Resiste, resiste, resiste. Il panevìn resiste. La sera del 5 gennaio, nelle campagne, nelle piazze, nei vicoli, nei meandri, a lato delle strade, si accende uno specialissimo tipo di fuoco. Non è un fuoco come quello che si accende tra amici, sempre più raramente, per ritrovarsi una sera d’estate a chiacchierare, né quello acceso per cucinare, né…
E’ un fuoco così: speciale, che attira molta gente intorno, atteso da vari giorni, prefestivo, diverso, altro ….
Ho usato aggettivi e frasi inusuali per questa fenomenologia urbana-agricola, questo fuoco, il panevìn, e il lettore potrà associarsi a questo esercizio di descrizione inusuale. A un patto però: non descrivere il panevìn come tradizione della cultura contadina, non spiegarlo come risposta ad alcuni bisogni.
Bisogni? Non sappiamo bene a quali bisogni risponda un tale fuoco, né se effettivamente risponda a dei bisogni. Più che di bisogni bisognerebbe parlare di potere: in passato esso era usato dalle famiglie più potenti per esprimere la loro potenza (1).
La maggior parte delle persone non ha alcun “bisogno” del panevìn, e vi assiste passivamente e ripetitivamente. Moltissime persone, se nessuno più si occupasse di costruire la catasta di legna, non penserebbero minimamente a mettersi a farlo esse stesse, non ne sentirebbero “il bisogno”.
Tradizioni? Le tradizioni sono invenzioni, storicamente databili, socialmente costruite, culturalmente funzionali. Il panevìn era quasi dimenticato, nel secondo dopoguerra, ma è stato rivitalizzato come momento associativo in cui un grande ruolo rivestono le associazioni locali. C’è sempre chi crede che il panevìn nel trevigiano sia una tradizione trevigiana, nel pordenonese una tradizione pordenonese, nel padovano una tradizione padovana. Invece, l’accensione dei fuochi nel periodo del solstizio è una pratica estesa in tutto il mondo, come vedremo anche più oltre in questo scritto.
Non tradizione, non bisogno, non rito… per leggere il panevìn 2015 possiamo concentrarci sul fuoco.
Altare di fuoco, tavolette di fuoco, taglia e brucia col fuoco, elementi classificati dalla parte del fuoco, fuoco del sacrificio bramanico, stregoni trasformati in una sfera di fuoco, il frutto del fuoco… sono molte le immagini del fuoco e le esperienze che con il fuoco si sono costruite da parte dell’umanità tutta.
La mia –di immagine- è una esperienza che non ho mai visto nella realtà, ma che mi è stata raccontata: una mia zia all’ora del tramonto (non ancora buio, appena pomeriggio tardo…) prende alcuni mannelli di canne del granoturco (sempre più rari, oggi quasi introvabili…), si reca nell’orto dietro casa, orto ghiacciato in inverno, con le aiuole vuote, li dispone a capanna, aggiunge qualche sterpaglia se c’è, accende il fuoco, piccolissimo, brucia piano, mentre lei prega… e potrebbe essere qualsiasi tipo di preghiera….. poi il fuoco si spegne rapido, lei lo lascia accasciarsi un poco, si segna in volto, mette in sicurezza le poche braci, rientra in casa. Non l’ho mai vista fare questo piccolo panevìn. Quest’anno che volevo filmarla è troppo tardi: è anziana e non lo fa più. Ecco, qui sarebbe da cominciare ad indagare… bisognerebbe sempre indagare …
Quello che ci servirebbe è una indagine del panevìn oggi. Non le frasette ripetitive e banalizzanti dei mass media locali, amici dei potenti di turno, sempre pronti a parlare di tradizioni contadine quando il mondo contadino i potenti veneti di turno (gli amici fedeli del capitalismo distruttivo) lo hanno appena fatto fuori tutto, devastandone l’ambiente di vita (e inventando poi i musei della vita contadina).
Gli articoli dei mass media servono a convogliare le masse (2) e a rafforzare lo stereotipo delle tradizioni locali. Rafforzare questi stereotipi con una bella festa intorno al fuoco, con un nome (panevìn), con una connotazione (le nostre tradizioni), senza alcuna riflessione critica senza alcuna storicizzazione, senza alcun studio, serve a convincere che esistono delle tradizioni locali che ci danno un’identità, e se noi abbiamo un’identità nostra allora bisogna difenderla, come si difenderebbe un bambino, un figlio (ecco, le identità hanno il sentimento proprio di “figlio”); bisogna difenderla dalle tradizioni degli altri, dagli altri che vengono “da fuori” o da lontano, che non prendano spazio e non prendano la parola qui in mezzo “a noi” e non ci tolgano le nostre tradizioni. Il panevìn vissuto come “tradizione” e come “identità” rafforza un percorso molto pericoloso che sfocia già oggi nel razzismo, poiché ogni razzismo è costruito sulla identificazione di un gruppo contro l’altro, con contrapposizione e felice difesa di “tradizioni”(3). Stupida gaiezza, direbbe Andrea Zanzotto.
Esiste però almeno una indagine del panevìn seria e rigorosa, scientificamente fondata, ed è un libro scritto dall’etnografa Antonella Pomponio (4). Tre anni di studio, interviste, documentazioni sui fuochi della notte dell’Epifania. Il libro dimostra, tra le altre cose, come la costruzione del panevìn inteso come tradizione e identità comprenda anche il mito dell’esclusività di questo rito. Insomma, i locali che fanno il panevìn crederebbero che sia una cosa che si fa “in questa zona”. Il libro dimostra invece come questo tipo di fuoco sia diffuso nel mondo, su tutta la Terra: “Questi riti periodici non sono prerogativa delle società agricole, ma li ritroviamo in civiltà della caccia-raccolta e della pesca, specialmente in ambiente nordico o temperato. […] Gli indigeni Wheelman e gruppi attigui, cacciatori e raccoglitori dell’Australia sud occidentale, al termine della stagione di siccità festeggiano l’evento con una cerimonia detta Mancarl, che consiste in balli e canti attorno a fuochi accesi nel centro dei campi […] Gli Eschimesi, civiltà di cacciatori-pescatori, durante la stagione invernale danno vita a numerosi riti, tra cui la festa del solstizio invernale, che consiste nello spegnimento e nella riaccensione di numerosi fuochi al fine di scongiurare la carestia che minaccia il gruppo. […] E’ curioso constatare come alcuni informatori pensano che il rito dell’accensione dei fuochi sia diffuso esclusivamente nella provincia di Treviso, e rimangono perplessi quando sentono parlare di falò simili in altre zone” (Pomponio 2002: 98).
Il libro citato è del 2002, e da allora alcune cose sono cambiate: la gara per costruire il panevìn più grande ha lasciato posto (nei consumatori di feste che si aspettano sempre qualcosa di nuovo, come la sorpresa degli ovetti Kinder) nel 2013-2014 alle polemiche sull’inquinamento generato da questo fuoco, poiché si usa bruciare rifiuti e gomme di auto e camion (emblemi dell’ industrializzazione consumistica), ramaglie di viti che hanno assorbito pesticidi (emblemi dell’agricoltura industriale), altre plastiche varie.
L’ARPAV ha misurato i picchi di inquinamento nell’aria, il Questore di Treviso ha dato direttive di contenimento e regolamentazione dell’altezza dei falò (altezza massima cinque metri), alcuni sindaci hanno protestato, il Presidente leghista della Regione Veneto ha incitato a non rispettare gli ordini, è intervenuto un eurodeputato ambientalista (5), i grillini hanno rivendicato una tradizione pulita (6), il WWF è intervenuto con chiarimenti e appelli (7)…. e avanti così. Avanti così e anche al contrario di così, come niente fosse, poiché i giochi di inversione dei significati sono parte del gioco del nostro mondo politico contemporaneo, anche al prezzo di sovvertire ogni realtà, soprattutto quella ambientale (come dimostra la storia degli umidi ambienti dei palù seppellititi dall’ autostrada A28) (8).
Ho letto il libro dell’etnografa Antonella Pomponio, per cercare di capire. Quello che capisco è questo: se metto in fila tutti i gesti che si compivano in riferimento al panevìn fino a prima degli anni ’50, cioè fino a prima dell’era dell’antropocene (l’era in cui per la prima volta nella storia dell’umanità l’industrializzazione è in grado di intervenire e modificare i meccanismi profondi della Terra), prima del consumismo sfrenato, si ottiene un quadro impressionante; impressionante perché emerge che il panevìn era FATICOSO. Esso implicava una lunghissima serie di particolari attività:
– Fare siepe a mano, tenendo a mente la rotazione della potatura delle siepi e scegliendo la siepe i cui scarti di potatura andranno costruire il panevìn.
– separare la legna buona da quella di scarto da utilizzare per il panevìn. Raggrupparla con la forca e la sola forza delle braccia.
– costruire il panevìn a mano (senza l’aiuto di alcun mezzo se non il carro per alzarsi): palo centrale, bracieri attorno a sorreggere la legna, differenziazione della legna e posizionamento delle canne o cartocci per l’accensione.
– costruzione lavoro differenziato in base al genere: gli uomini il panevìn, le donne la vècia (la vecchia, il fantoccio da bruciare sopra il falò) e il cibo da offrire.
– i giorni precedenti: mettere il ceppo di Natale e conservarne un tizzone fino all’epifania per accendere il panevìn
– processione dalla casa al panevìn con il tizzone per l’accensione.
– benedizione del falò con acqua benedetta da procurarsi il giorno prima.
– durante i primi momenti del panevìn: offerte di prodotti al falò: piccoli salami, fagioli, semi, vino, venivano buttati sopra il panevìn e per ognuno di essi si invocava: “Signore màndane” (Signore mandaci) … e seguiva il nome del cibo richiesto (9).
– canti delle litanie e preghiere varie.
– discussione dei pronostici sull’anno futuro e verifica del passato.
– consumazione del cibo fatto in casa, dono e scambio.
– alla fine del panevìn: spegnimento e guardia delle braci per tutta la notte (animaletti avrebbero potuto avvicinarsi e propagare il fuoco nei fienili…)
– al mattino successivo processione di buonora nei campi e negli argini dei fiumi, con preghiere speciali, a piedi scalzi.
– “battitura” (con un pezzo di legno bruciacchiato prelevato dai resti del panevìn) di piante, animali, terra, botti e arnesi del lavoro contadino per indurre alla prolificazione, alla fertilità, per risvegliare la natura dal letargo invernale … (10).
– successivamente uso di ceneri e residui del panevìn nella concimazione di parti dei campi.
Il panevìn-non-consumistico era dunque faticosissimo. Era faticoso, e solo la festa comunitaria e i buoni cibi che si consumavano compensavano l’obbligo alle azioni correlate prima durante e dopo il panevìn. Induceva a una tale quantità di azioni da fare e di gesti, parole e canti da rispettare, e obbligatoriamente da eseguire, che ben si capisce come esso sia stato accantonato appena fu possibile, nel secondo dopoguerra.
Se oggi come tante tradizioni il panevìn è stato reinventato, come ben illustra il libro di Pomponio (11), esso è di sicuro il panevìn-del-consumismo, qualsiasi sia stato il comitato promotore: costruzione del falò con uso di macchinari vari, auto parcheggiate nei dintorni, grandi mense per la massa che deve mangiare, cibo spazzatura per tutti, spesso cibo a pagamento e non più donato, musica a tutto volume da casse elettrificate ben disposte, illuminazione a giorno intorno al falò, botti e petardi, fuochi d’artificio a dimensione ridotta, per un consumo e acquisto individuale …. Tempo totale: poche ore, la sera del panevìn, il 5 gennaio nella Felice Marca Radiosa Trevigiana.
E’ l’avvento di Homo comfort, direbbe l’antropologo Stefano Boni, che ha studiato il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze (12): “Homo comfort aumenta vertiginosamente la facoltà trasformativa mediante un’esponenziale crescita tecnologica che gli permette di soggiogare a piacimento i processi naturali con un’invadenza, una forza, una capillarità, un’ubiquità che non hanno precedenti” (S. Boni, 2014, pag. 177). Homo comfort per superare la fatica, di grado in grado, perde la sua artigianalità, la padronanza di saperi e di saper fare, l’autonomia professionale, l’interazione sapiente con la natura, la capacità di monitorare le ferite inferte all’ambiente. Homo comfort ha creato una fase storica “in cui il delirio di sottomissione totale della natura ai capricci consumistici dell’umanità contemporanea mina alla base qualsiasi prospettiva di lungo periodo” (S. Boni, 2014: 197). Homo comfort preferisce di sicuro un panevìn così.
Le mie conclusioni non possono che essere ispirate al lavoro dell’antropologo Philippe Descola (13) che nei sui studi sul rapporto tra natura e cultura ci ha mostrato che esistono modi di fare le cose umane relazionandosi alla natura in modo intimo e paritario; ai lavori di Gilles Clément che ha indicato che in fondo l’unica cosa che dovrebbe interessarci è stare vicino al “vivente” umano e non umano, lasciarlo vivere e andare (14).
Quindi: non titoli di giornale o poster ai crocicchi delle strade che indicano alle auto dove raggiungere un panevìn o l’altro. Bisognerebbe indagare qualcosa di più intimo e profondo, di più vitale. Gesti significativi: zia, come facevi? Cosa pensavi mentre? Perché e quando hai smesso? Come e quando avevi iniziato?
E magari riprovare a fare un piccolissimo fuoco, quasi individuale (fuori dalla pericolosa massa), poiché una nuova ecoantropologia avrà bisogno di gesti minuti e delicati, sostenibili.
Come sarebbe allora molto più vitale sentirsi immersi in un grande ciclo cosmico e in un grandissimo pianeta vivente dove umani qualsiasi (che non hanno bisogno di combattere per una definita identità) esprimono qualcosa di umano accendendo un fuoco speciale, una sera o l’altra dell’anno, e si sentono in comunione con tutti gli esseri della Terra, e con tutti gli umani che stanno sulla Terra con gli altri esseri non umani della Terra nella terra…. Qui un animale scappa via correndo spaventato dal rumore del fuoco, là un uccello sente aria calda e folate di faville e si allontana allarmato, sottoterra animali sentono calore, le stelle forse vedranno lampi di luce, l’erba si brucia e si mescola alla terra, alcuni umani chiacchierano piano tra loro, bambini ridono e corrono intorno al fuoco, è estate, è inverno, è panevìn….. panevìn sulla Terra di tutti.
Nadia Breda, San Vendemiano (TV) , 2-3 gennaio 2015.
_
(1) “Nei tempi passati ogni famiglia contadina preparava i falò: in particolare quelli maestosi erano opera dei grandi affittuari, e vi partecipavano anche coloro che non avevano la terra; gli altri, di dimensioni più piccole, erano fatti da chi aveva un piccolo appezzamento. […] la grandezza del Panevìn era sinonimo di ricchezza, abbondanza, e ben si accordava con l’estensione dei terreni coltivati e dei vigneti” (Pomponio 2002, : 167). “ […] la famiglia che chiamava a partecipare al rito chi non aveva terra, diventava simbolo di prestigio e potere, potere che si combinava con la Chiesa, vera custode della cultura egemone e artefice del sincretismo che tutt’oggi pervade il rito” (Pomponio 2002: 171)
(2) Mi sto riferendo alla massa come descritta da Elias Canetti in Massa e potere, Adelphi, Milano 1981 [ed. or. 1960]
(3) Se poi –come è accaduto in una scuola del Coneglianese- l’ideologia delle tradizioni si sposta nella scuola, viene lì praticata e rafforzata, se anziché studiare i libri e la storia delle tradizioni si fanno feste che rafforzano una singola identità locale (come per esempio con le canzoni di Chiesa fatte cantare dagli studenti a scuola, o la predica del prete a fine anno a tutti gli studenti a scuola) allora il panevìn-tradizione-identità si è già spostato dentro la scuola, siamo già ben infilati in un percorso di razzismo e di mancanza di interculturalità che il panevìn non potrà che rafforzare e suggellare la sera del 5 gennaio.
(4) Antonella Pomponio, Il Panevìn. La notte dei fuochi nel Trevigiano e nel Veneziano, Cierre Edizioni/Canova, Verona- Treviso 2002.
(5) Comunicato dell’On. Andrea Zanoni, 29 novembre 2013, http://www.andreazanoni.it/it/news/comunicati- stampa/panevin-zaia-non-scherzi-con-il-fuoco.html.
(6) Un volantino diffuso dal Movimento 5 stelle, così scriveva: “Si al Panevin, NO a respirare veleni. Manteniamo le tradizioni salvaguardando la salute dei nostri figli. Il Panevin è una splendida tradizione che va rispettata e conservata come ricordo delle nostre origini: si brucia il vecchio con la fiamma che è il simbolo della speranza, quindi non è una gara a chi fa il fuoco più alto e grosso, ma è la gioia di stare insieme. Inoltre in molti Panevin c’è la brutta consuetudine di bruciare olii esausti, benzina, plastica, immondizie ed altro ancora; ancor peggio è quando si bruciano tralci di viti impregnati di pesticidi tossici in gran parte cancerogeni, teratogeni e interferenti endocrini che liberano nell’aria micidiali diossine e inquinanti cancerogeni. Le potature trattate devono essere smaltite come rifiuti speciali agricoli, sminuzzandoli nelle vigne o cipparle e compostarle. Nella nostra ULSS7, a fine 2010, c’erano ben 10.345 malati di tumori maligni, con un incremento del + 7% sull’anno precedente, una crescita nettamente più alta della media italiana. Ogni singolo cittadino dovrebbe riflettere e vigilare su cosa si brucia nel panevìn”.
(7) Così si esprimeva nel 2013 il WWF: “Panevin 2014: pochi, piccoli e senza legno trattato. Il WWF Altamarca prende atto del dibattito in corso in alcune amministrazioni comunali e nel “consorzio delle pro loco del Quartier del Piave” sui problemi che ogni anno ritornano puntualmente ad emergere, in occasione dei “panevìn”. Qui vogliamo ribadire che non è il WWF che impedisce i fuochi all’aperto, ma bensì la legge 152/2006, senza contare i richiami della CE per non superare i parametri dei valori delle pm-10 e della diossina, ed il numero massimo di sforamenti/anno consentiti. Ora siamo sotto osservazione della CE, ma è chiaro che se continuiamo imperterriti a produrre pm-10 e diossine, arriverà la prevista contravvenzione comunitaria. sia ben chiaro che questa volta, l’eventuale multa non saranno i cittadini a pagarla, ma tutti i sindaci e gli assessori, personalmente e non con denaro pubblico, che hanno consentito e concesso l’autorizzazione ai panevìn illegali 2014. Non solo, ma saranno ritenuti responsabili dei mancati controlli e dell’applicazione delle relative sanzioni, previste dalla legge 152/2006 […]. E’ bello rispettare le tradizioni, ma quando si dimostrano dannose per la salute e per l’ambiente, occorre avere il coraggio ed il buon senso di riconoscerlo e di sostituirle con un atto simbolico. Nulla impedisce di inventare una nuova tradizione rispettosa delle leggi, della natura e dell’uomo! Ricordiamo che alcune tradizioni fanno riferimento a popolazioni rurali, composte da non molte persone, che accendevano piccoli roghi di materiale non inquinato dai prodotti chimici moderni, come i pesticidi sui tralci trattati. I pesticidi sono in genere idrocarburi clorurati che, se bruciati […] producono le micidiali diossine, uno dei veleni più tossici che esistano. La cattiva usanza dei nostri politici italiani è di fare un buon articolo di legge e subito dopo aggiungerne un altro con sostanziose e insindacabili deroghe, vanificando così lo scopo per cui hanno legiferato. E’ giunto il momento che i nostri amministratori pubblici lavorino seriamente e responsabilmente per tutti i cittadini! Invitiamo anche le pro loco del Quartier del Piave ad attenersi al rispetto delle leggi in vigore, per non partecipare in solido con gli amministratori comunali, al pagamento delle contravvenzioni CE”. (WWF Altamarca, 06.12.2013)
(8) Nadia Breda, Bibo, dalla palude ai cementi. Una storia esemplare, CISU 2010.
(9) Pomponio 2002: 103
(10) La “battitura” di piante e animali è un gesto diffuso in ampie zone del mondo (Pomponio 2003: 105)
(11) “A cominciare dagli anni Sessanta sorgono parecchie associazioni che si organizzano per preparare il Panevìn in luoghi pubblici. Il rito non è più ristretto al mondo rurale, ma gli strati borghesi e urbani, sopraffatti da una crisi di valori, tendono a impossessarsi o, se sono ex contadini, a riappropriarsi, dei costumi, modi e stili di vita dei contadini “ (Pomponio 2002: 54).
(12) Stefano Boni, Homo comfort. Il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze, Elèuthera, Milano 2014.
(13) Il lavoro fondamentale di Philippe Descola, Par-delà nature et culture, Gallimard, Parigi 2005, è stato recentemente tradotto in Italia da Elena Bruni con il titolo Oltre Natura e Cultura (SEID edizioni, 2014), con una prefazione a mia cura.
(14) Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet 2005; Franco Lai, Nadia Breda, Antropologia del Terzo paesaggio, CISU ed., Roma 2011.
Join the Discussion