466. A cena da Cesaretto (5 agosto 1980) […] Ho frequentato Cesaretto con una certa assiduità tra il 1965 e ‘70, mai una sola volta che non mi appioppasse bruciori e difficoltà gastriche, pur nei limiti di una zuppa e di un piatto di legumi, a volte con frittatina. Gustosi, non volgari, quei piatti: però del cucinato di cui, sinceramente, chi ama se stesso è meglio non si fidi. Economicissimo, onestissimo, ma attenti ai suoi fritti, alle sue crocchette, alle sue besciamelle. Insomma, cucina comunissima, però fatta e servita con simpatia umana, e la simpatia migliora tutto eccetto il pane e il vino. […] (p. 20)
467. […] Hanno da poco aperto un bottegone di formaggi. È sepolcrale e asettico. L’epoca angelica del formaggio è finita. La tendenza è, dappertutto, a venderlo in spacci simili ad Alberghi Diurni blindati, dove urina soltanto chi ha la scorta armata. I prezzi li fissa la Banca d’Italia, in base alle quotazioni dell’oro più Iva, più Zero Cinquanta, più supplemento sale e tassa sui batteri fermentativi. Oh non mangiate, non mangiate formaggi!
Darò dolore a molti, ma il formaggio non è un alimento dei più raccomandabili. L’ho capito tardi, ma in tempo. Qualche latticino fresco ogni tanto, se magro, e purché non estratto da quelle tenebrose vetrine… Ma il culto italiano per il Cacio sarebbe bene calasse, a mala pena è digeribile per i topi. Non siamo più Sanniti, né Piemontesi delle grange. Il formaggio vi riempie di cerumi, di catarri di calcoli epatici, di muco del malaugurio; vi fa pesanti e scontenti, col fegato che non arriva a smantellare i conservanit chimici. Evitare i francesi – quei fetori ultramontani più falsi del lume eterno del sepolcro di Tolomeo, che il finto Armeno vende all’Antiquario di Goldoni. Evitate la Cee, e anche il prodotto nazionale industriale. Evitate le forme nere e le forme rosse. Evitate tutto. […] (pp. 21-22)
468. Custode e manichino (5 ottobre 1986) […] Da un centinaio d’anni l’uomo del Duemila è implacabilmente angosciato dal tempo. Andare in quei luoghi [i gabinetti delle stazioni ferroviarie] lo rattrista, specialmente se è in viaggio, perché lo ritiene un perdere tempo. Lo morde anche qualcosa di più sottile e profondo: il duemiligeno, appena svuotatosi, deve pensare immediatamente (attenzione: non per riflesso animale, ma per tormento psicologico) a riempirsi di nuovo.
Tutti quelli che passano per i gabinetti di una stazione subito dopo finiscono al Bar, dove impazienti, credendosi a torto assetati e affamati, buttano giù qualsiasi cosa liquida o solida, per riparare, dopo il sollievo fisiologico, al vuoto psicologico. Il loro sistema viscerale preferirebbe riprender fiato, ma il loro cuore di maledetti inseguiti inseguitori vuole che più niente, sulla terra, riposi. Così il Bar, nelle stazioni, è la luccicante prosecuzione dei Gabinetti con altro nome.
Adesso dirò una cosa ancora più acrobatica: chi va al bar ha l’impressione di recuperare il tempo perduto al gabinetto, quando in realtà non fa che perdere tempo e guastarsi sempre più reni e stomaco. Come custode illuminato, naturalmente, li metterei in guardia: «Senta, prenda subito un tram, non vada al bar». A chi rinunciasse al bar sarei capace anche di offrire premi in denaro: «Cinquemila, ecco qua, purché lei non prenda il cappuccino!» Lo farei perché mai dimentico quel libro di Daniele, che alla fine dei tempi «gli intelligenti capiranno». (p. 59)
469. […] Ma i romani non hanno mai conosciuto l’arte di vivere, e dalle mangiate di allora si usciva come da una tortura, perché c’era il garum, una salsa immonda il cui solo odore basterebbe a sterminare tutte le api di un alveare. […] (p. 60)
Tratto da: Guido Ceronetti, Pensieri del Tè, Adelphi Edizioni, Milano 1987