica riempiva il mondo; di lì a mezz’ora sarebbe spuntato il sole. Su un lato del giardino si stendeva un campo di segale; due caprioli vi sì aggiravano, rosei nel chiarore dell’alba. Lasciò spaziare lo sguardo sui campi, dove da bambino aveva cavalcato il suo pony, e verso il bosco dove aveva ucciso il suo primo cervo. Ricordava i vecchi domestici che lo avevano addestrato nella caccia; alcuni di loro erano ormai nella tomba.
I vincoli che lo legavano a quei luoghi, pensò, erano di natura mistica. Poteva anche non tornarvi mai più, non avrebbe fatto differenza. Fino a quando un uomo del suo stesso sangue e del suo stesso antico nome avesse dimorato in quella casa, fosse andato a caccia in quei campi e fosse stato obbedito dai contadini delle casupole, lui, dovunque vagabondasse, in Inghilterra o tra i pellirosse dell’America, sarebbe stato ancora salvo, avrebbe ancora avuto una casa, e il proprio valore nel mondo.
Il suo sguardo si soffermò sulla chiesa. In epoche lontane, prima del tempo di Martin Lutero, i cadetti delle grandi famiglie entravano nella Chiesa di Roma e rinunciavano alla ricchezza e alla felicità personale per servire ideali più alti. Anch’essi avevano dato lustro alle loro case ed erano ricordati negli archivi ecclesiastici. Nella solitudine del mattino, quasi per gioco, lasciò che la sua mente si sbizzarrisse a suo piacere; gli pareva di poter parlare alla terra come a una persona, come alla progenitrice della sua stirpe. « Vuoi forse soltanto il mio corpo », le disse « mentre respingi la mia immaginazione, la mia energia e le mie emozioni? Se si potesse convincere il mondo a riconoscere che il valore del nostro nome non appartiene soltanto al passato, non ne saresti soddisfatta? ». Il paesaggio era così quieto che lui non avrebbe saputo dire se la terra gli rispondesse o no.
Dopo un poco riprese a camminare, e giunse al nuovo roseto alla francese progettato per la giovane padrona di casa. In Inghilterra i suoi gusti in fatto di giardini erano diventati meno convenzionali, e si domandò se sarebbe riuscito a liberare quei vividi prigionieri per farli fiorire al di fuori delle loro spalliere ben cimate. Forse, meditò, quel giardino dall’eleganza così formale era il ritratto floreale della sua giovane zia che veniva dalla Corte, e che lui non aveva ancora conosciuta.
Quando raggiunse di nuovo il padiglione in fondo al viale, il suo sguardo fu attratto da un bouquet di colori tenui che non poteva certo esser fiorito al sole estivo di quel mattino danese. E si trattava infatti di suo zio, coi capelli incipriati e le calze di seta, ma ancora avvolto in una veste da camera di broccato, e palesemente immerso in profondi pensieri. « E quali faccende, o quali meditazioni », si domandò Adam « spingono un uomo che di certo ama la bellezza, ed è da soli tre mesi sposato a una fanciulla di diciannove anni, ad abbandonare il suo letto prima dell’alba per venirsene in giardino? ». Si avvicinò alla piccola figura smilza ed eretta.
Lo zio, dal canto suo, non mostrò la minima sorpresa nel vederlo, ma del resto molto di rado si mostrava stupito di qualche cosa. Lo salutò, complimentandolo di essere così mattiniero, con la stessa benevolenza con cui lo aveva accolto la sera prima, al suo arrivo. Dopo un attimo guardò il cielo e dichiarò solennemente: « Oggi farà molto caldo ». Da bambino, Adam era stato spesso colpito dal tono greve e pomposo con cui il vecchio signore constatava gli eventi quotidiani dell’esistenza; si sarebbe detto che là nulla fosse cambiato, che tutto fosse proprio come un tempo.
Lo zio offrì al nipote una presa di tabacco. « No, zio », disse Adam « grazie, ma il mio naso non potrebbe più percepire il profumo del vostro giardino, che è fresco come il Giardino dell’Eden appena creato » « E di ogni suo albero », disse lo zio sorridendo « voi, mio Adam, potete liberamente mangiare i frutti ». E, l’uno accanto all’altro, s’incamminarono pian piano lungo il viale.
Il sole ancora invisibile stava già dorando la cima degli alberi più alti. Adam decantò le bellezze della natura, e la grandiosità del paesaggio nordico, meno segnato che quello d’Italia dalla mano dell’uomo. Lo zio prese quell’elogio del paesaggio come un complimento personale, e si congratulò con lui perché dai suoi viaggi all’estero non aveva imparato, come tanti altri giovani, a disprezzare la sua patria. No, disse Adam, da ultimo, in Inghilterra, aveva provato un’acuta nostalgia dei campi e delle foreste danesi. E proprio in Inghilterra, anzi, gli era capitato di leggere un poeta danese che lo aveva affascinato più di qualunque opera inglese o francese. Nominò l’autore, Johannes Ewald, e citò alcune delle sue possenti, tumultuose strofe.
« E mentre leggevo » continuò dopo una pausa, ancora commosso dai versi che aveva appena declamati « mi sono stupito che da noi non si sia ancora compreso quanto la nostra mitologia nordica superi, per nobiltà morale, quella greca e romana. Non fosse per la bellezza fisica degli dèi antichi, che immortalata nel marmo è giunta sino a noi, nessuna mente moderna potrebbe ritenerli degni di adorazione. Erano meschini, capricciosi e traditori. I nostri dèi ancestrali sono tanto più divini di quelli mediterranei quanto i Druidi sono più nobili degli Àuguri. Perché i biondi dèi di Asgaard possedevano le sublimi virtù umane: erano giusti, leali, benevoli e persino, nei limiti di un’età barbarica, cavallereschi ». A questo punto, per la prima volta, suo zio parve interessarsi veramente alla conversazione. Si fermò, col nobile naso un po’ all’aria. « Ah, ma per loro era più facile » disse.
« Cosa intendete dire, zio? » domandò Adam. « Essere, come voi sostenete, giusti e benevoli » rispose lo zio « era molto più facile per gli dèi nordici che per quelli della Grecia. A mio parere, che i nostri antichi danesi abbiano accettano di adorare simili divinità rivela una certa loro debolezza d’animo ». « Mio caro zio », disse Adam sorridendo « avevo sempre sospettato che le costumanze dell’Olimpo non dovessero esservi troppo estranee. Però adesso, ve ne prego, mettetemi a parte della vostra scienza, e spiegatemi perché la virtù dovrebbe essere più facile per i nostri dèi danesi che per quelli di climi più miti ». « Essi non erano potenti quanto gli dèi dell’Olimpo » disse lo zio.
« E il potere » insistette Adam « è forse un ostacolo alla virtù? ». « No » disse gravemente lo zio. « No, il potere è di per sé la virtù suprema. Ma gli dèi di cui voi parlate non furono mai onnipotenti. Avevano sempre al loro fianco quelle forze più oscure che essi chiamavano Jotun, e che provocavano le sofferenze, le calamità, la rovina del nostro mondo. Potevano abbandonarsi senza pericoli alla temperanza e alla benevolenza. Gli dèi onnipotenti » continuò « non hanno questa facilitazione. Essendo onnipotenti, prendono sulle proprie spalle il dolore dell’universo ».
Avevano risalito il viale ed erano giunti in vista della casa. Il vecchio gentiluomo si fermò e lasciò scorrere lo sguardo sull’imponente edificio, che non aveva subìto mutamenti di sorta; Adam sapeva che dietro le due alte finestre sulla facciata c’era adesso la stanza della giovane zia. Lo zio si volse e tornò sui propri passi.
« La cavalleria », disse « questa cavalleria di cui stavate parlando, non è la virtù di un onnipotente. Perché esista la cavalleria, debbono per forza esistere validi e valorosi rivali che il cavaliere possa sfidare. Con un drago meno forte di lui, che figura farebbe san Giorgio? Il cavaliere che non si trovi a portata di mano nemici a lui superiori deve inventarseli, e combattere contro i mulini a vento; la sua stessa dignità di cavaliere esige che egli sia circondato di pericoli, di infamia e di tenebre. No, credetemi, caro nipote, nonostante il suo valore morale il vostro cavalleresco Odino di Asgaard, come un Reggente, deve stare uno scalino al di sotto di Giove, che riconobbe la propria sovranità e accettò il mondo che dominava. Ma voi siete giovane », soggiunse « e l’esperienza dei vecchi vi’sembrerà pedantesca ».
Rimase immobile per un istante e poi, con, profonda gravità, proclamò: « È spuntato il sole ».
Il sole era infatti apparso all’orizzonte. Il vasto paesaggio fu improvvisamente animato dal suo splendore, e l’erba ru-giadosa balenò di mille sprazzi di luce.
« Vi ho ascoltato con grande interesse, zio » disse Adam. « Ma mentre parlavamo ho avuto l’impressione che foste in ansia; non avete mai staccato gli occhi da quel campo oltre il giardino, come se là stesse accadendo qualcosa di molto importante, addirittura una questione di vita o di morte. Ora che è sorto il sole, vedo i mietitori tra la segale e li sento affilare le loro falci. Se ricordo bene, mi avete detto che è il primo giorno della mietitura. É una grande giornata per un proprietario terriero, e basta da sola a distogliere la sua mente dagli dèi. Il tempo è bellissimo, e vi auguro di colmare i vostri granai ».
L’uomo più anziano rimase immobile, con le mani incrociate sul pomo del bastone. « È vero » disse infine « che in quel campo sta accadendo qualcosa, una questione di vita o di morte. Venite, sediamoci qui, e vi racconterò tutta la storia ». Si sedettero sulla panca che correva lungo tutta la parete del padiglione e neanche per un istante, mentre parlava, il vecchio possidente stornò lo sguardo dal campo di segale.
« Una settimana fa, nella notte di giovedì », disse « qualcuno ha dato fuoco al mio granaio di Rødmosegaard – conoscete il posto, nei pressi della brughiera – distruggendolo da cima a fondo. Per due o tre giorni non siamo riusciti ad acciuffare il criminale. Poi, lunedì mattina. è venuto da me il guardiacaccia di Rødmose col carrettiere del posto; trascinavano a viva forza un ragazzo, Goske Piil, il figlio di una vedova, giurando sulla Bibbia che il colpevole era lui; al tramonto di giovedì, l’avevano visto coi loro occhi aggirarsi intorno al granaio. Alla fattoria Goske non ha buona fama; il guardiacaccia cova contro di lui un cerro malanimo per una vecchia questione di bracconaggio, e il carrettiere non lo ha cerro in simpatia, perché deve sospettare che se la intenda con la sua giovane moglie. Il ragazzo, quando gli ho parlato, continuava a giurare d’essere innocente, ma non è riuscito a difendersi dalle accuse dei due vecchi. Così l’ho fatto mettere sotto chiave, per poi mandarlo, con una mia lettera, davanti al giudice del nostro distretto.
« Il giudice è uno sciocco, e naturalmente fa soltanto quello che ritiene conforme ai miei desideri. Come niente potrebbe mandare il ragazzo ai lavori forzati condannandolo per incendio doloso, o farlo arruolare col pretesto che è un cattivo soggetto e un bracconiere. Se ritenesse che questo è il mio desiderio, sarebbe persino capace di rimetterlo in libertà.
« Stavo cavalcando nei campi, e guardavo il grano che era ormai quasi maturo per la mietitura, quando mi sono visto fermare da una donna, la vedova, la madre di Goske, la quale mi ha pregato di ascoltarla. Si chiama Anne-Marie. Voi la ricorderete, credo; vive nella casupola a est del villaggio. Anche lei, da queste parti, non ha una buona reputazione. Si dice che da ragazza abbia avuto un figlio di cui poi si è disfatta.
« Piangeva dirottamente da cinque giorni, e la sua voce era diventata così rauca che stentavo a capire le sue parole. Era vero, mi ha spiegato infine, che quel giovedì suo figlio era stato a Rødmose, ma non aveva fatto niente di male; ci era andato perché doveva vedere una persona. Era il suo unico figlio, lei invocava Dio onnipotente a testimone della sua innocenza, e si torceva le mani supplicandomi di salvarlo.
« Eravamo nel campo di segale che stiamo guardando adesso. È stato così che mi è venuta l’idea. Ho detto alla vedova: “Se in una sola giornata, dall’alba al tramonto, riuscite con le vostre mani a mietere questo campo, e il lavoro sarà ben fatto, io lascerò cadere l’accusa e voi riavrete vostro figlio. Ma se non ci riuscite, lui dovrà andarsene, e sarà ben difficile che possiate rivederlo”.
« Lei allora si è rialzata e ha misurato il campo con lo sguardo. Poi ha baciato il mio stivale in segno di gratitudine per la benevolenza che le avevo dimostrata ».
A questo punto il vecchio gentiluomo fece una pausa, e Adam gli domandò: « Quel ragazzo significava molto per lei? ». « È il suo unico figlio » disse lo zio. « Per lei significa il pane quotidiano e il bastone della sua vecchiaia. Si può ben dire che le è caro come la sua stessa vita. Come », soggiunse « in un ambiente più elevato, un figlio per suo padre significa il nome e la stirpe, e gli è caro quanto la vita eterna. Sì, quel figlio significa molto per lei. Perché la mietitura di quel campo rappresenta una giornata di lavoro per tre uomini, o tre giornate di lavoro per un uomo solo. Oggi, quando è sorto il sole, ha affrontato l’impresa. E adesso la potete vedere laggiù, in fondo al campo, con un fazzoletto azzurro sulla testa, con accanto l’uomo che ho incaricato di seguirla per accertarsi che faccia il lavoro senza alcun aiuto, e due o tre dei suoi amici che la stanno confortando ».
Adam guardò, e infatti vide tra le spighe una donna con un fazzoletto azzurro, e alcune altre figure.
Rimasero per un poco in silenzio. « Voi personalmente » disse infine Adam « credete che il ragazzo sia innocente? ». « Non sono in grado di dirlo » rispose lo zio. « Non ci sono prove. C’è soltanto la parola del guardacaccia e del carrettiere contro la parola del ragazzo. Se credessi all’una o all’altra versione, sarebbe sol tanto per un scelta casuale, o per simpatia. Il ragazzo » disse dopo un momento « era compagno di giochi di mio figlio, e, a quanto ne so io, di tutti i bambini era l’unico che gli piacesse o col quale andasse d’accordo ». « E secondo voi » domandò ancora Adam « lei può riuscire a soddisfare la vostra condizione? ». « Questo non sono in grado di dirlo » rispose il gentiluomo. « Una persona normale non ci riuscirebbe. Ma una persona normale non avrebbe mai accettato una condizione simile. Sono stato io a volere così . Non stiamo cavillando con la legge, Anne-Marie ed io ».
Per qualche minuto Adam seguì con lo sguardo i movimenti del gruppetto tra la segale. « Tornate a casa? » domandò. « No », rispose lo zio « credo che rimarrò qui finché non avrò visto la conclusione della faccenda ». « Fino al tramonto? » domandò Adam con stupore. « Sì » disse il vecchio gentiluomo. Adam disse: « Sarà una giornata lunga ». « Sì », disse lo zio « una giornata lunga. Ma » soggiunse mentre Adam si alzava per andarsene « se, come avete detto, avete con voi quella tragedia di cui parlavate, sarei contento se me la lasciaste, così mi terrebbe compagnia ». Adam gli porse il libro.
Lungo il viale incontrò due domestici che portavano al padiglione, su grandi vassoi d’argento, la cioccolata mattutina del vecchio gentiluomo.
Il sole adesso si levava nel cielo, e man mano che il caldo si faceva più intenso i tigli spandevano la loro dovizia di profumo, e il giardino era colmo di un’insuperata, inimmaginabile fragranza. Verso mezzogiorno, l’ora più tranquilla, il lungo viale risonava come una cassa armonica di un cupo, incessante sussurro: il ronzio di milioni di api che si tenevano aggrappate ai penduli, gremiti grappoli di fiori e si ubriacavano di beatitudine.
In tutta la breve vita dell’estate danese, non c’è momento più sontuoso o piú fragrante della settimana in cui fioriscono i tigli. Il profumo celestiale va alla testa e al cuore; sembra congiungere i campi della Danimarca ai campi elisi; se al tempo stesso di fieno, di miele e d’incenso, e per metà ricorda il paese delle fate, per metà lo scaffale di una farmacia. Il viale si trasformava in un edificio mistico, una cattedrale delle driadi, profusamente adorna, fuori, di innumerevoli fronzoli, carica dalla sommità alla base e dorata dal sole. Ma dietro le pareti, le volte erano piacevolmente oscure e fresche, come santuari d’ambrosia in un mondo igneo e abbacinante, e lì, dentro, il terreno era ancora umido.
Su nel maniero, dietro le seriche tende delle due finestre sulla facciata, la giovane signora della tenuta lasciò penzolare i piedi dall’ampio letto e li infilò in due pantofoline dal tacco alto. La camicia adorna di merletti era un po’ a sghimbescio, le lasciava scoperti un ginocchio e la spalla; sui capelli, attorcigliati per la notte sui diavoletti, c’era ancora la brina della cipria di ieri, e il suo viso rotondo era arrossato dal sonno. Andò sino al centro della stanza e là ristette, con un’espressione estremamente seria e meditabonda; eppure non pensava a nulla. Ma nella sua mente stava passando una lunga processione di immagini, e senza nemmeno rendersene conto lei si sforzava di metterle in ordine, come sempre in ordine erano state le immagini della sua esistenza.
Era cresciuta a Corte; era quello il suo mondo, e probabilmente non c’era in tutto il paese una creaturina più squisitamente e innocentemente addestrata alla misura superba di un palazzo. Per concessione della vecchia Regina Madre, portava il suo nome e quello della sorella del Re, la Regina di Svezia: Sophie Magdalena. Proprio tenendo conto di tutto questo il marito, quando si era proposto di riconquistare la propria posizione nelle alte sfere, aveva scelto lei come sposa, prima per il figlio e poi per sé. Ai suoi tempi, invece, il padre della fanciulla, che aveva un incarico presso la Famiglia Reale e faceva parte della nuova aristocrazia di Corte, aveva fatto la stessa cosa ma al contrario, sposando una gentildonna di campagna per inserirsi nell’antica nobiltà di Danimarca. La fanciulla aveva il sangue di sua madre nelle vene. La campagna era stata per lei una grande sorpresa e una immensa gioia.
Per entrare nel cortile del suo castello doveva attraversare l’aia, poi il massiccio androne di pietra che dava nel granaio, dove per alcuni secondi le ruote della sua carrozza destavano un rimbombo di tuono. Doveva rasentare le stalle e il cavallo finto – dal quale talvolta un furfante condannato alla berlina la guardava con occhi tristi – e poteva capitarle di spaventare una lunga fila di oche schiamazzanti, o di passare accanto al grosso toro minaccioso, tirato per un anello tra le nari, che in muto furore pestava il suolo con gli zoccoli. Per lei, all’inizio, era ogni volta una piccola emozione e una specie di gioco. Ma dopo un po’ tutti questi esseri e questi oggetti, che le appartenevano, le parvero diventare una parte di lei. Le sue ave, le vecchie gentildonne di campagna della Danimarca, erano donne robuste che non si lasciavano certo spaventare dalle condizioni atmosferiche; ora anche lei camminava sotto la pioggia, e nel suo abbraccio rideva e scintillava come un albero verde.
Aveva preso possesso della sua nuova, grande casa in un periodo in cui tutto il mondo sbocciava, si accoppiava e si riproduceva. I fiori, che finora aveva visti soltanto raccolti in mazzi e festoni, spuntavano dalla terra tutt’intorno a lei; gli uccelli cantavano su tutti gli alberi. Gli agnellini appena nati le sembravano più incantevoli delle sue bambole di un tempo. Dalla scuderia di cavalli prussiani del marito le portavano i puledri perché desse loro il nome; e lei ristava a guardarli mentre premevano il tenero muso contro il ventre della madre per succhiare il latte. Fino allora, di tutte queste strane vicende aveva avuto soltanto un vago sentore. Adesso le era accaduto di vedere, da un sentiero nel parco, lo stallone impennato e nitrente sulla giumenta. Tutta questa esuberanza, tutta questa voglia sensuale e questa fecondità si dispiegavano davanti ai suoi occhi come per compiacerla.
E in tutto quel rigoglio, a lei era toccato un marito anziano che la trattava con cerimonioso rispetto perché doveva dargli un erede. Questo era il patto; lei lo aveva saputo sin dal principio. Suo marito, se ne rendeva conto, stava facendo del suo meglio per adempiere la sua parte dell’ accordo, e per quanto la riguardava, lei era molto leale di indole, ed educata in modo severo. Non si sarebbe sottratta al suo obbligo. Aveva però la sensazione che nella sua vita così dignitosa ci fosse una discordanza, o una certa incompatibilità, e questo le impediva di essere felice come aveva sperato.
Dopo un certo tempo la sua contrarietà prese una strana forma: quasi la consapevolezza di un’assenza. Con lei ci sarebbe dovuto essere qualcuno che invece non c’era. Ella non era affatto brava ad analizzare i propri sentimenti; a Corte non si aveva mai il tempo per queste cose. Ora che le succedeva più spesso di restare sola, tentava un po’ incerta di esplorare la propria mente. Cercò di mettere suo padre in quel posto vuoto, poi le sue sorelle, il suo maestro di musica, un cantante italiano che aveva ammirato; ma le sembrava che nessuno di loro lo colmasse. Qualche volta si sentiva più sollevata, e si convinceva che la sventura doveva essersi allontanata da lei. E poi succedeva di nuovo, se le capitava di essere sola, o anche in compagnia del marito, e persino tra le sue braccia; ecco che tutto intorno a lei prorompeva: Dove? Dove? ed ella volgeva gli occhi angosciati per la stanza in cerca della persona che ci sarebbe dovuta essere e che non era venuta.
Quando. sei mesi prima le avevano detto che il suo giovane fidanzato era morto e che al suo posto lei avrebbe sposato il padre, quella notizia non l’aveva rattristata. Il giovane corteggiatore, quell’unica volta che lo aveva visto, le era parso infantile e scialbo; il padre sarebbe stato un marito più autorevole. Ora, alle volte, le era accaduto di pensare al ragazzo morto e di domandarsi se con lui la vita sarebbe stata più lieta. Ma ben presto aveva cancellato la sua immagine, e quelle. per lo sventurato fanciullo, furono le ultime chiamate sul proscenio di questo mondo.
Su una parete della sua stanza c’era un lungo specchio. Mentre si guardava, nuove immagini affioravano. Il giorno prima. mentre era in carrozza col marito. aveva visto in lontananza un gruppo di ragazze del villaggio che facevano il bagno nel fiume, e il sole splendeva su di loro. Per tutta la vita lei si era aggirata tra ignude divinità di marmo, ma sino allora non le era mai venuto in mente che le persone di sua conoscenza erano anch’esse nude sotto i loro corsetti c strascichi, panciotti e calzoni di raso, che in realtà lei stessa si sentiva nuda sotto le vesti. Ora, davanti allo specchio, con mosse esitanti slegò i nastri della camicia e la lasciò cadere sul pavimento.
La stanza era in penombra dietro le tende chiuse. Nello specchio il suo corpo era argenteo come una rosa bianca; soltanto le guance e la bocca e le punte delle dita e dei seni avevano un lieve tocco di carminio. Il suo torso snello era stato modellato dalle stecche di balena che lo avevano rigidamente stretto sin dalla fanciullezza; sopra il ginocchio esile e ben tornito un leggero incavo segnava il punto della giarrettiera. Le sue membra erano così rotonde da dare l’impressione che a tagliarle in un ‘punto qualunque con un coltello affilato si sarebbe ottenuta un’incisione trasversale perfettamente circolare. I fianchi e il ventre erano tanto lisci che il suo stesso sguardo vi scivolò sopra cercando un appiglio. Scoprì che non era affatto come una statua, e alzò le braccia al di sopra del capo. Si volse per vedersi di spalle, le curve sotto il punto della vita erano ancora arrossate dalla pressione del Ietto. Richiamò alla mente certe storie di ninfe e di dee, ma le parvero tutte cose remotissime, e allora pensò di nuovo alle contadinotte nel fiume. Per qualche minuto le idealizzò trasformandole in compagne di giochi, addirittura in sorelle, visto che le appartenevano come il prato e il fiume stesso. E subito dopo tornò ad invaderla quel senso di desolazione, un horror vacui che era come un dolore fisico. Ma sì, ma sì, ora qualcuno sarebbe dovuto essere lì con lei, l’altra se stessa, come l’immagine nello specchio, ma più vicina, più forte, viva. Non c’era nessuno, intorno a lei l’universo era vuoto.
Un improvviso, acutissimo bruciore sotto il ginocchio la strappò alle sue fantasticherie, e ridestò in lei gli istinti venatori della sua stirpe. Si inumidì la punta di un dito sulla lingua, abbassò lentamente la mano e poi, con mossa rapida, colpì il punto dolente. Sentì contro la pelle serica il piccolo corpo duro dell’insetto, lo premette col pollice e poi, trionfalmente, raccolse tra le punte delle dita il minuscolo prigioniero. Rimase immobile, come se meditasse sul fatto che l’unica creatura pronta a rischiare la propria vita per la levigatezza della sua pelle e il suo sangue dolce era una pulce.
La sua cameriera aprì la porta ed entrò nella stanza con una bracciata di indumenti che lei avrebbe indossati quel giorno – camicia, busto, crinolina e sottovesti. Ricordò che in casa c’era un ospite, il nuovo nipote appena giunto dall’Inghilterra. Il marito le aveva raccomandato di essere gentile con quel giovane parente, diseredato, per così dire, dalla sua presenza nella casa. Avrebbero cavalcato insieme per la tenuta.
Nel pomeriggio il cielo non era più azzurro come al mattino. Enormi nuvole vi si accumularono lentamente, e tutta l’ampia volta celeste divenne incolore, come se si fosse dispersa in vapori intorno al disco incandescente del sole allo zenit. Verso occidente, un brontolio di tuono corse lungo tutto l’orizzonte; una o due volte la polvere delle strade si sollevò in alti turbini. Ma i campi, le colline e i boschi erano immobili come un paesaggio dipinto.
Adam percorse il viale sino al padiglione, e là trovò lo zio, vestito di tutto punto, con le mani sul bastone e gli occhi sul campo di segale. Accanto a lui c’era il libro che gli aveva dato. Adesso il campo brulicava di gente. Gruppetti di persone sostavano qua e là, e una lunga fila di uomini e di donne avanzava lentamente verso il giardino lungo la linea della segale falciata.
Il vecchio gentiluomo salutò il nipote con un cenno del capo, ma non disse parola né mutò posizione. Adam rimase in piedi al suo fianco, immobile come lo zio.
Quello per lui era scaro un giorno stranamente inquietante. Non appena aveva rivisto i vecchi luoghi, le dolci melodie dei campi lontani avevano colmato i suoi sensi e la sua memoria, e si erano mescolate con i nuovi, ammalianti motivi del presente. Era tornato in Danimarca, non più bambino ma giovanotto, con un più acuto senso del bello, con tante cose da dire di altri paesi, ma ancora vero e autentico figlio di quella terra e incantato dalla sua bellezza come mai prima di allora.
Ma fra tante queste armonie, la tragica e crudele storia che quel mattino il vecchio gentiluomo gli aveva raccontata, e la triste gara che, come sapeva, si stava svolgendo a pochi passi da loro, giù nel campo di segale, avevano fatto risonare, come il battito sordo e intermittente di un tamburo felpato, un’eco sgomentante. E lui tornava a sentirla di continuo, tanto che si era accorto di cambiar colore e di rispondere con aria assente. Quell’eco portava in sé un senso di pietà per tutti coloro che vivevano, una pietà così profonda come non l’aveva mai provata prima. Quando era uscito a cavallo con la giovane zia, e il loro percorso rasentava la scena del dramma, aveva avuto cura di galoppare tra lei e il campo per non farle vedere quello che vi stava accadendo, evitando così che ella gli domandasse qualche cosa in proposito. E per la stessa ragione, al ritorno, aveva scelto la strada che si inoltrava nel bosco verde e fitto.
Per tutto il giorno gli tenne compagnia la figura del vecchio gentiluomo come gli era apparsa al levar del sole, più dominante ancora che la figura della donna che si destreggiava col falcetto per la vita del figlio. E giunse a meditare sulla parte che quella figura solitaria e decisa aveva avuta nella sua vita. Da quando era morto suo padre, essa aveva rappresentato per il fanciullo la legge e l’ordine, saggezza di vita e benevola protezione. Che cosa avrebbe fatto, pensò, se dopo diciotto anni questi sentimenti filiali si fossero dovuti mutare e la figura del suo secondo padre avesse preso ai suoi occhi un aspetto orribile, diventando quasi il simbolo della tirannia e dell’oppressione del mondo? Che cosa avrebbe fatto se fossero finiti su posizioni opposte, come due avversari?
Ma insieme si sentiva invadere da un inesplicabile allarme, un timore sinistro per il vecchio. Perché la dea Nemesi non poteva davvero essere molto lontana. Quell’uomo governava il mondo intorno a lui da molti più anni di quanti ne contasse la vita stessa di Adam, e nessuno lo aveva mai contraddetto. Nel corso di quegli anni in cui aveva girato l’Europa con la sola compagnia di un fanciullo del suo stesso sangue, e ammalato, aveva imparato a distaccarsi dall’ambiente che lo circondava e a chiudersi ermeticamente alla vita esterna, ed era diventato tetragono alle idee e ai sentimenti degli altri esseri umani. Strane fantasie potevano essergli passate per la mente, tanto che aveva forse finito col vedersi come l’unica persona dotata di un’esistenza reale, mentre il mondo gli era apparso come un povero e vano gioco d’ombre senza alcuna sostanza.
Ora, per caparbietà senile, teneva in pugno la vita di creature più semplici e più deboli di lui, la vita di una donna, servendosene per i suoi fini, e non temeva minimamente la legge del contrappasso. Possibile che non sapesse, pensava il giovane, che al mondo c’erano potenze molto diverse dal breve potere di un despota, e ben più formidabili?
Via via che il caldo si faceva più afoso, anche nel suo animo andava crescendo quel presagio di un disastro imminente, al puma che egli finì col sentire che la catastrofe minacciava non soltanto il vecchio gentiluomo ma anche la casa, il loro nome e lui stesso. E gli parve di dover gridare un avvertimento, prima che fosse troppo tardi, all’uomo che gli era stato caro.
Ma adesso che era di nuovo accanto allo zio, la verde serenità del giardino era così profonda che egli non trovò la voce per gridare. Invece continuava a ronzargli nella testa un’aria francese che la zia gli aveva cantata in casa – « C’est un trop doux effòrt … ». Adam conosceva piuttosto bene la musica; aveva già sentito quell’aria, a Parigi, ma non cantata così soavemente.
Dopo qualche minuto domandò: « Quella donna riuscirà a farcela? ». Lo zio aprì le mani. « È incredibile », rispose con animazione « ma si direbbe proprio che possa farcela. Se contate le ore trascorse dall’ alba sino a questo momento, e quelle che devono ancora passare sino al tramonto, vedrete che le resta la metà del tempo che è già trascorso. E guardate! ha falciato due terzi del campo. Certo, dobbiamo tener conto che più il lavoro va avanti e più le sue forze si logorano. E in fondo, sarebbe davvero inutile che voi o io scommettessimo sull’esito di questa faccenda; dobbiamo soltanto stare a vedere. Sedetevi, e fatemi compagnia in questa mia attesa ». Adam, non senza un po’ di riluttanza, si sedette.
« Ed ecco il vostro libro », disse lo zio, prendendo il volume dalla panca « che mi ha fatto passare benissimo il tempo. È grande poesia, ambrosia per l’orecchio e per il cuore. E insieme col nostro discorso di stamane sulla divinità, mi ha dato molti argomenti di meditazione. Ho riflettuto sulla legge del contrappasso ». Fiutò una presa di tabacco, poi prosegui. « Una nuova epoca » disse « si è fatta un dio a propria immagine e somiglianza, un dio emotivo. E adesso state già scrivendo una tragedia su di lui ».
Adam non aveva nessuna voglia di imbarcarsi con lo zio in una discussione sulla poesia, tuttavia temeva in certo qual modo anche il silenzio, sicché disse: « Ma può anche darsi, allora, che a noi la tragedia appaia, nello schema della vita, come un nobile e divino fenomeno ».
« Oh, sì », disse lo zio con tono solenne « un fenomeno nobile, il più nobile che vi sia sulla terra. Ma soltanto della terra, mai divino. La tragedia è il privilegio dell’uomo, il suo più alto privilegio. Lo stesso Dio della Chiesa Cristiana, quando volle vivere la tragedia, dovette assumere un corpo umano. E anche così », aggiunse in tono pensieroso « la tragedia non fu del tutto valida, come sarebbe divenuta se l’eroe fosse stato, nel vero senso della parola, un uomo. La divinità di Cristo, le diede una nota divina, il momento della commedia. Per la natura stessa delle cose, la vera parte tragica toccò agli esecutori, non alla vittima. No, nipote mio, non dovremmo adulterare i puri sentimenti del cosmo. La tragedia dovrebbe continuare a essere il diritto delle creature umane, soggette, per loro condizione o per loro natura, all’atroce legge della necessità. Per loro la tragedia è salvezza e beatificazione. Ma gli dèi, che noi dobbiamo ritenere ignari della necessità e impossibilitati a capirla, non possono conoscere il tragico. Secondo la mia esperienza, quando se lo trovano sotto gli occhi hanno il buon gusto e il decoro di starsene fermi e di non interferire.
« No », disse dopo una pausa « la vera arte degli dèi è il comico. Il comico è una condiscendenza del divino verso il mondo dell’uomo; è la visione sublime, che non può essere studiata, ma deve essere sempre celestialmente concessa. Nel comico gli dèi vedono la loro natura riflessa come in uno specchio, e mentre il poeta tragico è vincolato da leggi severe, all’artista comico essi concedono una libertà illimitata quanto la loro. Non sottraggono ai suoi lazzi nemmeno la loro stessa esistenza. Giove può ben favorire Luciano di Samosata. Finché la derisione è di gusto genuinamente divino, si può anche deridere gli dèi e restare un vero devoto. Ma quando ci si fa prendere dalla compassione e si soffre col proprio dio, lo si nega e lo si annienta, e questa è la più orribile forma di ateismo.
« E anche qui sulla terra », continuò « noi, che siamo i delegati degli dèi e ci siamo affrancati dalla tirannia della necessità, dovremmo lasciare il monopolio della tragedia ai nostri vassalli, e per noi accennare con grazia il comico. Soltanto un padrone rozzo e crudele – un arricchito, insomma – si farà beffe della necessità dei suoi servi o li obbligherà a subire il comico. Soltanto un padrone pavido e pesante, un petit-maître, può aver paura del ridicolo. Infatti », disse, concludendo il suo lungo discorso « quella stessa fatalità che quando colpisce un borghese o un contadino diventa tragedia, con l’aristocratico si sublima nel comico. Proprio per la grazia e lo spirito di questa nostra capacità di accettare, si distingue la nostra aristocrazia ».
Adam non poté trattenere un lieve sorriso, nell’ascoltare l’apoteosi del comico dalle labbra di quell’impettito e cerimonioso profeta. Con quel sorriso ironico, e per la prima volta, lui si stava distaccando dal capo della sua casata.
Un’ombra cadde sul paesaggio. Una nuvola aveva coperto il sole; la campagna, sotto di essa, mutò colore, sbiadì e si fece tutta scialba, e per ‘un minuto perfino i suoi parvero cancellarsi.
« Ah », esclamò il vecchio gentiluomo « se adesso si mette a piovere e la segale si bagna, Anne-Marie non riuscirà a finire in tempo. Ma chi sta arrivando, ora? » soggiunse, e girò un poco la testa.
Preceduto da un lacchè, veniva giù per il viale un uomo in stivali da caccia, con un panciotto a righe adorno di bottoni d’argento e il cappello in mano. Fece un profondo inchino, prima al vecchio gentiluomo, poi ad Adam.
« Il mio castaldo » disse il vecchio gentiluomo. « Buongiorno, castaldo. Che notizie mi portate? ». Il castaldo fece un gesto di sconforto. « Soltanto brutte notizie, mio signore » rispose. « E quali sarebbero? » domandò il suo padrone. « Nei campi » disse il castaldo con aria d’importanza « nessuno fa niente, e l’unica falce al lavoro è quella di Anne-Marie in questo campo di segale. La mietitura si è arrestata; sono tutti lì a far codazzo alla donna. Per essere il primo giorno della mietitura, non c’è proprio da stare allegri ». « Sì, lo vedo anch’io » disse il vecchio gentiluomo. Il castaldo continuò: « Li ho presi con le buone », disse « e li ho presi con le cattive; ma non c’è niente da fare. Come se fossero tutti sordi ».
« Mio buon castaldo », disse il vecchio gentiluomo « lasciateli in pace; che facciano come gli pare. Può anche darsi che, in fin dei conti, questa giornata sia per loro più proficua di tante altre. Dov’è il ragazzo, Goske, il figlio di Anne-Marie? ». « L’abbiamo messo nella stanzetta accanto al granaio » disse il castaldo. « No, fatelo portare qui », disse il vecchio gentiluomo « che veda sua madre al lavoro. Ma voi che cosa ne dite, Anne-Marie ce la farà a finire il campo all’ora dovuta? ». « Se volere che ve lo dica, mio signore », rispose il castaldo « io credo che ce la farà. Chi l’avrebbe mai detto? È una donna così minuta! E oggi è una giornata calda come … be’, come non ne ricordo altre. Nemmeno io, nemmeno voi, mio signore, saremmo riusciti a fare quello che ha fatto oggi Anne-Marie ». « No, no, noi non ci saremmo riusciti, castaldo » disse il vecchio gentiluomo.
Il castaldo tirò fuori un fazzoletto rosso e si asciugò la fronte, un po’ più calmo dopo aver dato sfogo alla sua collera. « Se tutti lavorassero come sta lavorando la vedova », osservò con amarezza « la terra ci darebbe un buon guadagno ». « Sì » disse il vecchio gentiluomo, e cadde in una sorta di meditazione, come se stesse calcolando il guadagno che avrebbe potuto trarne. « Tuttavia », disse « per quanto riguarda profitti e perdite, la faccenda è più complicata di quanto non sembri. Voglio dirvi una cosa che forse voi non sapete: la più famosa tela che sia mai stata tessuta veniva disfatta ogni notte. Ma venite, » soggiunse « ormai Anne-Marie è molto vicina. Andiamo a dare un’occhiata al suo lavoro ». E, dette queste parole, si alzò e si mise il cappello.
« La nuvola si era allontanata; i raggi del sole bruciavano di nuovo l’ampia distesa dei campi, e quando il gruppetto di uomini usci dall’ombra degli alberi, l’afa era opprimente come una cappa di piombo; i loro visi erano madidi di sudore, le loro palpebre dolevano. Lungo il sentiero angusto dovettero procedere in fila indiana, il vecchio gentiluomo per primo, tutto vestito di nero, e il lacchè, con la sua livrea di colore acceso, per ultimo.
Era proprio vero che il campo formicolava di gente come un mercato; ci saranno state più di cento persone. Ad Adam quella scena richiamò alla mente le illustrazioni della sua Bibbia: l’incontro tra Esaù e Giacobbe nell’Idumea, o i mieti tori nel campo d’orzo di Boaz vicino a Betlemme. Alcuni sostavano lungo il margine del campo, altri facevano ressa in piccoli gruppi intorno alla donna che falciava, e altri ancora la seguivano passo passo, legando i covoni là dove lei aveva tagliato le spighe, come se con questo pensassero di aiutarla, o come se volessero a tutti i costi partecipare al suo lavoro. Una donna più giovane, con un secchio sul capo, si teneva sempre al suo fianco, e con lei una frotta di ragazzetti. Uno di questi fu il primo a scorgere il signore del feudo e il suo seguito, e tese la mano a indicarlo. Quelli che stavano legando i covoni lasciarono cadere tutto al suolo, e quando il vecchio si fermò, parecchi dei presenti gli si strinsero intorno.
La donna sulla quale sino a quel momento si erano fissati tutti gli sguardi – una figura minuscola su quel grande palcoscenico – avanzava con passo lento e malfermo, piegata in due come se stesse camminando sulle ginocchia, e incespicando di continuo. Il fazzoletto azzurro che portava in testa le era scivolato all’indietro; il sudore le aveva appiccicato sul cranio i capelli grigi, impiastrati di polvere e di fuscelli. Si vedeva chiaro che per lei la folla assiepata tutt’intorno non esisteva nemmeno, e all’arrivo di quei nuovi spettatori non girò una sola volta né la resta né lo sguardo.
Tutta assorta nel suo lavoro, continuava a protendere la mano sinistra per afferrare una manciata di spighe, e la mano destra armata di falce per tagliarle rasente al suolo, a strappi vacillanti e incerti, come le bracciate di un nuotatore stanco. Il suo percorso la portò così vicino ai piedi del vecchio gentiluomo che la sua ombra cadde su di lei. In quell’istante ella ebbe uno sbandamento che la fece piegare da una parte, e la donna che la seguiva si tolse il secchio dal capo e glielo accostò alle labbra. Anne-Marie bevve senza allentare la stretta della mano sul manico della falce, e l’acqua le scorse giù dagli angoli della bocca. Un bambino accanto a lei si piegò di scatto su un ginocchio, le afferrò le mani nelle sue, e tenendogliele ferme e guidandole, falciò una manciata di segale. « No, no », disse il vecchio gentiluomo « non devi farlo, ragazzo; lascia che Anne-Marie faccia in pace il suo lavoro ». Al suono della sua voce la donna, barcollando, alzò la faccia verso di lui.
La faccia ossuta e bruciata dal sole era striata di sudore e di polvere; gli occhi erano offuscati. Ma nell’espressione di quel viso non c’era la minima traccia di paura o di sofferenza. In realtà, tra tutti i volti gravi e preoccupati intorno a lei, il suo era l’unico perfettamente calmo, sereno e mite. La bocca era serrata a formare una linea sottile, un lieve sorriso un po’ sdegnoso, arguto, paziente, come quello che si può vedere sulla faccia di una vecchia intenta a filare o a far la maglia, alacre nel suo lavoro, e contenta di farlo. E non appena la donna più giovane si rimise sul capo il secchio, lei subito riprese a falciare, con una bramosia tenera e ardente, come quella di una madre che si stringa il suo bambino al seno. Come un insetto che si arrabatta nell’erba alta, o come un piccolo vascello nel mare in tempesta, lei avanzava come dando di cozzo, il viso tranquillo di nuovo intento al suo compito.
La folla degli spettatori, e con essa il piccolo gruppo venuto dal padiglione, tutti avanzavano di pari passo con lei, lentamente, come tirati da una corda. Il castaldo, che si sentiva pesare addosso quel silenzio profondo del campo, disse al vecchio gentiluomo: « Quest’anno la segale sarà più abbondante dell’anno scorso » e non ottenne risposta. Ripeté quella frase ad Adam, e infine al lacchè, il quale non ritenne degno di lui uno scambio di idee sui problemi agricoli e si limitò a schiarirsi la voce. Dopo un poco il castaldo tornò a rompete il silenzio. « C’è il ragazzo » disse, e lo indicò col pollice « L’hanno portato qui ». In quell’istante la donna cadde a faccia avanti, e le persone più vicine la risollevarono.
Tutt’a un tratto Adam si fermò, e si coprì gli occhi con la mano. Senza voltarsi, il vecchio gentiluomo gli domandò se il gran caldo lo infastidisse. « No », disse Adam « ma aspetta te un momento. Lasciate che vi parli ». Lo zio si fermò, con la mano sul bastone e gli occhi fissi davanti a sé, come se gli rincrescesse di doversi fermare.
« In nome di Dio », proruppe il giovane in francese « non costringete quella donna a continuare ». Ci fu una breve pausa. « Ma io non la costringo, amico mio » disse lo zio nella stessa lingua. « Ella è libera di smettere quando vuole ». « A costo della vita del figlio, però » tornò a gridare Adam. « Non vedete che sta per morire? Voi non sapete quello che state facendo, e nemmeno quello che una cosa simile può attirarvi sul capo ».
Il vecchio gentiluomo, stupito da quell’inaspettato rimprovero, dopo un attimo si volse a fronteggiare il nipote, e i suoi pallidi, limpidi occhi ne cercarono il viso con espressione di altera meraviglia. La sua lunga faccia di cera, incorniciata da due riccioli simmetrici, ricordava un poco, idealizzato e nobile, il muso di una vecchia pecora o di un montone. Egli fece segno al castaldo di proseguire. Anche il lacchè si allontanò di qualche passo, e lo zio e il nipote rimasero, per così dire, soli sul sentiero. Per un minuto nessuno dei due parlò.
« Qui, proprio nel punto dove siamo adesso », disse poi, con alterigia, il vecchio gentiluomo « ho dato ad Anne-Marie la mia parola ».
« Ma zio! » proruppe Adam. « Una vita è molto più importante persino della parola data. Ve ne supplico, ritirate quella parola, che è stata data per capriccio, come un estro. Vi sto pregando più nel vostro interesse che nel mio, però vi sarò grato per tutta la vita se acconsentirete alla mia preghiera ».
« A scuola », disse lo zio « avrete pure imparato che in principio ci fu la parola. Può anche darsi che sia stata pronunciata per capriccio, come un estro, di questo le Sacre Scritture non ci dicono nulla. Tuttavia è il principio del nostro mondo, la sua legge di gravitazione. Per un periodo della vita umana, la mia umile parola è stata il principio della terra sulla quale stiamo. E così fu, prima del mio tempo, la parola di mio padre ».
« Vi sbagliate » esclamò Adam. « La parola è creativa – è immaginazione, audacia e passione. Fu la parola a dare origine al mondo. Quanto sono più grandi di ogni legge repressiva o coercitiva queste forze che infondono la vita! Voi desiderate che la terra che stiamo guardando produca o dia frutti; non dovreste scacciarne le forze che promuovono e conservano la vita, né trasformarla in un deserto per mezzo della legge. E quando guardate i contadini, che sono più semplici di noi e più vicini al cuore della natura, che non analizzano i propri sentimenti, e la cui vita è tutt’uno con la vita della terra, non vi ispirano forse tenerezza, rispetto, persino reverenza? Questa donna è pronta a morire per suo figlio; accadrà mai, a voi o a me, che una donna sia disposta a dare la vita per noi? E se questo accadesse, ci sembrerebbe forse una tale inezia da non sentirei pronti a rinunciare, a nostra volta, a un dogma? ».
« Voi siete giovane » disse il vecchio gentiluomo. « Una nuova epoca sarà senza dubbio disposta ad applaudirvi. Io sono della vecchia scuola, vi ho citato testi che hanno mille anni. Noi, forse, non ci capiamo del tutto. Ma tra me e la mia gente, ne sono convinto, c’è un’ottima intesa. Anne-Marie potrebbe giustamente pensare che considero un’inezia la sua impresa, se adesso, all’undicesima ora, la annullassi con una seconda parola. Al suo posto lo penserei anch’io. Sì, nipote mio, se acconsentissi alla vostra preghiera e concedessi questa grazia, potrei forse anche accorgermi che la sua fede è tale da rendere vacuo il provvedimento, e non è escluso che la vedremmo ancora al lavoro, incapace di smettere, come una spola nel campo di segale, finché non l’avesse falciato tutto. Ma allora lei offrirebbe alla vista uno spettacolo orribile, sconvolgente, sarebbe una figura di indecorosa comicità, come un piccolo pianeta che corresse impazzito nel cielo dopo che fosse stata abolita la legge di gravitazione ».
« E se questo sforzo dovesse ucciderla, » esclamò Adam « la sua morte, e le conseguenze di quella morte, ricadranno sulla vostra testa ».
Il vecchio gentiluomo si tolse il cappello e, con delicatezza, si passò la mano sui capelli incipriati. « Sulla mia testa? » disse. « Sono stato a testa alta sotto molti uragani. Persino » aggiunse con orgoglio « contro le gelide bufere dei potenti. In che modo tutto ciò ricadrà sulla mia testa, caro nipote? ». « Io non ne so nulla » disse Adam, profondamente abbattuto. « Ho parlato per avvertirvi. Lo sa soltanto Dio ». « Amen » disse il vecchio gentiluomo con un sorrisi no soave. « Venite, continuiamo a camminare ». Adam trasse un profondo respiro.
« No » disse in danese. « Non posso venire con voi. Questo campo è vostro; qui accadrà quello che voi avete deciso. Ma io devo andarmene. Stasera vi prego di mettermi a disposizione una carrozza per andare in città. Perché non potrei dormire ancora una notte sotto il vostro tetto, che ho rispettato più che qualsiasi altro tetto sulla terra ». Tanti erano i sentimenti contrastanti suscitati da quelle parole nel suo animo che gli sarebbe stato impossibile esprimerli.
Il vecchio gentiluomo, che aveva già ripreso a camminare, si fermò di colpo, subito imitato dal lacchè. Per un minuto non disse parola, come se volesse dare ad Adam il tempo di padroneggiare le proprie emozioni. Ma le emozioni del giovane erano in tumulto e non volevano lasciarsi padroneggiare.
« Allora » disse il vecchio gentiluomo, parlando anche lui in danese « dobbiamo accomiatarci qui, nel campo di segale? Mi siete sempre stato caro, quasi quanto mio figlio. Ho seguito di anno in anno i progressi che facevate nella vita, e mi sono sentito orgoglioso di voi. Sono stato felice quando mi avete scritto che sareste tornato. Se adesso valete andarvene, vi faccio i miei auguri ». Passò il bastone dalla mano destra a quella sinistra e con espressione grave guardò il nipote dritto in viso.
Adam non incontrò i suoi occhi. Il suo sguardo era fisso sul paesaggio. Nel tardo e splendido pomeriggio stava riprendendo i suoi colori, come fa un dipinto quando lo si guarda con la luce giusta; nei prati i mucchietti neri di torba spiccavano ad uno ad uno, nitidi sull’ erba verde. Proprio quella mattina lui aveva salutato tutto questo con gioia, come un bambino che corra ridendo ad abbracciare la mamma; ora doveva già staccarsene, in disaccordo, e per sempre. E al momento del commiato tutto gli parve infinitamente più caro di quanto gli fosse mai stato, reso tanto più bello e solenne dalla prossima separazione da apparire come un luogo di sogno, un paesaggio del paradiso, al punto che lui si domandò se fosse veramente lo stesso. Ma sì – davanti a lui, ancora una volta, c’era il terreno di caccia dei tempi lontani. E là c’era la strada lungo la quale aveva galoppato quella mattina stessa.
« Ma una volta partito da qui, ditemi dove vi proponete di andare » domandò lentamente il vecchio gentiluomo. « Anch’io ho viaggiato molto, ai miei tempi. Conosco la parola commiato, il desiderio di andar via. Ma ho imparato per esperienza che, in realtà, quella parola ha un significato soltanto per il luogo e per le persone che uno lascia. Quando voi avrete lasciato la mia casa, e la faccenda sarà finita e conclusa, per lei – anche se sarà rattristata di vedervi andar via. Ma per chi va via è una cosa diversa, e non altrettanto semplice. Nel momento stesso in cui lascia un luogo, chi va via è già, per legge della vita, diretto verso un altro luogo di questa terra. Vi prego dunque di dirmi, in nome della nostra vecchia amicizia, in quale luogo vi proponete di andare quando partirete da qui. In Inghilterra? ».
« No » disse Adam. Sentiva in cuor suo che non sarebbe mai più potuto tornare in Inghilterra e alla vita piacevole e serena che vi aveva vissuto. L’Inghilterra non era abbastanza lontana; acque più profonde del Mare del Nord dovevano ormai separarlo dalla Danimarca. « No, in Inghilterra no » disse. « Andrò in America, nel nuovo mondo ». Per un istante chiuse gli occhi, cercando di raffigurarsi come sarebbe stata l’esistenza in America, col grigio Atlantico a dividerlo da questi campi e da questi boschi.
« In America?» disse lo zio, inarcando le sopracciglia. « Sì, ho sentito parlare dell’ America. Laggiù hanno la libertà, una grande cascata, selvaggi pellirosse. Sparano ai tacchini, ho letto, come noi spariamo alle pernici. Beh, se questo è il vostro desiderio, Adam, andate in America, e siate felice nel nuovo mondo ».
Per un poco rimase immobile, immerso nei suoi pensieri, come se avesse già spedito il giovanotto in America e lo avesse cancellato dalla propria vita. Quando infine parlò, le sue parole sonarono come il soliloquio della persona che osserva l’andirivieni delle cose, restando ferma.
« Laggiù » disse « mettetevi al servizio del potere, che vi offrirà qualcosa di meglio della possibilità di comprare, con la vostra vita, la vita di vostro figlio ».
Adam non aveva ascoltato i commenti dello zio sull’America, ma quell’epilogo tanto solenne destò la sua attenzione, Alzò gli occhi, Come se lo vedesse per la prima volta nella sua vita, la figura del vecchio gli apparve nella sua interezza, ed egli constatò quanto fosse piccolo, tanto più piccolo di lui, pallido, un esile, nero anacoreta sulla propria terra. Un pensiero gli attraversò la mente: « Che cosa terribile essere vecchi! ». L’orrore per il tiranno, e la sinistra sua paura per la sua sorte, che l’avevano ossessionato tutto il giorno, parvero svanire, e la sua compassione per tutto il creato si allargò ad includere anche la cupa figura che gli stava davanti.
Tutto il suo essere aveva invocato l’armonia. Ora, con la possibilità del perdono, di una riconciliazione, si sentì invadere da un senso di sollievo; ricordò confusamente Anne-Marie che beveva dal secchio che le avevano avvicinato alle labbra. Si tolse il cappello, come suo zio aveva fatto un momento prima – chi avesse visto di lontano quei due gentiluomini vestiti di scuro fermi sul sentiero, avrebbe pensato che stessero ripetutamente e rispettosamente salutandosi – e con un rapido gesto si liberò la fronte dai capelli. Di nuovo gli tornò alla mente il motivo udito nella serra:
Mourir pour ce qu ‘on aime
C’est un trop doux effort…
Rimase a lungo immobile e muro, strappò alcune spighe di segale, le tenne strette nel pugno e le guardò.
I sentieri della vita, pensò, gli apparivano come un viluppo ingarbugliato, un disegno complesso e tortuoso; né lui né alcun altro essere umano aveva il potere di dominarlo o di dirigerlo, In quell’arabesco si intrecciavano la vita e la morte, la felicità e il dolore, il passato e il presente. Tuttavia l’iniziato avrebbe potuto decifrarlo con la stessa facilità con cui lo scolaro decifra i nostri numeri – che al selvaggio devono apparire confusi e incomprensibili. E da questi elementi contrastanti nasceva la concordia. Tutto ciò che viveva era destinato a soffrire; il vecchio, che lui aveva giudicato severamente, aveva sofferto, mentre guardava morire il figlio e temeva l’estinzione del proprio essere. Anche lui sarebbe arrivato a conoscere il dolore, le lacrime e il rimorso, e, proprio grazie a loro, la pienezza della vita. Allo stesso modo, quella impresa disumana poteva essere, per la donna nel campo di segale, un corteo trionfale. Perché morire per la persona che si ama era una fatica così dolce che non ci sono parole per spiegarla.
Ora, pensandoci, capì che aveva cercato per tutta la vita l’unità delle cose, il segreto che collega i fenomeni dell’esistenza. Era stato proprio questo conflitto, quest’oscuro presagio, a paralizzarlo talvolta, immobile ed inerte, mentre giocava coi suoi compagni, o in altri momenti – nelle notti di luna, o in mare nella sua piccola imbarcazione – a rapirlo in un’estasi gioiosa. Mentre altri giovani, nei loro piaceri o nei loro amori, avevano cercato il contrasto e la varietà, lui aveva desiderato soltanto di comprendere appieno l’unicità del mondo. Se per lui le cose fossero andate diversamente, se il suo giovane cugino non fosse morto, e gli eventi accaduti dopo quella morte non lo avessero ricondotto in Danimarca, la sua ricerca della comprensione e dell’armonia lo avrebbe forse portato in America, e là forse le avrebbe infine trovate, nelle foreste vergini, di un nuovo mondo. E invece gli si erano rivelate proprio quel giorno, nel luogo dove aveva giocato da bambino. Come il canto è tutt’uno con la voce che lo modula, come la strada è tutt’uno con la meta, come gli amanti diventano una cosa sola nel loro amplesso, così l’uomo è una cosa sola col proprio destino, e deve amarlo come ama se stesso.
Alzò di nuovo lo sguardo verso l’orizzonte. Sentiva che, volendolo, avrebbe potuto scoprire che cosa mai, in quel luogo, avesse fatto nascere nel suo animo l’improvvisa concezione dell’universo. Ne aveva avuto il primo barlume quella mattina, quando aveva filoso-feggiato, con leggerezza e nel proprio interesse, su quella sua sensazione di appartenere a quel paese e a quella terra. Ma poi quel sentimento era cresciuto; era divenuto qualcosa di più possente, una rivelazione per la sua anima. Un giorno avrebbe indagato a fondo, perché la legge di causa ed effetto era uno studio meraviglioso ed affascinante. Ma non adesso. Quell’ora era consacrata a emozioni più intense, a una resa al fato e al volere della vita.
« No » disse infine. « Se lo desiderate, non me ne andrò. Resterò qui ».
In quel momento un lungo e forte rombo di tuono ruppe la quiete pomeridiana. Rimbombò per un poco tra le basse colline, e il giovane se ne sentì squassare il petto come se qualcuno lo avesse afferrato e scrollato tra le mani. Il paesaggio aveva parlato. Egli ricordò che dodici ore prima gli aveva fatto una domanda, quasi per gioco, senza saperne il perché. E adesso aveva avuto la risposta.
Che cosa ci fosse in quella risposta non lo sapeva; né volle approfondire. Con quella promessa fatta allo zio si era consegnato alle più possenti forze del mondo. Ora accadesse pure quel che doveva accadere.
« Grazie » disse il vecchio gentiluomo, e fece con la mano un piccolo gesto affettato. « Sono felice di sentirvelo dire. Non dobbiamo permettere che la differenza di età o di punti di vista ci divida. Nella nostra famiglia siamo stati sempre abituati a mantenere tra noi la fiducia e l’armonia. Mi avete dato una consolazione ».
Qualcosa nelle parole dello zio, ridestò vagamente nel cuore di Adam i presentimenti del pomeriggio. Egli li respinse; non voleva che turbassero la nuova, deliziosa felicità suscitata in lui dalla decisione di rimanere.
« Ora devo andare » disse il vecchio gentiluomo. « Ma non occorre che veniate con me. Domani vi racconterò com’è finita la faccenda », « No » disse Adam. « Tornerò al tramonto per assistere di persona alla sua conclusione ».
E tuttavia non tornò. Non perse mai di vista l’ora, e per tutto il pomeriggio la consapevolezza del dramma che si stava svolgendo, e la profonda angoscia e compassione con cui, nei suoi pensieri, lui lo seguiva, diedero al suo eloquio, ad ogni suo sguardo e gesto, un che di grave e di patetico. Ma anche nelle sale del castello, e persino seduto all’arpicordo sul quale accompagnava la zia nell’aria dell’Alceste, egli sentiva di essere al centro degli eventi come se stesse nel campo di segale, vicino a quegli esseri umani di cui adesso, in quel campo, si decideva la sorte. Anne-Marie e lui erano entrambi nelle mani del destino, e il destino, per strade diverse, avrebbe portato ciascuno di loro alla fine prestabilita.
In seguito ebbe modo di ricordare ciò che aveva pensato quella sera.
Ma il vecchio gentiluomo rimase. E nel tardo pomeriggio ebbe un’idea; fece venire al padiglione il suo cameriere personale, con l’aiuto del quale si cambiò d’abito, indossando un vestito di broccato che portava a Corte. Si fece infilare una camicia adorna di trina e protese le gambe sottili per farsi mettere le calze di seta e le scarpe con le fibbie. Così maestosamente abbigliato, cenò da solo – una cena frugale – ma accompagnò il pasto con una bottiglia di vino del Reno, per sostenere le proprie forze. Rimase per qualche tempo nel padiglione, un po’ abbandonato sulla sedia; poi, mentre il sole si avvicinava all’orizzonte, raddrizzò le spalle e si mise ancora una volta in cammino verso il campo.
Le ombre ora si stavano allungando, sfumate di azzurro lungo tutti i declivi all’est. Piccole chiazze azzurre si allargavano ai piedi degli alberi isolati in mezzo alle spighe, come a segnarne la collocazione, e mentre il vecchio percorreva il sentiero, lo seguiva un’ombra sottile e straordinariamente allungata. Una volta si fermò di colpo; gli era parso di sentir cantare un’allodola sul suo capo, un suono primaverile; la sua mente stanca non aveva una percezione chiara della stagione; gli sembrava di procedere, e di ristare, in una sorta di eternità.
La gente nel campo non era più silenziosa come nel pomeriggio. Molti parlavano tra loro ad alta voce, e una donna un po’ in disparte dagli altri piangeva.
Nel vedere il padrone, il castaldo gli si avvicinò. In preda a un grande turbamento, gli disse che con ogni probabilità la vedova avrebbe finito di mietere il campo in un quarto d’ora.
« Il guardiacaccia e il carrettiere sono qui? » gli domandò il vecchio gentiluomo. « Sono venuti cinque volte », disse il castaldo « e cinque volte sono andati via. E ogni volta hanno detto che non sarebbero tornati. Ma sono sempre tornati, e ora sono qui ». « E il ragazzo dov’è » domandò ancora il vecchio gentiluomo. « È con lei » disse il castaldo. « Gli ho dato il per messo di seguirla. Ha camminato accanto alla madre per tutto il pomeriggio, e adesso potete vederlo al suo fianco, laggiù ».
Ora Anne-Marie avanzava verso di loro in modo più uniforme, ma con estrema lentezza, come se ad ogni passo fosse lì lì per arrestarsi. Quella eccessiva languidezza, rifletté il vecchio gentiluomo, se ottenuta di proposito sarebbe stata un vero esempio di arte sopraffina – inimitabile e pieno di dignità; ci si poteva immaginare che avanzasse a quel modo, nel corso di una processione o di un rito religioso, l’Imperatore della Cina. Si fece ombra con la mano, perché il sole era ormai tramontato, e i suoi ultimi raggi da dietro l’orizzonte facevano danzare davanti ai suoi occhi una miriade di lievi, sfrenate scintille multicolori. Il tramonto inondava la terra e l’aria di un tale splendore che il paesaggio si era trasformato in un crogiolo di gloriosi metalli. I prati e i pascoli erano diventati d’oro puro; il campo d’orzo lì vicino, con le sue lunghe spighe, era un lago fluttuante di vivido argento.
Nel campo di segale non rimaneva che una piccola chiazza di spighe, quando la donna, messa in allarme dalIa luce mutata, volse leggermente il capo per guardare il sole. Ma non interruppe il suo lavoro: continuava ad afferrare e a falciare manciate di segale, l’una dopo l’altra, l’una dopo l’altra. Una grande agitazione, e un suono che pareva un sospiro profondo e ingigantito, percorsero la folla. Il campo adesso era mietuto da un capo all’altro. Soltanto la mietitrice non se n’era ancora resa conto; protese di nuovo la mano, e quando la vide vuota sembrò perplessa o delusa. Allora lasciò cadere le braccia lungo il corpo, e lentamente cadde in ginocchio.
Molte delle donne scoppiarono in lacrime, e tutti le si affollarono intorno, lasciando solo un piccolo spazio libero dalla parte dove era fermo il vecchio gentiluomo. Quel trovarseli tutt’a un tratto così vicini spaventò Anne-Marie, che ebbe un piccolo gesto d’inquietudine, come se temesse che le mettessero le mani addosso.
Il ragazzo, che le era rimasto accanto tutto il giorno, ora cadde in ginocchio vicino a lei. Nemmeno lui osava toccarla; stava lì con un braccio proteso dietro la schiena della madre e l’altro davanti, all’altezza delle clavicole, per esser pronto ad afferrarla se fosse caduta, e continuava a piangere forte. In quel momento il sole sparì all’orizzonte.
Il vecchio gentiluomo si fece avanti e con gesto solenne si tolse il cappello. La folla tacque, in attesa che dicesse qualcosa. Ma per un minuto o due lui rimase in silenzio. Poi, parlando molto lentamente, si rivolse alla donna.
« Vostro figlio è libero, Anne Marie » disse. Dopo una breve pausa, soggiunse: « Avete fatto un’ottima giornata di lavoro, che sarà ricordata per un pezzo ».
Anne-Marie alzò lo sguardo, ma non oltre le ginocchia del vecchio, ed egli capì che non aveva sentito le sue parole. Si volse al ragazzo. « Goske », disse gentilmente « riferisci a tua madre quello che ho detto ».
Il ragazzo aveva continuato a piangere dirottamente, tra accorati e rauchi singhiozzi. Dovette fare uno sforzo per frenarsi e riacquistare un ceno dominio di sé. Ma quando finalmente parlò, col viso contro il viso della madre, la sua voce era bassa, quasi impaziente, come se le stesse dando una notizia banale. « Sono libero, mamma » disse. « Hai fatto un’ottima giornata di lavoro che sarà ricordata per un pezzo ».
Al suono della sua voce lei alzò il volto verso di lui. Un lieve, blando stupore passò come un’ombra sui suoi tratti, ma lei non diede segno di aver udito, e la gente intorno cominciò a domandarsi se la stanchezza non l’avesse resa sorda. Ma dopo un attimo ella alzò la mano, lentamente, con gesto malcerto, annaspando nell’aria per arrivare al viso del fìglio, e gli toccò la guancia. La guancia era bagnata di lacrime, che parvero trattenere leggermente le punte delle sue dita, come se lei fosse incapace di vincere quella tenuissima resistenza o di ritrarre la mano. Per un minuto si guardarono in viso. Poi, con un gesto lento ed estenuato, ella si abbandonò in avanti sulla spalla del ragazzo, e lui la strinse tra le braccia.
La tenne così, premuta contro di lui, seppellendo il viso nei suoi capelli e nel fazzoletto, così a lungo che le persone più vicine, spaventate nel vedere il corpo della donna così minuto tra le sue braccia, si accostarono e, chinatesi, la liberarono dalla sua stretta. Il ragazzo le lasciò fare senza una parola né un gesto. Ma la donna che aveva preso Anne-Marie tra le braccia per rialzarla si volse verso il vecchio gentiluomo. « È morta » disse.
Quelli che avevano seguito Anne-Marie per tutto il giorno continuarono ad aggirarsi sul campo per molte ore, finché durò la luce della sera. e anche più a lungo. Molto tempo dopo che alcuni avevano portato via la morta su una barella improvvisata con dei rami d’albero, altri ancora andavano su e giù tra le stoppie, seguendo e misurando il suo percorso da un capo all’altro del campo di segale, e legando le ultime spighe là dove lei aveva concluso il suo lavoro.
Il vecchio gentiluomo rimase a lungo con loro, facendo ogni tanto qualche passo, poi tornando a fermarsi.
In seguito, nel punto dove la donna era morta, il vecchio signore fece piantare una stele con una falce scolpita sopra. Allora i contadini del luogo battezzarono quel campo di segale « Il campo del dolore ». E quando la storia della donna e di suo figlio era già stata dimenticata da molto tempo, quel campo era ancora conosciuto con quel nome.
tratto da Karen Blixen, Racconti d’inverno, trad. it. Adriana Motti, Milano 1981.
Titolo originale della raccolta Winter’s Tales (del racconto Sorrow-Acre); prima edizione New York 1942.