Dall’isola di Mount Desert a Montreal, in auto, attraverso la foresta del Maine e la pianura canadese; poi da Montreal a Vancouver, con un treno che attraversa in quattro giorni il continente, si passa dall’Atlantico al Pacifico. Corre voce che questo servizio passeggeri verrà presto soppresso per lasciar circolare su binari unicamente le merci. L’“operazione viaggiatori”, a quanto pare, non è più “redditizia”, per usare questo termine che esce dal gergo del nostro tempo. Sarà un peccato. Con la Transiberiana, questo treno è il solo che colleghi due mondi. La linea divide dapprima la zona boschiva in due parti: i villaggi e i grossi borghi isolati, i paesini in cui abbondano quelle specie di vagoni senza ruote che sono le abitazioni semimobili, trasportabili altrove quando si presenta un impiego più rimunerativo, si susseguono, sparsi qua e là, separati gli uni dagli altri da ore di strada ferrata, ma ravvicinati oggi dall’aereo. Le case di legno, più o meno grezze, non sono affatto meglio delle abitazioni mobili; un’assenza di proporzioni dovuta al fatto che è facile aggiungervi una camera, affiancarvi un garage o farvi crescere un piano a mansarda, finisce per conferire loro l’aspetto di una serie di scatole dipinte di bianco-grigio. (Gli Stati Uniti rurali soffrono dello stesso male.) Villaggi insignificanti, dominati soltanto da una chiesa pesante e imperiosa. Si sente che questa terra aspra, colonizzata troppo tardi perché le sue foreste fossero, come in Europa, il rifugio degli eremiti e il regno delle fate, non è mai stata amata teneramente né appassionatamente.
“Ci sono posti della terra così belli che si vorrebbe stringerli al petto.” Nessuno sembra aver avuto voglia di stringere al petto la terra canadese. I cacciatori l’hanno percorsa per procurarsi le pellicce destinate a foderare il manto del cancelliere d’Inghilterra o a ornare la scollatura delle dame di Versailles; immigranti, che custodivano nel cuore la loro Bretagna o la loro Normandia natale, hanno dissodato e coltivato con fatica questa terra difficile. Da nessuna parte si ha la sensazione di un paesaggio umano che affondi amichevolmente nel terreno le proprie radici, congiunto a esso come lo sono i più piccoli villaggi italiani alle loro vigne, o le fattorie scandinave ai loro campi fiancheggiati da abetaie. Nessuno ha ornato l’esterno delle case per il piacere degli occhi, né riempito di fiori i giardini, né tracciato dei sentierini sul limitare dei boschi solo per il gusto di farlo. La vita dura in un clima duro ha consigliato all’uomo soltanto l’aggressione e lo sfruttamento. I prototipi virili sono rimasti il cacciatore di pelli, quello di grossa selvaggina, il massacratore di foche e il taglialegna. So bene che questi scarsi modelli umani non rappresentano tutto il Canada. Comunque, pochi di questi villaggi visti dal finestrino di un vagone ispirano la voglia improvvisa di scendere, come lo si farebbe in un borgo della Provenza o dell’Inghilterra, con l’intenzione di trascorrervi la vita. Luoghi, al tempo stesso, aperti e chiusi.
Ma le confidenze talvolta aprono spiragli in queste case troppo chiuse. Il treno si ferma a lungo in una stazione deserta dell’Abitibi o dell’Ontario del Nord, dove, in mancanza di meglio, faccio amicizia con un cane bianco. Penso ai ricordi di uno dei miei amici canadesi la cui infanzia e la cui giovinezza sono trascorse in qualche località simile a questa. Il padre, ricco imprenditore, cui non passò mai per il capo di uscire dal proprio borgo natio (quando suo figlio, al rientro dall’Italia, mostrò una sera delle diapositive di Firenze o di Roma, lo si sentì dire, affermazione che non è senza scabra grandezza: “Non sono altro che terra e pietre”); la solida casa di famiglia situata di fronte alla chiesa, e il libero pensatore, comodamente seduto con i piccoli sulla veranda, che guardava la mamma entrare tutta agghindata nel luogo santo dove lui non aveva mai messo piede e che ripeteva di tanto in tanto con compiacimento ai bambini: “Vostra madre è una bella donna”; sempre lo stesso che, avendo perduto le chiavi della sua auto, la demoliva a colpi di accetta (non si è stati boscaioli per niente), impaziente di riprendere gli oggetti che vi si trovavano; la sorella, per trent’anni suora in Congo, che era ritornata moribonda e un po’ amareggiata, lamentandosi sommessamente delle implacabili abitudini del suo ordine, ma che il fratello non aveva voluto rivedere, “perché lei non è più dei nostri”; le libertà prese dagli uomini nelle capanne della foresta, lontano dalla famiglia e dalle donne; gli sposati che dividevano tra la casa e la chiesa una vita che, forse a torto, ci sembra grigia; la brama di vivere dei figli che sognavano la grande città. L’universo umano come dappertutto. Una certa nobiltà primitiva; ancora maggior durezza e anche maggior generosità, talvolta, che nei contadini francesi; una bruma di oscurantismo (sia esso religioso o ateo) e un materialismo quasi irrespirabile.
Durante una traversata simile, circa sette anni fa, avevo osservato quasi giorno e notte dal finestrino del mio scompartimento gli animali selvatici; mi ricordo, tra gli altri, un alce che attraversava un fiume e si scrollava sull’altra riva. Questa volta, non ho visto che pochi cervi al pascolo sul limitare dei boschi, forse perché in questi primi giorni di settembre, meno caldi di quelli di giugno, le possenti bestie della foresta non si tuffano più nei laghi e nei fiumi per proteggersi dai tafani. Non ho sentito menzionare nemmeno gli incidenti dell’autunno, quando, si dice, degli alci ingannati dal muggito del treno si gettano tra i binari, credendosi sulle tracce di femmine in calore, ma probabilmente è ancora troppo presto per questi drammi nuziali. In capo a due giorni, la regione boschiva lascia il posto alla pianura già mietuta dai trattori; e, di nuovo, quei campi smisurati, il cui prodotto è quotato in Borsa, si umanizzano ai miei occhi quando l’amico che mi accompagna mi racconta che una volta, all’età di quindici anni, è salito dagli Stati Uniti fin qui per il raccolto. Ancora più in là, sorge una città selvaggiamente americanizzata, che sembra nata dall’unione di un silos e di una pompa di benzina, benedetta da un computer. I segni dell’intervento umano diminuiscono man mano che le dirupate Montagne Rocciose vengono verso di noi. Ma questa volta non vedrò i grandi parchi: niente orsi bruni, avidi degli avanzi del picnic dei turisti, e nemmeno, lungo i binari, per ragioni stagionali o altre, i cani della prateria: quegli scoiattoli terricoli dell’Ovest, schierati a distanza appena rispettosa dalla strada ferrata, che se ne stanno ritti sui posteriori come se fossero dei cani da salotto, dondolando le loro zampette anteriori. Il ricordo dello stesso tragitto compiuto sette anni prima con un’amica malata riappare a tratti in filigrana dietro a questo. Ma è caratteristico della filigrana l’essere visibile solo quando si mette il foglio in controluce. Il resto del tempo, non ci si accorge che c’è.
tratto da Marguerite Yourcenar, Il giro della prigione, trad. it. Fabrizio Ascari, Milano 1999.
Titolo originale Le tour de la prison, Parigi 1991.