Tutto ha avuto inizio una ventina d’anni fa, nel 1994, quando già da un po’ di tempo viaggiavo attraverso il continente europeo.
A quel tempo risiedevo a Londra, lavorando come magazziniere al porto fluviale. Una sera, avevo visto, in un cinema d’essai, uno strano film intitolato The Garden, uscito tre o quattro anni prima. Del suo autore, Derek Jarman, sapevo soltanto che era appena morto di Aids. Questa malattia, allora ancora coperta da un silenzio d’imbarazzo, era l’argomento del lungometraggio che un critico cinematografico aveva definito «film testamento». Il giardino di cui si parlava era una sorta di mondo idilliaco, un Eden ideale, un’età dell’oro erotica e sentimentale cui i due ragazzi protagonisti del film erano stati strappati dalla malattia. Le immagini di un giardino reale – un quadrato colmo di piante nel bel mezzo di una landa deserta, filmato soprattutto durante la notte – comparivano ogni tanto, terrificanti, quasi allucinate, elettriche.
«Credo che sia il giardino di Jarman», mi aveva bisbigliato all’orecchio la ragazza con cui ero.
L’indomani, andai alla biblioteca del quartiere in cui vivevo per spulciare le riviste di cinema e lessi alcuni articoli che trattavano degli ultimi anni di vita di Jarman. Seppi che il suo giardino, Prospect Cottage, si trovava nel Kent, a un centinaio di chilometri da Londra, in un luogo chiamato Dungeness. Guardando le fotografie del posto, mi venne voglia di vederlo con i miei occhi. Era come se sentissi che lì c’era qualcosa che mi chiamava e che da quel giardino sarebbe venuta una risposta, una risposta a domande che, a dire il vero, ancora non riuscivo a formulare in modo chiaro.
Così, una mattina di primavera, mi decisi. Mi recai a Victoria Station e presi un treno per il Kent. Cos’avrei trovato, là? E qual era lo stato del giardino, adesso che il suo giardiniere era scomparso? Era diventato un semplice luogo della memoria? Un monumento funebre?
Ah, no, Prospect Cottage era tutto meno che questo.
Il giardino traboccava di vita, e la morte era onnipresente.
*
Avevo preso a nolo una bicicletta nella città più vicina a Dungeness. In capo a un’ora o due, mentre pedalavo su una strada deserta, dopo aver superato un’enorme centrale nucleare che s’innalzava in mezzo alle lande e che rammentavo di aver visto nel film, riconobbi, da lontano, il giardino. Una macchia di colori vivissimi, un profluvio di fiori che splendevano anche sotto il cielo grigio, tutt’attorno a una casa di legno, annerita col catrame.
Lasciai la bicicletta sul bordo della strada e mi avvicinai, sperando che in casa non ci fosse nessuno. Non c’era anima viva in giro. Il rumore del vento si mescolava a quello del mare, invisibile al di là delle dune. Feci il giro della proprietà, affascinato, senza osar entrare nel giardino che nessun muro, nessuna siepe proteggeva dagli intrusi.
Di giardini non me ne intendevo molto allora, ma sentivo confusamente che, in quell’assenza di recinzioni, c’era qualcosa di insolito, un’eccezione alla regola. Chi aveva coltivato quelle poche decine di metri quadrati di terra non aveva nemmeno tentato di nascondere le vedute sgraziate che lo circondavano. Come quella della centrale nucleare, la cui massa grigia era onnipresente, o la mesta distesa delle lande brulle di Dungeness, punteggiata unicamente di poche, povere casette di pescatori. E quale giardiniere non avrebbe cominciato col costruire un muro per riparare il giardino dal vento?
Da ciò che avevo capito, Derek Jarman era noto, come artista e come uomo, per il suo carattere iconoclasta. Così come gli piaceva sovvertire le regole del cinema, doveva essersi divertito a infrangere le buone norme del giardinaggio… Eppure, no, in quell’apertura totale del giardino al paesaggio che lo circondava, c’era qualcosa di più profondo, che mi commosse senza che sapessi perché. Era come se sentissi che quel luogo aperto a tutti i venti nascondeva un segreto, come un poema che non si capisce del tutto ma che, leggendolo, sentiamo che ci sta cambiando la vita.
L’assenza di recinzioni non era il solo tratto singolare del posto. Prospect Cottage non somigliava ad alcuno dei giardini che avevo visto fino ad allora. Selci erette, piantate nel terreno, creavano figure geometriche, dei quadrati e soprattutto dei cerchi, che costituivano strane aiuole minerali. Innumerevoli pezzi di legno levigati dal mare, probabilmente raccolti sulla spiaggia vicinissima e ai quali erano stati appesi sassi, pezzi di ferro rugginoso o conchiglie, costellavano lo spazio. Nel mio taccuino, scrissi: «Come le croci di un cimitero…» Ma i fiori erano ovunque, in cespi rigogliosi o isolati, in mezzo ai ciottoli. Circondavano la casa come a proteggerla, fragili, pronti a piegarsi sotto il vento, ma risoluti. E tacitavano il sentimento d’angoscia generato dalle croci e dai rottami di ferro, trasformandolo in giubilo. Pensai che se le selci e i legni portati dal mare erano lo scheletro del giardino, quei fiori ne erano la carne. Una carne martoriata ma vigorosa, piena di vita nella giovinezza della primavera.
*
Ecco la storia di Prospect Cottage.
L’ho ricostruita grazie agli articoli reperiti qui e là nelle riviste di cinema e, in seguito, leggendo i brani che Derek Jarman aveva dedicato al suo giardino nelle sue ultime opere,1 ma anche a forza di ripensare a quel luogo così poco probabile. Difatti, in seguito alla mia visita a Dungeness, durante i miei anni di vagabondaggio attraverso l’Europa, mi capitava spesso di pensare a quell’uomo che non avevo mai conosciuto e che aveva finito per divenirmi familiare. Familiare come un vecchio amico, o un fratello maggiore che aveva sempre molto da insegnarmi perché ciò che vivevo io, lui l’aveva già vissuto assai prima di me.
Nel 1986, quando seppe di essere sieropositivo, Jarman comprò il cottage, che aveva scoperto per caso nel corso di un viaggio in auto nel Sud dell’Inghilterra.
Quella landa arida mal si prestava alla creazione di un giardino. Il suolo era composto quasi esclusivamente di sassi e detriti. Soltanto poche erbe più tenaci delle altre, cui bastava poca terra, sopravvivevano in quell’ambiente inospitale. E poi c’era la malattia, c’era la consapevolezza, per Jarman, di vivere in sospeso. Non serviva essere degli specialisti per sapere che un giardino ha bisogno di tempo, che gli alberi impiegano decine di anni a diventare alti. Ma Jarman sapeva anche che il giardinaggio è un atto di fede nel futuro, cieco, come ogni atto di fede. Perché non tentare? Tanto peggio per gli alberi. E poi c’erano così tante altre piante in grado di crescere in fretta e di sopravvivere alla rudezza del luogo. Quelle che erano già lì, per esempio, come il cavolo marino, che nel mese di giugno si copriva di centinaia di fiori bianchi dal profumo di miele.
Pur sapendo di avere poco tempo davanti a sé, Jarman si mise dunque a coltivare quel luogo, con le forbici e il piantatoio della sua giovinezza ritrovati per caso in fondo a un baule nel suo appartamento londinese. Riaffondando le mani nella terra, forse avrebbe riprovato la felicità dei primi giardini, il cui ricordo non l’aveva mai lasciato. Da giardiniere, più ancora di quanto facesse da artista, avrebbe anche interrogato il tempo. Avrebbe esplorato il mistero di quel limite estremo della vita che si chiama comunemente morte e che non è altro che una faccia di un altro mistero, ben più grande: quello del ciclo delle stagioni che prevede, con inesorabile regolarità, che la primavera succeda all’inverno, che le piante fioriscano per poi declinare. E che poi tutto ricominci.
Qualche risposta sarebbe venuta, forse.
*
Da quanto ho capito, il giardino iniziò con la pietra quando, con l’aiuto di selci, ciottoli e ghiaia, Jarman compose una prima aiuola minerale davanti alla porta d’ingresso del cottage.
«Sul retro della casa però ho piantato un biancospino. Poi ho trovato uno strano palo di legno lavorato dal mare, che ho usato come tutore per il biancospino, sormontandolo con uno dei sassi bucati che appendevo a collana sulla parete della mia stanza. Da qui è cominciato tutto.»
Nel giardino fu portato del concime. Le piante, comprese quelle selvatiche che Jarman amava quanto se non più delle orticole raffinate di cui i vivai inglesi traboccano, cominciarono a crescere. In capo a pochi mesi, il giardinetto si riempì di una stupefacente varietà di piante erbacee e arbusti: lavande, santoline, lunarie, ginestre spinose, sedi, cisti, rose canine e rose rugose, rosolacci, valeriane, salvie… Il tutto, a profusione. Erano essenzialmente vegetali da terreno secco, adatti a quell’angolo d’Inghilterra dove piove molto più di rado che nel resto del Paese. Piante tenaci, capaci di resistere anche alle tempeste di Dungeness.
Quel giardino era fatto per durare.
*
Prospect Cottage diventò il centro d’interesse principale degli ultimi anni di vita di Derek Jarman.
Durante i suoi ricoveri in ospedale, sempre più frequenti a partire dal 1989, pensava spesso al suo posto, che lui chiamava «il mio giardino selvaggio», «il mio giardinetto neldeserto», «il giardino del tempo che rimane». E anche: «Eden e Getsemani». Nel suo diario si domandava se, in sua assenza, i fiori sarebbero sopravvissuti alla mancanza d’acqua e ai temporali, se le giovani piante che aveva messo a dimora sarebbero cresciute bene. Teso suo malgrado verso il futuro, elaborava schemi sulle semine che contava di fare in primavera, a condizione che il male gli desse tregua, ovviamente, e che i medici gli permettessero di tornare a casa in tempo. Oppure, sdraiato nel suo letto d’ospedale, coltivava, diceva, nella sua mente. Come farebbe qualunque giardiniere lontano dal suo giardino.
*
E non mi ero sbagliato quando, nel corso della mia visita a Prospect Cottage, avevo avuto la sensazione che il giardino somigliasse a un cimitero. Era così che Jarman l’aveva voluto.
Ogni sasso innalzato gli ricordava un amico scomparso, come una pietra tombale. Ogni aiuola circolare era, diceva, un «nodo d’innamorati». A mano a mano che le telefonate annunciavano il decesso degli amici sieropositivi come lui, in un ospedale di Londra o di New York, il posto si riempiva di nuove piante e di fantasmi. «Cammino in questo giardino, mano nella mano con i miei amici morti…»
E, come ogni giardino e ogni cimitero, Prospect Cottage era luogo di memoria e di oblio al contempo, a somiglianza di certi fiori che Jarman pareva amare più degli altri:
Ecco un papavero
fiore dei campi di grano e dei terreni incolti
rosso sangue
due sepali
presto cadenti
stami numerosi
stigmi a raggera
dai semi innumerevoli
che si spargono sul pane
bastone di vita
intrecciato di ghirlande
in memoria dei morti
foriero di sogni
e del dolce oblio.
Ma quel cimitero era pieno di vita, di quella vita materiale, sensuale, che si può toccare, contemplare e odorare a volontà. Lì le piante pullulavano, i loro colori smaglianti – i rossi delle valeriane e dei gerani, i gialli delle calendole e degli immortali – affermavano con vigore la loro esistenza. Esprimevano forte e chiaro una volontà di vivere, e di vivere con gioia. Quel luogo, sfrontatamente aperto al cielo e al mondo che lo circondava, aveva bisogno di essere visto.
Ed era in grado di produrre una musica. Infatti, un giorno d’autunno, Jarman scrisse nel suo diario: «Tuttavia il mio giardino non è lugubre, i suoi cerchi e i suoi quadrati hanno il senso dell’umorismo – figure stregate per nani trogloditi –, i sassi sono la partitura di una musica dimenticata da tempo, un cerchio ancestrale al quale tutti i giorni aggiungo nuove note».
Nel diario, stendeva l’elenco delle sue colture come ogni giardiniere coscienzioso. Descriveva i falchi che ruotavano in cielo, le lucertole che s’intrufolavano sotto le selci e attiravano la sua attenzione mentre annaffiava, o la luce favolosa di Dungeness quando il sole compariva dopo il temporale. Parlava, poeta e botanico dilettante al tempo stesso, delle sue piante preferite, del modo in cui partecipavano, in passato, alla vita degli uomini grazie alle loro proprietà curative o magiche. O delle sue passeggiate sulla spiaggia che erano vere e proprie cacce al tesoro, perché i rottami che la costellavano – ferraglia, sugheri, pezzi di catena o mattoni – erano beni preziosi, destinati ad abbellire il suo giardino.
Così, il mondo dell’infanzia, i primi cantucci di verde di cui il giardiniere si ricordava ancora, fonti di innumerevoli prodigi, rinascevano senza posa. Di conseguenza, Prospect Cottage non era un’evocazione dell’Eden. Era l’Eden. Il giardino assolutamente innocente che Dio stesso piantò e che non conosceva morte. E cosa importa se quell’Eden doveva durare soltanto un istante, se nessuno poteva trattenerlo, farne un mondo vero, un mondo a sé?
*
Perché la morte arriva sempre. Né il giardino né il giardiniere sfuggono alla regola, e l’Eden si trasforma in Getsemani.
«Annaffio le rose e mi domando se le vedrò in fiore. Coltivo il mio giardino di erbe medicinali come una panacea, leggo libri sui mali che le piante curano, e so che queste non mi aiuteranno. Il giardino come farmacopea ha fallito.»
Sì, il giardino non guarisce nulla, ma anche quando la consapevolezza della morte è acuta e fa salire le lacrime agli occhi del giardiniere, che pensa ai suoi amici assenti o alla sua assenza futura, esso c’è. Circonda colui che lo cura, non lo abbandona. Una presenza viva, un luogo fraterno.
Allora si stabilisce una complicità fra il giardiniere e le sue piante, perché, se esse non sanno vincere la morte, possono consolare. Il cavolo marino, ancora lui, che rinasce ogni primavera dopo essere seccato in inverno, e che si aggrappa a una terra arida per produrre i suoi fiori e poi i suoi frutti, al solo scopo, insensato, di far continuare la vita, è il migliore dei compagni.
Un giorno di gennaio, Jarman nota in un angolo del suo giardino una minuscola borragine che è fiorita scioccamente troppo presto e sta già avvizzendo nella gelata mattutina. Più tardi, quando un raggio di sole attraversa il fitto strato di nuvole invernali, essa riprende vigore, raddrizza la testa. Nel suo diario, Jarman scrive questa frase, come una poesia di un solo verso: «I borrage bring courage».2
Allo stesso modo, pare, i vecchi ulivi del giardino di Getsemani hanno consolato Cristo nella famosa notte in cui il sudore sulla sua fronte si mutò in sangue, mentre i suoi discepoli dormivano, senza sospettare niente, poco lontano. Quei vecchi alberi dai tronchi nodosi, torti dal vento e dalle ripetute potature degli uomini, gli avevano forse dato il coraggio di affrontare la prova che l’aspettava all’uscita dall’oliveto.
La storia di Jarman e del suo giardino era una vecchissima storia.
*
Ma, in qualche momento di grazia, le risposte tanto attese arrivavano. Più presentimenti, d’altronde, che risposte. Il mistero della morte sembrava allora meno impenetrabile: «Il giardino s’iscrive in un altro tempo, senza passato o futuro, senza inizio né fine. Un tempo che non divide i giorni in ore di punta, pause pranzo, ultimi autobus per rincasare. Dal momento in cui si entra in un giardino, si penetra in quel tempo, ma non ci si ricorda dell’istante in cui ciò avviene. Tutt’attorno a noi, il paesaggio è trasfigurato. Ecco l’amen al di là della preghiera. […] Ma tutt’a un tratto, vengo ricondotto al qui e ora dalla voce stridente e razionale del telefono. È uno scocciatore che mi chiama. Mi parla di un tempo che ha un inizio e una fine, il tempo letterale, il tempo monoteista, per il quale, presto o tardi, si deve pagare».
*
Il giardino di Derek Jarman è resistito al tempo. Quantomeno, fino al momento in cui scrivo queste righe, quasi vent’anni dopo la morte del suo creatore e la mia visita a Dungeness. Il compagno dell’artista, mi hanno detto, ci abita ancora e cura il giardino, cercando di tenerlo così come l’ha voluto Jarman, come se la missione di Prospect Cottage fosse ancora quella di sfidare la morte. Questo quadratino ricolmo di fiori, giardino-cimitero e luogo di speranza, fronteggia ancora gli assalti del vento, delle tempeste e adesso dei visitatori – perché Prospect Cottage ha finito col diventare uno dei giardini più conosciuti d’Inghilterra.
Dopo aver fatto due o tre schizzi del giardino, quella mattina di primavera del 1994, sono andato a piedi fino al mare. Una lunga spiaggia battuta dal vento, dove il sole compariva di tanto in tanto, ogni volta in modo strepitoso, facendo scintillare le onde per qualche istante. Raccolsi un vecchio galleggiante di sughero, un souvenir di Dungeness, come un turista che non sopporti il pensiero di ripartire a mani vuote, o per ripetere, forse, i gesti con cui Jarman aveva frugato mille volte in mezzo ai ciottoli, alla ricerca di oggetti insoliti per Prospect Cottage. Eccolo, quel galleggiante, appeso a un tutore del mio giardino, dall’altra parte della finestra – il mio giardino la cui idea germinò, credo, sulla spiaggia di Dungeness, e che avrebbe impiegato anni a trovare il tempo e il suolo giusto per svilupparsi.
Allora, però, non capivo bene cosa stava succedendo. Cos’ero venuto a fare in quell’angolo sperduto d’Inghilterra? Cosa andavo cercando? Anch’io serbavo, nel fondo dei miei ricordi, fra gli oggetti più preziosi, i momenti in cui, nella mia infanzia, mi ero dedicato al giardinaggio. Rividi l’orto di mio padre, all’ombra di un palazzone comunista di venti piani, nella periferia di Sarajevo, dove avevo imparato a potare, a seminare, a osservare il modo in cui le piante spuntano dalla terra e crescono insolentemente verso il cielo. Sì, dissi a me stesso – e il mare di piombo mi guardava muto, senza contraddire o approvare – vale sempre la pena di piantare un giardino. Se ci rimane soltanto poco tempo, se il mondo intorno a noi vacilla e la morte, sotto tutte le sue forme, avanza, non ci resta che fare di un angolo di terra, poco importa quale, un posto accogliente, un luogo per più vita.
Ecco cosa mi son detto, ritto sulla spiaggia di Dungeness, sentendomi stranamente tranquillo, per la prima volta, credo, da quando avevo lasciato il mio Paese.
1 Cerić si riferisce probabilmente a Derek Jarman’s Garden (tradotto in francese con il titolo Un dernier jardin, Thames & Hudson, 1966) e a Modern Nature. Diario 1989-1990, Ubulibri, 1992. Da queste due opere sono tratte le citazioni di questo testo. (Tutte le note sono del curatore.) 2 «Io, borragine, infondo coraggio.
Tratto da: Teodor Cerić, Giardini in tempo di guerra, Edizioni Ponte alle Grazie
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