Il viaggiatore, soprattutto se appartiene alla varietà “garden-club”, dedica spesso troppo poco tempo ai grandi boschi sacri che circondano i templi buddisti o shinto. Tenuti con cura, ma non sistemati dall’uomo, sono troppo vasti e troppo privi di ornamenti floreali per appartenere alla categoria “giardini”. A Ise, i venerabili santuari shinto, squisitamente costruiti, e il cui solo materiale è la criptomeria, vengono rifatti ogni venticinque anni, e il vecchio legno si trasforma in talismani, o in ricordi per i pellegrini, o in combustibile per i bracieri del tempio. Sparpagliate nella natura come capanne polinesiane, talvolta così sacre che l’imperatore soltanto vi ha diritto di accesso, queste modeste strutture sembrano nane accanto agli alberi giganteschi, fratelli viventi dei tronchi che fornirono i pilastri lisci e i travetti ben squadrati delle cappelle. Portano in essi la divinità di cui le edicole umane sembrano semplicemente racchiudere o concentrare una particella. A Nikko, il barocco delirante dei templi, testimonianza del fasto degli shōgun, importa meno della maestà dei boschi. A Omiwa, vicino a Nara, l’altare innalzato in fondo a una vasta sala di culto non si staglia, come ci si aspettava, contro un sancta sanctorum di oggetti foggiati dalla mano dell’uomo, ma direttamente contro la montagna-dio. A Miyajima, sul mare Interno, non lontano dalla fatale Hiroshima, il portale sacro del grande santuario shinto, semisommerso, si affaccia sul mare.
I monasteri buddistici sono cresciuti anch’essi nei parchi, il più delle volte lasciti di imperatori o di principi che vi si isolavano prima di morire e le cui tombe discrete vi si trovano ancora. A Matsushima, al tempio zen dello Zuigan, le alte criptomerie spargono una pace crepuscolare sulla meditazione dei monaci; all’Horyu-ji, invece, non lontano da Nara, gli edifici più che millenari si susseguono lungo viali senz’ombra e coperti di ghiaia scricchiolante, dove qua e là si innalza solitario un grande albero, asciutte prospettive che vengono dalla Cina dei Tang. Ma anche lo Horyu-ji, in origine, si adagiava in seno a una solitudine agreste o silvestre: il confuso agglomerato urbano nelle immediate vicinanze, le strade e le rimesse, sono del nostro tempo. Questa potente natura viene interpretata in maniera differente dal genio buddista e dal genio shinto. Qui, il ricettacolo di otto milioni di kami, della terra, dell’aria e dell’acqua, cui talvolta non sono stati nemmeno dati dei nomi, il paesaggio puro che, grazie all’efficacia benevola del rito, accetta anche l’uomo; lì, l’immenso universo sottomesso al miraggio del cambiamento e della durata, dietro il quale il contemplatore scorge il Vuoto, come dietro le nuvole il cielo. Il Kokedera, a Kyoto, chiuso da ogni parte, ma fuso, si direbbe, nella natura circostante, sembra a mezza strada tra il sottobosco sacro e il giardino simbolico, in cui ogni forma esemplifica un concetto. “Lottate senza tregua; tutte le formazioni sono periture,” diceva il Budda morente. I giardinieri che passano e ripassano accuratamente le loro scope sulle quarantaquattro varietà di muschi del Kokedera, sembrano obbedire a tale ingiunzione: eliminano devotamente il più piccolo ramoscello, la più piccola foglia caduti su questo mare verde che fu in origine, secoli fa, un giardino di sabbia.
Anche al Ryoan-ji, il famoso giardino delle pietre, quasi consumato a forza di essere stato contemplato dai visitatori, carico di tutte le ipotesi esplicative che alcune palate di sabbia e alcune rocce possono sopportare, è racchiuso in un parco in cui crescono liberamente degli alberi e in cui un airone su un ramo morto, spia una preda in riva a uno stagno. Il vasto Byodo-in, con il suo laghetto in cui si riflette il santuario, si estendeva un tempo per circa trenta ettari lungo l’impetuoso fiume Uji; prima di appartenere a un tempio, fu il luogo di delizie di un principe o di un alto funzionario dell’epoca Heian. I giardini del Padiglione d’oro e quelli del Padiglione d’argento, assediati dai casamenti della Kyoto moderna, sono stati concepiti come ritiri in piena solitudine: soltanto alcuni gradini separano il paesaggio ingegnosamente composto del Padiglione d’argento da una collina dalla vegetazione quasi vergine. In questo paese, dove l’ottantacinque per cento del territorio è costituito da massicci montuosi e da pendii irti di pini, rifugi tradizionali delle scimmie, dei cinghiali, dei geni dal naso a punta e degli anacoreti, gli straordinari monasteri del Koyasan e dell’Hieisan sono fortezze silvestri.
Hortus conclusus: i più bei “giardini giapponesi” propriamente detti risalgono, come il nō e la cerimonia del tè, al periodo che va dal XIV secolo agli inizi del XVI. Sono di obbedienza zen. Degli asceti, o talvolta degli edonisti, hanno disegnato le cascate limpide che precipitano in pietraie, gli stagni la cui forma imita quella del carattere cinese che significa “cuore”, ma le erbe pendule e il rigonfiamento dei muschi impediscono di vedere con una certa chiarezza che tale specchio d’acqua è una calligrafia. Hanno innalzato i poggi argillosi, i cui profili aumentano l’effetto del chiaro di luna, e hanno fatto tagliare gli alberi in modo da imitare le deformazioni del vento. Gli shōgun Ashikaga, poco dotati per il potere, ma in meravigliosa sintonia con le arti e con i piaceri del secolo, hanno fatto del Padiglione d’oro e del Padiglione d’argento dei rifugi fuori della capitale devastata dalle guerre civili, dalla carestia e dalla peste; gli stessi mali hanno sicuramente spinto o trattenuto i fedeli nella pace dei conventi e dei giardini zen. Per un parallelismo strano, ma osservabile di frequente, in tempi in cui l’Europa e l’Asia sembravano pressoché staccate l’una dall’altra, il momento in cui la soave austerità zen permea in Giappone tutte le arti, dal teatro all’orticoltura, è anche quello in cui i mistici della Renania e delle Fiandre, nei loro monasteri in parte protetti dagli orrori del tempo, praticano la “teologia negativa”, cioè speculazioni molto vicine a quelle del buddismo.
E ugualmente l’epoca in cui i pittori fiamminghi dipingono in giardini chiusi, sotto alberi da frutto o tra le rose, sante e angeli, mentre in Giappone i virtuosi del giardino compongono l’equivalente dei mandala indù, non più sulla seta o sulla carta di riso, ma direttamente sulla terra, un microcosmo minerale e floreale stretto tra palizzate di bambù e muri bassi. Abituati com’erano a meditare sulla relatività delle cose, i monaci gialli hanno visto nelle rocce del Ryoan-ji non solo un simbolo di resistenza, ma le alte cime delle montagne della Cina e dell’India; per una sorta di metafora invertita, le linee circolari tracciate sulla sabbia sono state onde; uno stagno ha raffigurato l’oceano. I giardini chiusi del poeta e del pittore cristiano sono paradisi, o anche emblemi della verginità di Maria; quelli del monaco zen attestano al tempo stesso il malinconico “ah!” delle cose e la bodheità2 celata in fondo a esse. Per gli adepti di sette più popolari del buddismo, ogni ninfea è il loto sacro su cui sperano di rinascere nel paese della Terra Pura.
Non è sorprendente che tali giardini di contemplazione siano diventati per noi lo specchio perfetto dell’anima giapponese, come lo haiku (o haikai), nato verso la stessa epoca, in cui tutto l’universo è racchiuso in una foglia che tremola o in una rana che si tuffa nell’acqua, ci sembra oggi la forma suprema della poesia nipponica. Persino nelle strette viuzze delle città, talvolta incastrate tra due case all’occidentale che sono quasi nuove e non lo sembrano già più, sui tre scalini umidi che separano il cupo interno dall’esterno, due o tre crisantemi in vaso, arruffati, ottenuti con molti incroci, oppure due o tre iris primaverili, dallo stelo e dalla corolla rigidi, simboli della dinastia solare, e, in ogni stagione, uno o due bonsai, emblemi di perennità, introducono nelle esistenze cittadine un po’ di natura, stilizzata ma vivace. L’arte del giardino giapponese si trova già tutta in quei vasi di crisantemi e in quei bonsai.
Giardini squisiti, ma non giardini di delizie, come se ne vedono nelle miniature iraniche o moghul, e di cui l’India ha conservato almeno alcune vestigia. Ancor meno giardini di prestigio, come i viali di Versailles, o le terrazze e le scalinate monumentali dei giardini italiani, o anche le lunghe prospettive dei Tang. Vi si cammina a fatica; le lastre disuguali che conducono il visitatore da un angolo all’altro dei giardini imperiali del Katsura, lo obbligano a dividere la sua attenzione tra lo spettacolo che gli si offre e dove mettere i piedi. Indubbiamente, gli spaziosi giardini Heian e quelli degli shōgun sono serviti da scenario a feste, alcune rimaste leggendarie per il loro fasto e per la folla che vi si accalcava. Tuttavia, le pitture del tempo ci mostrano sempre gli invitati intenti a conversare in padiglioni semichiusi, che al tempo stesso si aprono sul paesaggio e ne separano i loro occupanti, o anche ad ascoltare musica su barche galleggianti esse stesse su uno stagno scavato dall’uomo.
La natura qui è per la vista più che per il tatto. Nel giardino giapponese non si trovano amanti sdraiati sull’erba o immersi nelle fontane; ancor meno, se possibile, la sensazione di benessere e di rilassamento che si impadronisce di noi nei nostri giardini, forniti di sedie a sdraio su cui ci si lascia cadere, e dove bambini o cani si rincorrono sull’erba. Questi luoghi rigorosi e delicati sono fatti soprattutto per essere contemplati dall’interno di una casa dalle pareti mobili, seduti a gambe incrociate sul bordo del parquet liscio, lasciandosi penetrare dal crepuscolo o dal chiaro di luna. La parte dell’olfatto è abbastanza ridotta: né gli iris, né le peonie, né i crisantemi, fiori tipicamente giapponesi, hanno profumo, e i ciliegi, ancora più sontuosi dei nostri, non producono frutti. I fiori, piantati con una negligenza solo apparente, non hanno l’abbondanza sensuale delle nostre aiuole: nessun innamorato dei fiori, né del resto nessun innamorato e basta, verrebbe a raccogliere qui gli abbondanti mazzi di un Degas, di un Fantin-Latour, o di Bruegel il Giovane: una tale prodigalità sarebbe sacrilegio. I fiori, così amati, sono oggetto di un amore diverso dal nostro: alcuni discepoli occidentali dell’ikebana, l’arte giapponese delle composizioni floreali, hanno spesso osservato che il fiore, prima di prendere il suo posto in una disposizione esatta e sobria, viene considerato dal maestro e dai suoi allievi solo come un materiale. Il bonsai, capolavoro nipponico di collaborazione con la natura, viene piegato, sfrondato, affamato, per fare a poco a poco di esso quella meraviglia che durerà secoli: è trattato con lo stesso rigore di un uomo del bushido.3
Nulla di meno nipponico del gesto dello scrittore Yu-kio Mishima in una delle sue più belle e celebri fotografie: l’uomo assorto in una rosa, con il volto appassionatamente affondato in una corolla come per baciarla o divorarla, non corrisponde a ciò che si crede di comprendere dell’elusiva sensibilità giapponese. Invece, nel suo film Patriottismo, Mishima ci offre a parecchie riprese un simbolo quasi sconvolgente delle posizioni reciproche dell’uomo e della natura in terra giapponese. Nella modesta casa di una stradetta di Tokyo, dove il tenente e sua moglie attuano il loro suicidio – lui, per punto d’onore, per non sopravvivere ai compagni arrestati durante una rivolta; lei, per fedeltà all’uomo che si uccide – vediamo compiersi il rituale delle ultime carezze, la preghiera davanti all’altare domestico e, infine, la morte atroce dell’uomo e il suicidio più breve della donna. Ogni tanto, però, la cinepresa si sposta, e noi scorgiamo, all’esterno, nella stretta bordura di giardinetto che circonda la casa, un giovane abete coperto di neve. Mentre nella dimora umana si fa l’amore, si prega, si soffre e si muore, l’alberello è sempre là; là, benché anch’esso effimero, il suo manto di neve bianca.
tratto da Marguerite Yourcenar, Il giro della prigione, trad. it. Fabrizio Ascari, Milano 1999.
Titolo originale Le tour de la prison, Parigi 1991.
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