India
In India ci sono andato tante volte e spero di poterci andare ancora perché in India mi sento molto bene. Mi sento bene perché fa caldo e il caldo accelera la mia esistenza come una droga.
Mi sento molto bene perché in India la vita non è nascosta: né la vita né la morte; vedo bambini correre per la strada, bambine uscire da scuola con i loro vestitini blu e rosa e nastri e fiori nei capelli, vedo gente in bicicletta andarsene con mucchi di paglia sulla testa. In India vedo vecchi stare seduti all’ombra di un albero e vedo altri vecchi morire piano piano sdraiati al sole, sui gradini del tempio; vedo gente sana, vedo gente malata, vedo gente povera e gente ricca, più o meno, e vedo gente diritta e gente tutta storta, tutti per strada, in mezzo a polveroni, a urla, a suoni di clacson, a suoni di campanelli di biciclette, in mezzo a mucche bianche vaganti, mucche tristi.
Nelle strade, nei sentieri, nei posti di campagna, la presenza dell’universo è dovunque, prende il nome di divinità varie, prende figure infinite, qualche volta basta anche un segno rosso, una carta d’argento, un fuoco, un’immensa processione con elefanti, bandiere, tamburi e collane di fiori. L’universo è dovunque, tutti sono l’universo, tutta la Terra è l’universo, malati e guariti sono l’universo: dovunque c’è Dio e chiunque è Dio.
Perciò l’India è anche piena di templi: templi grandi, templi piccoli, templi piccolissimi; anche qualche angolo di strada può diventare un tempio. In India i templi antichi e i templi meno antichi e i templi nuovi sono sempre pieni di gente, giorno e notte. Anche se io non ho religione per me, in quei templi mi sento molto bene, c’è gente calma, camminano tutti a piedi nudi, ci sono ombre misteriose e luci inaspettate, qualche volta anche alberi immensi, decorati da nastri di stoffe sbiadite o da campane o statuette, c’è anche gente che vende roba, gente che porta olio, gente che rincorre bambini, gente che si lava nelle grandi piscine verdi, gente che dorme per terra e anche gente che sta lì a guardare nel vuoto.
Quelli che guardano nel vuoto sono quelli che mi piacciono più di tutti; perché soltanto loro fanno totalmente parte dell’universo. Dove guarda l’universo? In silenzio, l’universo rotola su se stesso, manda fuori radiazioni, temperature, gravitazioni, accelerazioni eccetera, e guarda nel vuoto.
Dove guardano le primavere, gli inverni, le tempeste, dove guarda il mare? Nel vuoto. Soltanto noi guardiamo la chiave dell’antifurto, il portamonete, l’orologio, la data di nascita, il nome sulla carta di identità fornita dal municipio.
Invece in India ci sono quelli che guardano nel vuoto. Ci sono anche quelli che dormono per terra, in un posto qualunque, quelli che muoiono piano piano al sole, sui gradini di un tempio e che poi sono bruciati per sempre, nella polvere del tramonto.
Quando tutta l’esistenza non complicata, l’esistenza ridotta a se stessa è per strada, quando non è nascosta, non è coperta di bugie, di finte, di furbizie, di segreti, quando è tutta per strada, allora mi sento bene, non ho più niente da perdere: i fiori non mi fanno più paura, neanche i colori, neanche i sorrisi, neanche i cadaveri, portati a piedi verso il fiume, forse neanche la povertà, che è degli altri ma che potrebbe anche essere mia; forse ce la farei anche a prenderla su di me.
Per questo in India mi sento bene; tutte le volte mi sento come se fossi bagnato da una immensa tempesta purificante, tutte le volte resto un po’ più nudo, tutte le volte ho sperimentato qualcosa di più, mi sembra di essere un po’ più chiaro, un po’ più leggero.
Ettore Sottsass, India, in «Casa Vogue», (1994)