Può darsi che il mio intervento suoni su un registro un po’ diverso da parecchi altri che hanno esaminato le caratteristiche della legge 431, 8 agosto 1985. Io non sono fra coloro che plaudono a questa legge, o più precisamente fra coloro che sostengono che da qui si può muovere per procedere oltre.
Nessun dubbio sulla cultura, sul dinamismo, sul pregio e sul rigore delle intenzioni di Giuseppe Galasso. Moltissime perplessità invece sui termini con cui le doti e le intenzioni del ministro sono state – per usare l’idioma dei burocrati – recepite dalla elaborazione ministeriale della legge. A quarant’anni da una dichiarazione costituzionale (art. 9: la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico») che ha servito solo come o retorica o ironica petizione di principi, priva di qualunque forza, perché ignorata in primo luogo dagli organi pubblici, la legge 431 ha più che altro il merito di fare risaltare la carenza di una buona legislazione in tema di salvaguardia ambientale, e non giustifica di certo l’ottimismo manifestato da parecchi protezionisti dopo la sua ratifica. La franchezza mi induce a dire che essa riflette una informazione culturale fondata sopra un brutto testo di geografia della scuola media unica.
Essa ignora che l’Italia lungo i 1200 km quasi dalla catena alpina al mare d’Africa squaderna una varietà di condizioni fisiche quanta se ne trova in altre regioni della Terra su di un arco di meridiano di 3 o 4 mila km; ignora che le realtà del paesaggio non si ritagliano o definiscono con gli ettometri e anche meno con l’applicazione di misure verticali o orizzontali uniformi per l’intera lunghezza di un paese incredibilmente diversificato; ignora che gli elementi dalla cui composizione esce il paesaggio non sono i pochi – quasi esclusivamente fisici – considerati isolatamente nel suo art. 1.
Un testo di legge non è una voce di dizionario o un articolo di enciclopedia: però quando enuncia principi o regole relativi a oggetti il cui significato lessicografico non è unico e di conseguenza non è concorde, la legge (secondo un vecchio insegnamento illuministico) dovrebbe essere tenuta a esplicare – fra i molteplici che circolano – il significato che essa (propriamente chi la fa) giudica più attagliato e perciò ha conferito al suo oggetto.
Se c’è una cosa intesa in modi i più diversi e che dà luogo a interpretazioni lontane fra loro, questa è oggi il “paesaggio”. La legge 431 stabilisce dei vincoli paesistici, ma non fa capire a che significato di paesaggio essa aderisca. I vari elementi elencati, con parecchia confusione di temi e di scale, nel suo art. 1, sembrano riferiti di volta in volta al paesaggio come ecosistema naturale di Renato Biasutti (cfr. Il paesaggio terrestre, 1962), al paesaggio come produzione e immagine estetica di Rosario Assunto (cfr. Il paesaggio e l’estetica, 1973), al paesaggio come risultato di una sedimentazione di processi storico economici e storico culturali che fu studiato da Emilio Sereni (cfr. Storia del paesaggio agrario italiano, 1961). Sono tre modi diversi di interpretare il paesaggio, egualmente validi e di notevole portata, che governano ciascuno una diversa specifica sfera. Questi modi – o meglio le prospettive delle loro analisi – sono in grado anche di integrarsi utilmente, come ha cercato di provare la mostra Paesaggio: immagine e realtà che fu allestita a Bologna nel 1981. Però non è facile individuare un piano corretto di interconnessione.
Nella legge 431 il mancato chiarimento dei concetti di paesaggio porta solo a confusioni ed equivoci: e logicamente produce una segmentazione, una episodicità della visione paesistica, che i cultori di questi problemi respingono decisamente e negano ai loro criteri di intendere il paesaggio.
Queste considerazioni giustificano in pieno, a mio parere, le cospicue riserve che sul testo di legge hanno espresso prima la regione Emilia e Romagna con la relazione 431, provvedimenti urgenti del gennaio ’86 (cfr. pp. 12-15, 37-41, 51-52, 132, 156-158, 195) e poi, con più sistematica incisività, il Cresme in una relazione del 4 febbraio ’86 intitolata Appunto sulle caratteristiche previste o possibili dei piani di cui all’art. 1 bis della legge 431/1985 (cfr. in particolare pp. 9-13), apponendovi numerose, basilari integrazioni che si rendono indispensabili per procedere a quei piani paesistici che l’art. 1 bis della legge, con disinvolta fretta dopo quarant’anni di inerzia, ha imposto alle regioni di risolvere entro quest’anno solare. Riserve e integrazioni che la regione Emilia e Romagna ha infine ribadito in modo più metodico nel documento del marzo ’86 Verso un piano paesistico regionale: schema metodologico (cfr. in particolare pp. 24-30).
C’è poi nella legge una incongruenza che si è trasmessa dalla sua formulazione fino al titolo del convegno «Dal paesaggio al territorio». Cosa significa il suo riferimento (art. 1 bis) ai piani paesistici in alternativa ai piani urbanistico territoriali? Vuol dire che secondo il parere degli organi ministeriali il paesaggio coincide con la territorialità nella sua composizione, nel suo ordito urbanistico? Vuol dire – secondo l’interpretazione che pare data dagli organi urbanistici della regione emiliano romagnola – che il paesaggio è una premessa alla costruzione delle maglie territoriali? A tale riguardo si imporrebbe un riesame dei rapporti semantici fra i due termini “paesaggio” e “territorio”: sono rapporti vagliati in parecchi convegni e testi specifici negli ultimi anni. E il risultato di questo discutere è che per dire le cose in breve – il territorio non nasce dal paesaggio, ma il paesaggio nasce entro e dal territorio. Il titolo del presente convegno va quindi rovesciato.
Quando diciamo “territorio” evochiamo non uno spazio qualunque, ma uno spazio definito e determinato da caratteristiche, o per meglio dire da un sistema di rapporti che unificano queste caratteristiche e che sono dovuti o a una omogeneità originale – cioè naturale, e più propriamente geomorfologica – o a una solidarietà conferita da qualche forma di organizzazione umana, soprattutto politico sociale. Caratteristiche che quindi richiamano di volta in volta principi fisici o ecologici, istituzionali o economici. Anche culturali in non poche circostanze. E solo quando gli uomini hanno una cognizione discretamente matura di questa individualità territoriale in cui dimorano, si svolgono quei processi di costruzione che con il loro sedimentare e incrociarsi hanno prodotto il paesaggio. Ciò equivale a dire che, siano ambientali o siano politiche le sue basi, un paesaggio unitario di cui l’uomo sia parte ha ovunque come premesse indispensabili una soddisfacente compattezza delle istituzioni di fondo, una relativa uniformità delle disposizioni legislative che coordinano la vita degli uomini nello spazio ove esso si è venuto definendo. Territorio e paesaggio sono dunque categorie non solo geneticamente allacciate, ma anche fortemente interconnesse in un unico disegno storico, per cui i piani operativi che ad entrambi si riferiscono non potranno in nessun modo essere ideati o eseguiti in alternativa fra loro (come fa la legge con il suo art. 1 bis). Dovranno invece essere impostati avendo pieno riguardo per la logica storica: che muove dalla entità territoriale – individuata secondo le sue diverse modalità di costituzione – e giunge alle strutture paesistiche. Solo per questa via, che scioglie le alternative infondate e quindi le incertezze che derivano da una particella disgiuntiva posta nel cuore di una norma di legge, ogni regione sarà in condizione di redigere il suo piano. Soprattutto quando sia tenuta presente una giusta considerazione che figura nella lettera del ministro Galasso ai presidenti delle regioni, di metà febbraio ’86: cioè che le regioni costituzionali sono entità territoriali fortemente complesse «la cui personalità storica e sociale solo parzialmente è espressa e si risolve nelle delimitazioni circoscrizionali dell’ordinamento vigente» (p. 3). È la prima volta che in un testo governativo ufficiale un ministro lascia capire di condividere quello che alcuni uomini di studio, scevri di angustie parlamentari, sostengono da parecchi anni: che cioè le regioni devono essere ridisegnate di sana pianta secondo principi di razionalità ambientale ed economica, se vogliamo che i nostri disegni urbanistico paesistici siano effettivamente efficienti. Dirò una cosa di più: ridisegnate sia nel loro complesso e sia al loro interno nelle singole articolazioni comunali.
Un’altra cosa di cui nella legge non c’è parola e che nei documenti dianzi citati è accennata con formule di una certa vaghezza, è quella dei metodi da seguire per lo svolgimento dei piani urbanistico paesistici. Personalmente credo che siano in primo luogo da individuare – come concreti, coerenti e significativi frutti della costruzione territoriale – le cosiddette “unità paesistiche” evocate (p. 28) nel fascicolo Verso un piano paesistico regionale. Ma bisognerà a tale riguardo stabilire prima con precisione che cosa si vuole intendere per “unità paesistiche”, indicare i loro elementi di base – che potranno essere varianti da zona a zona, ma in ogni caso comparabili per portata fra loro – e definire la loro scala che deve essere abbastanza uniforme. Da questa prima operazione scaturisce la seconda di individuazione delle unità paesistiche nel corpo di ciascuna regione, avendo cura di amalgamare quelle aree dislocate lungo le fasce periferiche di due o più regioni adiacenti, che rientrano inequivocabilmente nella stessa unità paesistica: ad esempio il nastro fluviale del Po almeno dalla garzaia di Valenza in giù, poi il grande triangolo del Delta, poi le lunghe sezioni omologhe della dorsale peninsulare (fra le valli dello Scrivia e del Taro, fra le valli del Taro e del Reno, fra le valli del Reno e del Marecchia). La terza operazione sarà quella di riconoscere il sistema di rapporti che lega fra loro gli elementi che esprimono in modo peculiare le caratteristiche del quadro paesistico e di selezionare fra essi quelli che per valore intrinseco, o rarità o vulnerabilità ecc., esigono un intervento di tutela. C’è infine una quarta operazione – quella di analisi delle vocazioni di utilizzo e di valutazione degli oneri sociali della tutela – che è stata già prevista dai documenti che ho nominato. Ma le prime tre fasi operative – definizione di unità paesistica, identificazione di queste unità in ogni ambito regionale, selezione degli elementi paesistici da proteggere –, che sono le più rilevanti perché costruiscono l’intelaiatura e l’armatura del piano, sono anche quelle che per ora trovano unicamente allo stato iniziale, alle prime approssimazioni e quindi parecchio fragili e sguarniti i nostri studi. Dovremmo essere consapevoli che in questo campo possediamo quasi solo impressioni descrittive o abbozzi geoiconografici che servono a un primo orientamento, ma entro limiti abbastanza ristretti per una prospettiva di ampio respiro. Per una documentazione esaustiva ai fini del piano ci vuole altro e ci vuole molto di più. Sono imprescindibili degli studi da svolgere criticamente al di fuori della consuetudine di routine. Immergiamoci in questi studi, facciamoli con la dovuta penetrazione, con rigore e compiutezza. E solo dopo che saremo soddisfatti dei loro risultati faremo il piano.
Intervento al convegno “Dal Paesaggio al Territorio”, Bologna 5-6 giugno 1986, organizzato da Regione Emilia-Romagna, Istituto Regionale per i beni artistici [n.d.r.].
Lucio Gambi, La costruzione dei piani paesistici, in «Urbanistica», 85 (1986), pp. 102-105.
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