Voglio subito ricordare che questa conferenza – che dovrebbe auspicabilmente essere seguita da altre – è stata organizzata dall’Aldus Club, in collaborazione con la Biblioteca di Brera, non per bibliofili incalliti, o per eruditi che coi libri abbiano molta, e forse troppa dimestichezza, ma al contrario per un pubblico più vasto, anche giovane, di cittadini di un paese dove le statistiche ci dicono che, accanto a una folla di persone che non prendono mai in mano un libro, ve ne sono anche moltissime, troppe, che di libri non ne avvicinano più di uno all’anno – e le statistiche non dicono in quanti di questi casi si tratti solo di un manuale di cucina o di una raccolta di barzellette sui carabinieri.
Se poi l’austerità del luogo e la difficoltà del titolo han convocato qui più arcivescovi che catecumeni, non importa. Propongo il mio come esempio di una serie di discorsi che i lettori potrebbero fare, in varie circostanze educative, a chi lettore è un poco meno.
1. Sin dai tempi di Adamo gli esseri umani manifestano due debolezze, una fisica e l’altra psichica: dal lato fisico, prima o poi muoiono; dal lato psichico gli dispiace di dover morire. Non potendo ovviare alla debolezza fisica, cercano di rivalersi sul piano psichico, chiedendosi se vi sia una forma di sopravvivenza dopo la morte, e a questa domanda rispondono la filosofia, le religioni rivelate, e varie forme di credenze mitiche e misteriche. Alcune filosofie orientali ci dicono che il flusso della vita non si arresta, e che dopo la morte ci reincarneremo in un’altra creatura. Ma di fronte a questa risposta la domanda che ci sorge spontanea è: quando sarò quell’altra creatura mi ricorderò ancora che ero stato io, e saprò fondere i miei vecchi ricordi con quelli nuovi che essa avrà? Se la risposta è negativa, rimaniamo molto male, perché tra essere un altro che non sa di essere stato me, e scomparire nel nulla, non c’è nessuna differenza. Io non voglio sopravvivere come qualcun altro, voglio sopravvivere come me stesso. E poiché di me non ci sarà più il corpo, spero che sopravviva l’anima: ma la risposta che tutti daremmo ci dice che identifichiamo la nostra anima con la nostra memoria. Come diceva Valéry “Io sono, in quanto me stesso, a ogni istante, un enorme fatto di memoria”.
E infatti ci paiono più umane quelle religioni che ci assicurano che dopo la morte io ricorderò tutto di me, e persino l’inferno altro non sarà che un eterno ricordare le ragioni per cui sono stato punito.
E infatti se sapessimo che all’inferno soffrirebbe un altro che non sa di essere stato me, peccheremmo tutti allegramente: che cosa mi interessano le sofferenze di uno che non solo non avrà il mio corpo attuale ma neppure i miei ricordi?
La memoria ha due funzioni. Una, ed è quella a cui tutti pensano, è quella di trattenere nel ricordo i dati della nostra esperienza precedente; ma l’altra è anche quella di filtrarli, di lasciarne cadere alcuni e di conservarne altri. Forse molti di voi conoscono quella bella novella di Borges intitolata Funes el memorioso. Ireneo è un personaggio che percepisce tutto senza filtrare nulla e senza filtrare nulla ricorda tutto: Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche ecc. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. Mi disse: “Ho più ricordi io da solo, di quanti non ne avranno avuti tutti gli uomini insieme, da che mondo è mondo”. Anche disse: “I miei sogni, sono come la vostra veglia”. E anche: “La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti”. Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d’un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo (…).
Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a un settantamila ricordi, da contrassegnare con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: quella dell’interminabilità del compito; quella della sua inutilità. Pensò che all’ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia.
Ma ricordare tutto significa non riconoscere più nulla:
Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di idee generali, platoniche. Non solo gli era difficile di comprendere come il simbolo generico “cane” potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e per forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Dice Swift che l’imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d’un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato col loro feroce splendore l’immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade febbrili, ha mai sentito il calore e la pressione d’una realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sul felice Ireneo, nel suo povero sobborgo sudamericano. Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano.
(…) Aveva imparato senza fatica l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati.
Come accade che siamo capaci di riconoscere una persona cara anche alcuni anni dopo (e dopo che il suo volto si è modificato), o di ritrovare la strada di casa ogni giorno anche se sui muri ci sono nuovi manifesti, e se magari il negozio all’angolo è stato ridecorato con nuovi colori? Perché del volto amato o del tragitto consueto abbiamo ritenuto solo alcuni tratti fondamentali, come uno schema, che rimane invariato al di sotto di molte modificazioni superficiali. Altrimenti nostra madre con un capello bianco in più, o casa nostra con le persiane riverniciate, ci apparirebbero come un’esperienza nuova, e non le riconosceremmo.
Questa memoria selettiva, così importante per permetterci di sopravvivere come individui, funziona anche a livello sociale e permette di sopravvivere alle comunità. Sin dai tempi in cui la specie incominciava a emettere i suoi primi suoni significativi, le famiglie e le tribù hanno avuto bisogno dei vecchi. Forse prima non servivano e venivano buttati quando non erano più buoni per trovar cibo. Ma col linguaggio i vecchi sono diventati la memoria della specie: si sedevano nella caverna, attorno al fuoco, e raccontavano quello che era accaduto (o si diceva fosse accaduto, ecco la funzione dei miti) prima che i giovani fossero nati. Prima che si iniziasse a coltivare questa memoria sociale, l’uomo nasceva senza esperienza, non faceva in tempo a farsela, e moriva. Dopo, un giovane di vent’anni era come se ne avesse vissuti cinquemila. I fatti accaduti prima di lui, e quello che avevano imparato gli anziani, entravano a far parte della sua memoria.
I vecchi, che articolavano il linguaggio per consegnare a ciascuno le esperienze di coloro che li avevano preceduti, rappresentavano ancora, al suo livello più evoluto, la memoria organica, quella registrata e amministrata dal nostro cervello. Ma con l’invenzione della scrittura assistiamo alla nascita di una memoria minerale. Dico minerale perché i primi segni vengono incisi su tavolette d’argilla, scolpiti su pietra; perché fa parte della memoria minerale anche l’architettura, dato che dalle piramidi egizie sino alle cattedrali gotiche il tempio era anche una registrazione di numeri sacri, di calcoli matematici, e attraverso le sue statue o i suoi dipinti tramandava delle storie, degli insegnamenti morali, costituiva insomma, come è stato detto, una enciclopedia in pietra.
E se un supporto minerale avevano i primi ideogrammi, caratteri cuneiformi, rune, lettere alfabetiche, un supporto minerale ha anche la più attuale delle memorie, quella dei computer, la cui materia prima è il silicio. Oggi grazie ai computer disponiamo di una memoria sociale immensa: basta conoscere le modalità d’accesso alle banche dati e su un qualsiasi argomento potremmo avere tutto quello che occorre sapere, su un solo soggetto una bibliografia di diecimila titoli. Ma non c’è maggior silenzio del rumore assoluto, e l’abbondanza d’informazione può generare l’assoluta ignoranza. Di fronte all’immenso magazzino di memoria che il computer può offrirci, noi ci sentiamo tutti come Funes: ossessionati da milioni di particolari, possiamo perdere ogni criterio di scelta. Sapere che su Giulio Cesare ci sono diecimila libri è lo stesso che non saperne nulla: se me ne avessero consigliato uno, sarei andato a cercarlo: di fronte al dovere di iniziare a esplorare quei diecimila titoli, mi arresto.
Ma con l’invenzione della scrittura è nato a poco a poco il terzo tipo di memoria, che ho deciso di chiamare vegetale perché, anche se la pergamena era fatta con pelle di animali, vegetale era il papiro e con l’avvento della carta (sin dal XII secolo) si producono libri con stracci di lino, canapa e tela e infine l’etimologia sia di biblos che di liber rinvia alla scorza dell’albero.
I libri esistono prima della stampa, anche se all’inizio avevano la forma di un rotolo e solo a poco a poco sono divenuti sempre più simili all’oggetto che conosciamo. Il libro, in qualsiasi forma, ha permesso alla scrittura di personalizzarsi: rappresentava una porzione di memoria, anche collettiva, ma selezionata secondo una prospettiva personale. Di fronte a obelischi, steli, tavole o a epigrafi su pietre tombali, noi cerchiamo di decifrarli: si tratta cioè di conoscere l’alfabeto usato e di sapere quali erano le informazioni essenziali che venivano trasmesse: qui è sepolto il tale, quest’anno sono stati prodotti tanti covoni di grano, questi e questi altri paesi ha conquistato questo signore. Non ci chiediamo chi abbia stilato o inciso. Di fronte al libro cerchiamo invece una persona, un modo individuale di vedere le cose. Non cerchiamo solo di decifrare, ma cerchiamo anche di interpretare un pensiero, un’intenzione. Andando alla ricerca di un’intenzione, si interroga un testo, di cui si possono dare letture anche diverse.
La lettura diventa un dialogo ma un dialogo – e questo è il paradosso del libro – con qualcuno che non è di fronte a noi, che è scomparso forse da secoli, e che è presente solo come scrittura. C’è una interrogazione dei libri (si chiama ermeneutica) e se c’è ermeneutica c’è culto del libro. Le tre grandi religioni monoteistiche, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, si sviluppano in forma di interrogazione continua di un libro sacro. Il libro diventa a tal punto simbolo della verità che custodisce, e che svela a chi sappia interrogarlo, che per chiudere una discussione, affermare una tesi, distruggere un avversario, si dice “È scritto qui”. Siamo sempre dubitosi della nostra memoria animale (“mi pare di ricordare che… ma non ne sono sicuro”) mentre accade che la memoria vegetale venga esibita per togliere ogni dubbio: “l’acqua è davvero H2O, Napoleone è davvero morto a Sant’Elena, lo dice l’enciclopedia”.
Nella tribù primitiva il vecchio assicurava: “Così sono accadute le cose nella notte dei tempi, lo assicura quella tradizione che si è tramandata di bocca in bocca sino ai giorni nostri”, e la tribù dava fiducia alla tradizione. Oggi i libri sono i nostri vecchi. Anche se sappiamo che sovente sbagliano, li prendiamo in ogni caso sul serio. Chiediamo loro di darci più memoria di quanto la brevità della nostra vita non ci consenta di accumulare. Non ce ne rendiamo conto, ma la nostra ricchezza rispetto all’analfabeta (o di chi, alfabeta, non legge) è che lui sta vivendo e vivrà solo la sua vita e noi ne abbiamo vissute moltissime. Una volta Valentino Bompiani aveva inventato come slogan editoriale “Un uomo che legge ne vale due”. In effetti ne vale mille. È attraverso la memoria vegetale del libro che noi possiamo ricordare, insieme ai nostri giochi d’infanzia, anche quelli di Proust, tra i nostri sogni di adolescenza quelli di Jim alla ricerca dell’Isola del Tesoro, e oltre che dai nostri errori traiamo lezioni anche dagli errori di Pinocchio, o da quelli di Annibale a Capua; non abbiamo spasimato soltanto per i nostri amori ma anche per quelli dell’Angelica ariostesca, – o se siete più modesti per quelli dell’Angelica dei Golon; abbiamo assimilato qualcosa della saggezza di Solone, abbiamo rabbrividito per certe notti di vento a Sant’Elena e ci ripetiamo, insieme alla fiaba che ci ha raccontato la nonna, quella che aveva raccontato Sherazade.
A qualcuno (per esempio a Nietzsche) tutto questo ha dato l’impressione che, appena nati, noi siamo già insopportabilmente anziani. Ma è più decrepito l’analfabeta (di origine o di ritorno), che patisce di arteriosclerosi sin da bambino, e non ricorda (perché non ha letto) che cosa sia accaduto alle Idi di Marzo. Naturalmente i libri possono indurci a ricordare anche molte menzogne, ma hanno pur sempre la virtù di contraddirsi tra loro, e ci insegnano a valutare criticamente le informazioni che ci consegnano. Leggere aiuta anche a non credere ai libri. Non conoscendo i torti degli altri l’analfabeta non conosce neppure i propri diritti.
Il libro è un’assicurazione sulla vita, una piccola anticipazione di immortalità. All’indietro (ahimè) anziché in avanti. Ma non si può avere tutto e subito. Non sappiamo se conserveremo memorie delle nostre esperienze dopo la nostra morte individuale. Ma sappiamo di sicuro che noi conserviamo memoria delle esperienze di coloro che ci hanno preceduto, e che altri che ci seguiranno conserveranno memoria delle nostre. Anche se noi non siamo Omero, potremo restare nella memoria del futuro come i protagonisti – che so – di un fortunoso incidente sull’autostrada Milano-Roma nella notte del 14 agosto. D’accordo, sarebbe poco, ma sempre meglio di nulla. Pur di essere ricordato dai posteri, Erostrato ha incendiato il tempio di Diana in Efeso, e i posteri purtroppo lo hanno reso celebre ricordando la sua stupidità. Nulla di nuovo sotto il sole, si diventa famosi anche facendo la parte dello scemo del villaggio al Costanzo Show.
2. Qualcuno ogni tanto dice che oggi si legge meno, che i giovani non leggono più, che siamo entrati, come ha detto un critico americano, nell’età del Decline of Literacy. Io non so, certamente oggi la gente vede molta televisione, e vi sono i soggetti a rischio che non vedono altro che televisione, così come ci sono soggetti a rischio a cui piace iniettarsi in vena sostanze mortali: ma è pur vero che non si è mai stampato tanto quanto nella nostra epoca, e che mai come ai nostri giorni stanno fiorendo librerie che sembrano discoteche, piene di giovani che, anche quando non acquistano, sfogliano, guardano, si informano.
Il problema è piuttosto, anche per i libri, quello dell’abbondanza, della difficoltà della scelta, del rischio di non riuscire più a discriminare: è naturale, la diffusione della memoria vegetale ha tutti i difetti della democrazia, un regime in cui, per permettere a tutti di parlare, occorre lasciar parlare anche gli insensati, e persino i mascalzoni. C’è il problema di come educarsi a scegliere, certo, anche perché se non si impara a scegliere si rischia di rimanere davanti ai libri come Funes di fronte alle proprie infinite percezioni: quando tutto appare degno di essere ricordato, nulla più è degno, e si desidererebbe dimenticare.
Come educarsi a scegliere? Per esempio chiedendosi se il libro che stiamo per prendere in mano è uno di quelli che getteremmo dopo averlo letto. Mi direte che non si può saperlo prima di aver letto. Ma se dopo aver letto due o tre libri ci accorgiamo che non desidereremmo conservarli, forse dovremmo rivedere i nostri criteri di scelta. Gettare un libro dopo averlo letto è come non desiderar più di rivedere la persona con la quale si è appena avuto un rapporto sessuale. Se avviene così, si trattava di una esigenza fisica, non di amore. E invece bisogna riuscire a instaurare rapporti d’amore con i libri della nostra vita. Se si riesce, vuol dire che si tratta di libri che si esponevano a un’ampia interrogazione, a tal punto che a ogni rilettura ci rivelano qualcosa di diverso. Si tratta di un rapporto d’amore perché è infatti nello stato dell’innamoramento che gli innamorati scoprono con gioia che ogni volta è come se fosse la prima. Quando si scopre che ogni volta è come se fosse la seconda, si è pronti per il divorzio o, nel caso del libro, per la pattumiera.
Poter gettare o conservare significa che il libro è anche un oggetto, che può essere amato non solo per quello che dice, ma per la forma in cui si presenta. Questa conferenza è stata organizzata da un club di bibliofili, e un bibliofilo è qualcuno che raccoglie libri anche per la bellezza della composizione tipografica, della carta, della rilegatura. I bibliofili perversi si lasciano sopraffare dall’amore per queste componenti visive e tattili, al punto che non leggono i libri che raccolgono, e se sono ancora intonsi non ne tagliano le pagine per non abbassarne il valore commerciale. Ma ogni passione genera le proprie forme di feticismo. Però è giusto che il bibliofilo possa desiderare di avere tre edizioni diverse dello stesso libro, e talora la differenza delle edizioni incide anche sul modo in cui ci avviciniamo alla lettura. Un mio amico, non a caso poeta, che ogni tanto scopro a scovare antiche edizioni di poeti italiani, mi ripete che ben diverso è il gusto di leggere Dante su un tascabile odierno o sulle belle pagine di una edizione aldina. E accade a molti, quando trovano la prima edizione di un autore contemporaneo, di provare una emozione particolare a rileggere quei versi nei caratteri in cui li avevano letti i loro primi destinatari. Alla memoria che il libro trasmette, per così dire, di proposito, si aggiunge la memoria di cui trasuda in quanto cosa fisica, il profumo della storia di cui è impregnato.
Si ritiene normalmente che la bibliofilia sia una passione costosa, e certamente se uno di noi volesse possedere una copia della prima Bibbia a 42 linee stampata da Gutenberg dovrebbe disporre almeno di sette miliardi. Dico almeno, perché a tale somma è stata venduta due anni fa una delle ultime copie in circolazione (le altre sono in biblioteche pubbliche, custodite come tesori), e quindi chi oggi volesse cederla chiederebbe forse il doppio. Ma si può sviluppare un amore per il collezionismo anche se non si è ricchi.
Forse non tutti sanno che alcune edizioni del Cinquecento si possono ancora trovare per poco meno o poco più di cinquantamila lire, che si raggranellano evitando due pasti a un ristorante o rinunciando a due stecche di sigarette. Non sempre è l’antichità che costa, ci sono edizioni amatoriali stampate vent’anni fa che valgono un patrimonio, ma per il prezzo di un paio di Timberland si può provare il piacere di avere nei propri scaffali un bel volume in-folio, toccarne la rilegatura in pergamena, sentire la consistenza delle carte, persino seguire il decorso del tempo e degli agenti esterni attraverso le macchie, le gore d’umidità, il lavorio dei vermi che talora scavano lungo centinaia di pagine percorsi di grande bellezza, così come possono essere belli i cristalli di neve. Anche una copia mutilata può raccontarci una storia spesso drammatica: il nome dell’editore cancellato per sfuggire ai rigori della censura, pagine censurate da lettori o da bibliotecari troppo prudenti, carte arrossate perché l’edizione era stata stampata alla macchia con materiale a buon mercato, segni di una lunga permanenza magari nelle cantine di un monastero, firme, annotazioni, sottolineature che raccontano la storia di vari possessi attraverso due o tre secoli…
Ma senza sognare di libri antichi, si può praticare il collezionismo di libri degli ultimi due secoli, trovandoli sulle bancarelle, nelle fiere dell’usato, dando la caccia alle prime edizioni, alle copie intonse. Qui il gioco è alla portata di moltissime borse, e il piacere non consiste solo nell’entusiasmo della trouvaille, ma nella ricerca, nell’andare a naso, nel frugare, nell’inerpicarsi su scalette cagionevoli per scoprire cosa tiene il rigattiere su quell’ultimo scaffale che da anni non spolvera.
Il collezionismo, anche minore, anche di “modernariato”, è spesso un atto di pietà, vorrei dire di sollecitudine ecologica, perché non abbiamo soltanto da salvare le balene, la foca monaca, l’orso dell’Abruzzo, ma anche i libri.
3. Da che cosa dobbiamo salvare i libri? Quelli antichi, dall’incuria, dalla sepoltura in luoghi umidi e impervi, dal vento e dalla pioggia che battono le bancarelle. Ma quelli più recenti, anche da un male maligno che si annida nelle loro cellule.
I libri invecchiano. Alcuni invecchiano bene, altri meno. Dipende dalle condizioni in cui sono stati conservati, certo, ma anche dal materiale con cui sono stati prodotti. In ogni caso sappiamo che verso la metà del secolo scorso si è verificato un fenomeno tragico. Non si sono più prodotti libri con la carta di stracci, e si è iniziato a fare la carta col legno. Come potete controllare in ogni biblioteca, la carta di stracci sopravvive ai secoli. Ci sono libri quattrocenteschi che sembrano usciti oggi dal tipografo, la carta è ancora bianca, fresca, crocchiante sotto le dita. Ma a partire dal secondo Ottocento la vita media di un libro non potrà superare, si dice, i settanta anni. Di alcuni libri che hanno ormai più di cento anni, nonostante la precoce ingiallitura, si può dire che erano stati prodotti con carta di pregio, e robusta. Ma le edizioni scientifiche o i romanzi degli anni Cinquanta, specie quelli francesi, durano molto meno di settant’anni. Già oggi si sbriciolano, come ostie, solo a riprenderli in mano. Abbiamo la certezza che un tascabile prodotto oggi avrà venti o trent’anni di vita, e basta che andiamo a ricercare nelle nostre librerie i tascabili prodotti dieci anni fa per capire come siano già sull’orlo della senescenza precoce.
Il dramma è terribile: prodotti come testimonianza, raccolta di memoria, sul modello dei manoscritti o delle costruzioni architettoniche che dovevano sfidare i secoli, i libri non riusciranno più ad assolvere il loro compito. Ciascun autore che non lavorasse solo per denaro ma per amore della propria opera sapeva di affidare al libro un messaggio che sarebbe durato nei secoli. Ora sa che il suo libro potrà sopravvivergli solo di poco. Naturalmente il messaggio è affidato alle ristampe, ma le ristampe seguono il gusto dei contemporanei, e non sempre i contemporanei sono i migliori giudici del valore di un’opera. E poi, noi siamo in grado ora di accorgerci che è venuto il momento di rileggere un libro uscito nel Settecento e caduto ingiustamente nell’oblio perché le sue copie sopravvivono nelle biblioteche. Ma cosa accadrebbe di un libro importante, sottovalutato oggi, e che potrebbe essere apprezzato tra un secolo? Tra un secolo non ne sussisterà più nemmeno una copia.
Abbiamo visto che la politica delle ristampe, se affidata al mercato non dà garanzie. Ma peggio sarebbe se una commissione di saggi dovesse decidere quali libri salvare ristampandoli e quali condannare alla definitiva scomparsa. Quando si dice che i contemporanei spesso sbagliano nel giudicare il valore di un libro si mette nel conto anche l’errore dei saggi, e cioè della critica. Se avessimo dato ascolto a Saverio Bettinelli, nel Settecento si sarebbe mandato Dante al macero.
Per i libri futuri sono già in corso avvedute politiche per esempio da parte di molte case editrici universitarie americane, per la produzione di opere in acid free paper, e cioè, detto alla buona, in carta speciale che resiste più a lungo alla dissoluzione. Ma a parte il fatto che questo accadrà per opere scientifiche ma non per l’opera del giovane poeta, che cosa fare per i milioni di libri già prodotti dalla fine del secolo scorso sino a ieri?
Esistono dei mezzi chimici per proteggere i libri delle biblioteche, pagina per pagina. Sono possibili, ma costosissimi. Biblioteche con milioni di volumi (e sono quelle che contano) non potranno operare su tutti i libri. Anche qui sarà fatta una scelta. Chi sceglierà? Esiste naturalmente la possibilità di microfilmare tutto, ma tutti noi sappiamo che al microfilm possono accedere solo ricercatori motivati, e con buoni occhi. Non ci sarà più possibilità di frugare tra vecchi scaffali, affascinati da scoperte casuali. Col microfilm si va a cercare ciò di cui si conosce già almeno l’esistenza. Coi moderni mezzi elettronici è possibile registrare via scanner, immagazzinare nella memoria del computer centrale, e stampare le pagine che ci servono. Ottimo per la consultazione di annate di giornali (considerate che la carta da giornale deperisce in dieci anni circa), ma non certo per farsi stampare un romanzo dimenticato di ottocento pagine. In ogni caso queste possibilità valgono per gli studiosi, non per il lettore curioso. Per quanto se ne sappia, oggi non c’è mezzo per salvare in modo indolore tutti i libri moderni raccolti nelle biblioteche pubbliche, e quelli delle biblioteche private sono inesorabilmente condannati: entro un secolo non ci saranno più.
Eppure l’amore del collezionista, difendendo un vecchio libretto dalla polvere, dalla luce, dal calore, dall’umidità, dai tarli, dallo smog, dallo sfasciamento casuale, potrebbe prolungare anche la vita di una edizione da buon prezzo degli anni Venti. Almeno sino a che qualcuno la riscoprisse, rivalutasse l’opera, e desse inizio a un processo di ristampa. Vedete dunque come anche un collezionismo modesto e non miliardario può contribuire alla conservazione di un immenso patrimonio di memoria vegetale. Prendete esempio dai collezionisti di fumetti che salvano in custodie di plastica vecchi albi stampati su cartaccia, costituendo un archivio di una letteratura spesso minore, sovente anche pessima, ma che deve rimanere almeno come documento di costume. Ed è dovuto al collezionismo se si sono riesumate le tavole originali di molti grandi artisti del fumetto (ormai in vendita a prezzi astronomici – una delle prime tavole di Flash Gordon di Raymond vale almeno cinquantamila dollari) tavole che altrimenti, forse, le redazioni avrebbero mandato al macero o lasciato ammuffire nelle cantine.
I libri non muoiono solo per conto proprio. Talora vengono distrutti. Nei primi decenni del nostro secolo si è assistito al rogo dei libri “degenerati” fatto dai nazisti a Norimberga. Era un gesto simbolico, certo, perché neppure i nazisti avrebbero voluto distruggere tutto il patrimonio librario del loro paese. Ma sono simboli che contano. Temete chi distrugge, censura, proibisce i libri: vuole distruggere o censurare la nostra memoria. Quando si accorge che i libri sono troppi, e imprendibili, e la memoria vegetale rimane minacciosa, allora distrugge memorie animali, cervelli, corpi umani. Si incomincia sempre dal libro, poi si aprono le camere a gas.
Una annotazione per lo meno curiosa: il gas Zyklon che serviva per massacrare gli ebrei nei campi di sterminio è ancora in commercio: viene consigliato per camere di disinfestazione di mobili e libri minacciati dai tarli. Probabilmente funziona benissimo ed è giusto che sia usato per scopi così pacifici; però quando mi è stato proposto, il nome mi ha fatto paura, e ho rinunciato. D’altra parte mi hanno consigliato un altro modo per tener lontani i tarli senza ucciderli. Una grossa sveglia, di quelle che avevano in cucina le nostre nonne e fanno un toc-toc infernale. Di notte, quando i tarli sono pronti a uscire allo scoperto, la sveglia fa vibrare la libreria su cui è posata e i tarli, spaventati, non escono. Non è che la soluzione sia pietosamente ecologica: non potendo più uscire, i tarli muoiono di fame. Occorrerà pur sempre scegliere, o loro o noi.
Ci sono altri nemici dei libri. Coloro che li nascondono. Ci sono molti modi per nascondere i libri. Siccome al postutto costano, non facendo una rete sufficiente di biblioteche circolanti, si nascondono i libri a coloro che non potrebbero comperarli. Rendendo difficili gli accessi alle biblioteche, in modo che per chiedere due libri occorra riempire dieci schede e attendere un’ora, si sottraggono i libri ai loro normali consumatori. Si nascondono i libri abbandonando le nostre grandi biblioteche storiche alla degradazione. Occorre combattere coloro che nascondono i libri, perché sono tanto pericolosi quanto i tarli. Non useremo il Zyklon bensì le armi politiche e civili più adeguate. Ma dobbiamo sapere che sono nemici della nostra memoria collettiva.
4. Si dice che i nuovi mezzi d’informazione uccideranno il libro. Si è detto che il libro avrebbe ucciso mezzi di informazione più antichi. Nel Fedro di Platone si racconta come avrebbe reagito il faraone Thamus quando il dio Theuth, o Ermete, gli aveva presentato la sua nuovissima invenzione, la scrittura:
Ma quando si venne alla scrittura: “Questa scienza o re, disse Theuth, renderà gli egiziani più sapienti e più atti a ricordare, perché questo ritrovato è un rimedio giovevole e alla memoria e alla dottrina”. E il re disse: “O artificiosissimo Theuth, altri è abile a generare le arti, altri a giudicare qual vantaggio o qual danno può derivarne a chi sarà per servirsene. E ora tu, come padre delle lettere, nella tua benevolenza per loro hai affermato il contrario di ciò che possono. Esse infatti, col dispensare dall’esercizio della memoria, produrranno l’oblio nell’animo di coloro che le abbiano apprese, come quelli che, confidando nella scrittura, ricorderanno per via di questi segni esteriori, non da sé, per un loro sforzo interiore…”
Ora noi sappiamo che Thamus aveva torto. Non solo la scrittura non ha eliminato la memoria, ma l’ha potenziata. È nata una scrittura della memoria ed è nata la memoria delle scritture. La nostra memoria si fortifica ricordando i libri e facendoli parlare tra loro. Un libro non è una macchina per bloccare, registrandoli, i pensieri. È una macchina per produrre interpretazioni e quindi per produrre nuovi pensieri.
C’è un’altra pagina, scritta nel secolo scorso, ma che ricorda quali possano essere stati i sentimenti di chi vedeva nascere il nuovo strumento, il libro a stampa, nel secondo Quattrocento. Victor Hugo in Notre-Dame de Paris, racconta di una scena che si svolge tra l’arcidiacono Frollo e il medico del re di Francia.
Frollo
aprendo la finestra della cella mostrò col dito l’immensa chiesa di Notre-Dame, che stagliandosi nel cielo stellato con la sagoma nera delle sue due torri (…) sembrava una enorme sfinge a due teste seduta in mezzo alla città. L’arcidiacono considerò per qualche istante il gigantesco edificio in silenzio, poi stendendo con un sospiro la sua mano destra verso il libro a stampa aperto sul suo tavolo e la mano sinistra verso Notre-Dame, facendo scorrere uno sguardo triste dal libro alla chiesa: “Aimè, disse, questo ucciderà quello”.
Dopo questa scena Hugo, con la sua retorica consueta – quella che aveva fatto dire a Gide che Hugo era il massimo scrittore francese, purtroppo (hélas) – dedica alcune pagine al glorioso passato dell’architettura sacra, a quel tempio di Salomone sulle cui cerchia concentriche i sacerdoti potevano leggere il verbo tradotto per gli occhi, ricordando come durante i primi seimila anni del mondo, dalla più immemoriale delle pagode dell’Indostan sino alla cattedrale di Colonia, l’architettura era stata la grande scrittura del genere umano. Ora, nel momento in cui Frollo parla, il modo d’espressione dell’umanità si sta trasformando radicalmente e si ha il definitivo cambiamento di pelle di quel serpente che, dai giorni di Adamo, rappresenta l’intelligenza.
In forma stampata il pensiero diviene più imperituro che mai; si fa volatile, imprendibile, indistruttibile. Si mescola all’aria. Al tempo dell’architettura, il pensiero si faceva montagna e s’impadroniva possentemente di un secolo e di un luogo. Ora si fa stormo d’uccelli, si sparge ai quattro venti, e occupa a un tempo tutti i punti dell’aria e dello spazio.
L’architettura, dice Hugo (che aveva davanti agli occhi molta pessima architettura del primo Ottocento) è destinata al declino, si dissecca, si atrofizza, si denuda, il vetro rimpiazza la vetrata. E invece la stampa s’ingrandisce, compone l’edificio più colossale dei secoli moderni, un formicaio d’intelligenze procede a erigere una costruzione che si amplifica in spirali senza fine: “È la seconda torre di Babele del genere umano.”
Nel suo orgoglio luciferino Hugo non prevedeva che questa torre avrebbe potuto un giorno crollare. Intravede bene il ruolo che la stampa avrà nel mondo moderno, sbaglia a rappresentarne il duello mortale con l’architettura. Certamente, l’architettura perde la funzione enciclopedica che aveva prima, non trasmette più nozioni, diventa simbolo, funzione, macchina, ma non per questo diventa meno bella e meno fondamentale per la cultura umana.
Credo che coloro che piangono sul declino dell’alfabetizzazione di fronte ai nuovi mezzi visivi e all’informazione elettronica risulteranno un giorno patetici come Hugo ci appare oggi in gran parte. Certamente la stampa perderà alcune funzioni che ha avuto in passato. Già i giornali stanno diventando qualche cosa di diverso dalle vecchie gazzette, perché quello che le gazzette facevano, dare informazioni fresche, ora viene fatto con anticipo di dodici ore dalla televisione. Forse non dovremo più stampare orari ferroviari, così difficili da consultare, se potremo acquistare all’edicola piccoli aggeggi elettronici da usare per una stagione, dove scrivendo Milano-Battipaglia vedremo con un solo colpo d’occhio tutte le possibilità che abbiamo di compiere quel tragitto.
Ma nessuno può usare un computer se non ha una stampante che trasformi i dati immessi o elaborati in pagina scritta. Sullo schermo del computer possiamo leggere solo dati brevi e per un tempo breve. Se è breve, e se abbiamo il modem adatto, possiamo anche ricevere e leggere una lettera d’amore, perché non conta il mezzo ma le cose che dice e lo stato d’animo in cui le leggiamo. Ma se la lettera d’amore è lunga dovremo stamparla, per potercela rileggere in un angolo segreto.
Sono alcune migliaia di anni che la specie si è adattata alla lettura. L’occhio legge e tutto il corpo entra in azione. Leggere significa anche trovare una posizione giusta, è un atto che interessa il collo, la colonna vertebrale, i glutei. E la forma del libro, studiata per secoli e assestatasi sui formati ergonomicamente più adatti, è la forma che deve avere quest’oggetto per essere afferrato dalla mano e portato alla giusta distanza dall’occhio. Leggere ha a che fare con la nostra fisiologia.
Permettetemi di terminare con un’ultima pagina da un altro grande libro: è la fine del capitolo quarto dell’Ulysses di Joyce. A qualcuno la pagina potrà parere volgare. In tal caso consulti il proprio psicoanalista, perché la pagina è invece sublime.
Leopold Bloom, di prima mattina, va al gabinetto e defeca. Mentre defeca, legge:
Lesse tranquillamente, trattenendosi, la prima colonna, e cedendo ma resistendo, attaccò la seconda. A mezza strada, la sua ultima resistenza cedendo, permise ai suoi intestini di liberarsi comodamente mentre leggeva ancora pazientemente, quella leggera stitichezza di ieri sparita del tutto. Spero non sia troppo grosso fa rispuntar le emorroidi. No, giusto giusto. Così. Ah! Stitico, una pillola di cascara sagrada. La vita potrebbe essere così. Non lo aveva commosso o toccato ma era una cosa svelta e pulita. Ora stampano qualsiasi cosa. Stagione morta. Continuava a leggere, seduto calmo sul suo odore ascendente. Pulita certamente. Matcham pensa spesso al colpo da maestro con il quale conquistò la piccola strega ridente che ora. Comincia e finisce moralmente. La mano nella mano. In gamba. Ripercorse con lo sguardo quel che aveva letto e, mentre sentiva la sua acqua scorrere tranquillamente, invidiava senza cattiveria quel bravo Mr Beaufoy che l’aveva scritta e aveva avuto in pagamento tre sterline tredici scellini e sei pence.
Il ritmo della lettura segue quello del corpo, il ritmo del corpo segue quello della lettura. Non si legge solo con il cervello, si legge con il nostro corpo tutto intero, e per questo su un libro si piange, si ride, e leggendo un libro del terrore ci si rizzano i capelli sul capo. Perché, anche quando sembra parlare solo di idee, un libro ci parla sempre di altre emozioni, e di esperienze di altri corpi. E, se non è soltanto un libro pornografico, quando parla di corpi suggerisce idee. Né siamo insensibili alle sensazioni che i polpastrelli provano nel toccarlo e certi sfortunati esperimenti fatti con rilegature o addirittura fogli di plastica ci dicono quanto la lettura sia anche una esperienza tattile.
Se l’esperienza del libro ancora v’intimidisce, incominciate, senza timori, a leggere libri al gabinetto. Scoprirete che anche voi avete un’anima.
* Conferenza tenuta a Milano il 23 novembre 1991 nella Sala Teresiana della Biblioteca Nazionale Braidense. Poi pubblicata come volumetto in edizione numerata dalle Edizioni Rovello, 1992.
Tratto da: Umberto Eco, La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia, Ed. Bompiani