Premessa: il grigio in Veneto
Il Veneto, regione nella quale ho svolto i miei studi e nella quale ho vissuto, costituisce un campo antropologico per eccellenza della nostra contemporaneità. Oggi il settore di ricerca è per definizione un insieme di rappresentazioni conflittuali, in competizione tra loro, in cui lo studioso stesso contribuisce a costruire questo nuovo e complesso spazio. È l’approccio ad una società attraverso i suoi conflitti a dare le antropologie migliori, oggi. Il Veneto è un luogo conflittuale, pieno di opposte rappresentazioni della realtà, di voci gridate o marginalizzate o occultate, di confini trasversali, di cambiamenti repentini che implicano a volte un coinvolgimento del ricercatore molto forte. Una periferia del mondo sotto le lenti del mondo.
Oggetto di questi conflitti è quell’artefatto politico che è il paesaggio, ricordando ciò che diceva Eugenio Turri: il motore del paesaggio è nelle sale consiliari, nei Ministeri, nei Piani regolatori. Pierre Lascoumes nel suo libro “Ecopouvoir” ha definito il paesaggio niente altro che “una natura politicamente lavorata”. Il paesaggio veneto – definito dai geografi un compendio geomorfologico e culturale del mondo, caratterizzato soprattutto da territori anfibi – è dal punto di vista sociale un territorio di criticità e di alta conflittualità, espressa da immagini, metafore, eunomasie di urbanisti, sociologi e scrittori quali quelle di paesaggi della paura, geografie dell’angoscia, geografie perdute, paesaggi nei denti delle ruspe, paesaggi resi infermi e informi, cantierizzazioni perpetue, scenari a rischio, atopia, privatopatia, campagna tarmata, villettopoli, cacofonia cementizia, cannibalismo del territorio, infelicità del successo, ibrida poltiglia suburbana con acque arie e terre infette.
La narrazione della crisi ambientale in Veneto non è nemmeno nuova. Ha un precedente illustre e di tutto rilievo: nel 2005 è stato pubblicato uno dei più significativi libri che raccontano il Veneto e che aveva nel sottotitolo proprio un chiaro riferimento alla narrazione della crisi come fondamento metodologico. Il libro, curato da Francesco Vallerani e Mauro Varotto intitolato “Il grigio oltre le siepi. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto”, costituiva una ricerca geografica aperta al vissuto, al senso del luogo, alla fenomenologia dell’abitare. Un po’ come un’antropologia, i testi davano spazio al ruolo esplicativo degli informatori, tanto più importanti quanto più alto è il livello conflittuale all’interno dei contesti territoriali sottoposti a pesanti impatti, non solo sul piano ambientale, ma anche etico e culturale. Il “grigio” di cui parlano gli autori è una difficoltà che va “oltre le siepi”, invade i territori della mente, che si dimostrano fragili di fronte alla città diffusa: “[…] vivere perennemente in un cantiere produce precarietà, non-senso, spaesamento definitivo. I limiti di questo sviluppo […] vengono, – molto prima di esaurire lo spazio disponibile – dai ben più fragili territori della mente, incapaci di sopportare ulteriormente modi e tempi di tale saccheggio. Sono i territori della mente, oggi, […] a denunciare una sofferenza da sovraccarico, una difficoltà di orientamento nell’ordine delle idee, prima ancora che nel reticolo dendritico del traffico e degli spazi saturi”1. Ritengo questo libro la migliore rappresentazione del Veneto e della sua storia recente, libro caduto in una disavventura al momento della sua pubblicazione. Libro scomodo, che avendo fatto emergere una verità fattuale negativa ha generato prodotto una violenta reazione da parte di chi si è sentito menzionato all’interno dell’analisi territoriale sui paesaggi dell’angoscia in terra veneta, e ha prodotto una denuncia civile e penale a carico degli autori e dell’editore.
Dal disagio al terzo Veneto
Il disagio di ambiente e uomini (diade indissolubile) in Veneto, denunciato dagli autori del libro, cominciava ad emergere intorno al 2000 anche nei racconti degli esperti e in quelle aride narrazioni delle amministrazioni, tutte peraltro anticipate da scrittori e poeti. Nel 2004 il governo regionale emana la “Carta di Asiago”, elaborata da cinque studiosi (tra cui Eugenio Turri e Ulderico Bernardi), a supporto di uno sforzo, tardivo ma lo stesso provvidenziale, a contenere il consumo del territorio in Veneto. Nella Carta di Asiago si “manifesta con urgenza la necessità di invertire rotta, di dare forma alla villettopoli”, di capire “che la vita è fatta anche di altre cose, non solo di produzione”, si manifesta con urgenza la necessità di “integrare i sopravvenienti, cioè le nuove generazioni e gli immigrati”; reclama il bisogno di ricucire e integrare paesaggi infermi e informi, di regolare le spinte selvagge del mercato, di risparmiare e valorizzare territorio e ambiente intesi come bene pubblico, un territorio “troppo importante per lasciarlo solo in mano ad architetti ed urbanisti”2. L’anno successivo, 2005, l’Assessorato alle politiche del territorio, nel documento programmatico preliminare al Piano urbanistico parla diffusamente di disagio, scrivendo che, di fronte al fin troppo palese rischio di saturazione del territorio, gli esiti di tale densificazione sono già oggi crescente fonte di disagio per i cittadini e per le imprese e rischiano di abbassare in maniera rilevante la qualità della vita futura. Disagio creano le infrastrutture della mobilità, congestionate e congestionanti, e disagio crea il degrado della base naturale del territorio, terra e acque, tanto quanto la cancellazione dei paesaggi, dei monumenti e della memoria collettiva. Di disagio parlano per la prima volta in questi anni i settimanali diocesani di Padova e di Vittorio Veneto, dopo che lo “sconforto inconsolabile” che suscita il paesaggio ha superato i confini regionali occupando la narrazione giornalistica dei quotidiani nazionali. È del 4 dicembre 2006 infatti l’articolo sulla Repubblica di Francesco Erbani sul comitato più lungo d’Italia, in Veneto appunto, quel comitato che si oppone alla zincheria di San Pietro in Rosà, a Vicenza. Ma già nel 2003 Erbani scriveva che il Veneto centrale è portatore di una “sofferenza da sovraccarico. Lo spazio si è saturato, la circolazione annaspa. La locomotiva veneta rischia di fermarsi”3.
A seguire, nel Natale 2004 un industriale del Nordest, Gabriele Centazzo, pagava un importante quotidiano nazionale per prendere la parola e appellarsi a tutti gli italiani. Ci scagliava in faccia il problema della devastata bellezza del nostro paesaggio, descrivendoci una giornata nel Nordest passata in compagnia di un industriale cinese. Sentiamo il racconto di questo viaggio dalle sue parole: “Saliamo in automobile e passiamo attraverso un groviglio di condomini (Mestre), percorriamo un’autostrada senza alberature (una via di comunicazione che corre tra filari alberati costituisce un elemento paesaggistico indubbiamente più positivo). […] Usciamo dall’autostrada e imbocchiamo una statale recentemente ristrutturata, con pista ciclabile. La strada è separata dalla pista da un doppio cordolo che racchiude trenta centimetri di terra, insufficienti per porre a dimora un solo filare di alberi, ma non se ne accorge nessuno. […] Imbocchiamo finalmente una strada alberata, una statale, ma ci accorgiamo subito che molte piante sono morte e non sono state sostituite, e quelle rimaste sembrano giganti con le braccia mozzate, potate come attaccapanni frutto dell’ignoranza più dissennata e di un disprezzo totale per la natura. […] Penso che una civiltà, quando arriva a tanto scempio, senza che nessuno protesti o addirittura se ne accorga, significa che è incamminata a grandi falcate sul piano inclinato della decadenza. Continuando il viaggio osserviamo i colori delle case: stanno diventando sempre più aggressivi, perché l’apparire sta soppiantando l’essere. Tra queste tinte cromatiche domina un giallo quasi fosforescente che obbliga chi vi abita a indossare gli occhiali da sole prima di uscire in giardino. Ma dove sono i sindaci? Non hanno occhi per vedere? Percepisco che il mio cliente fa una smorfia di disprezzo. Poi sfilano i recinti e i cancelli, una competizione del cattivo gusto. Come facciamo a mantenere una cultura del bello quando costruisce solo chi sa sfruttare al massimo gli indici urbanistici, chi fa tutto in tempi ridotti, senza curare i particolari, senza rispettare ambiente e paesaggio? Rientrando in azienda osserviamo la nuova zona industriale: un ammasso di parallelepipedi di cemento con piazzali asfaltati che coprono tutte le superfici libere, uno sfregio alla cultura industriale dei nostri padri che con passione e orgoglio volevano le loro fabbriche quasi più belle delle loro case. Come può uscire da questi nuovi stabilimenti il mito della bellezza, come fa un industriale che vive dieci ore al giorno in queste aziende a coltivare la cultura della bellezza?”.
Se questa era la voce di un industriale “illuminato”, altri studiosi avevano parlato di “acropoli” (Bernardi), e avevano concettualizzato la “megalopoli padana” (Turri).
La parabola pare essere approdata recentemente alla concettualizzazione del “terzo Veneto”: un Veneto che segue quello primigenio, contadino, cui segue poi quello aggressivo, industriale, per presentarsi oggi come altra modalità di costruzione di un territorio: una nuova Los Angeles.
In un testo che riassume il dibattito coordinato dalla Regione Veneto che si era riproposta di “Ripensare il Veneto”, così si legge il riferimento al Terzo Veneto: “E come ogni metastasi il fenomeno è stato tanto inarrestabile quanto irrazionale, al punto da creare un’autentica mutazione genetica: inutile vivere di nostalgie, il ‘Veneto giardino d’Europa’ è soltanto un ricordo; cominciamo con prenderne atto e tentiamo di creare connessioni tra le cellule impazzite”4. “Se il paesaggio del Veneto agrario e storico era stato frutto della progettualità dell’élite culturale ed economica dell’ancien regime, e quello del secondo dopoguerra il risultato di una sorta di anarchia progettuale diffusa, frutto della conquista del potere delle classi subalterne, il paesaggio del terzo Veneto non potrà essere che il risultato di un’azione di sensibilizzazione dal basso, di controllo sociale, di recupero del senso di appartenenza ad un tutto, ma anche di coraggio e di innovazione”5.
Terzo Veneto, terzo paesaggio
L’espressione “terzo paesaggio”, come è noto, rimanda al “Manifesto del terzo paesaggio” di Gilles Clément. Secondo Clément il terzo paesaggio è una somma di residui, prodotti da ogni organizzazione razionale del territorio, spazi indecisi, privi (o privati) di funzione, sui quali è difficile posare un nome; spazi di scarto, di margine; tra questi frammenti di paesaggio nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, essa è scacciata. Il terzo paesaggio deve la sua esistenza al caso, per essere rimasto, per caso, non urbanizzato, oppure per una difficoltà che rende lo sfruttamento difficile o costoso, oppure perché è uno spazio in attesa di una destinazione, dell’esecuzione di un progetto che rimane sospeso. E sempre citando Clément: il terzo paesaggio appare per sottrazione dal territorio antropizzato, è un angolo perduto di un campo, una landa abbandonata, i resti di un orto urbano, là dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade, lungo i fiumi, nei recessi dimenticati da coltivazioni e da urbanizzazioni, da ciò che resta dal riempirci di urbanizzazioni. Il terzo paesaggio è luogo che si cerca di ridurre o sopprimere. Luoghi che le amministrazioni non amministrano, o di cui si vergognano e che si affrettano a cambiare. Luoghi che la patrimonializzazione condanna a sparire; il mantenimento della loro esistenza non dipenderà da esperti, ma da una coscienza collettiva. Il terzo paesaggio acquista una dimensione politica.
Non è forse questo il paesaggio del terzo Veneto oggi?
Il terzo paesaggio in Veneto sta in quello che è rimasto del paesaggio di campagna e di agricoltura che il secondo Veneto industriale ha frammentato e fatto esplodere e che per essere letto ha bisogno di nuovi strumenti: il concetto di terzo paesaggio è uno strumento per la comprensione del Veneto e uno strumento di salvezza per gli ambientalisti desolati. Il concetto di terzo paesaggio è ciò che, personalmente, ha salvato me dalla disperazione per la perdita di alcuni particolari paesaggi per la sopravvivenza dei quali ho lungamente lottato. La disperazione per tale perdita si accorda con quanto Simone Weil ha scritto: «“Soffro” va meglio che “Questo paesaggio è brutto”»6.
La narrazione di come paesaggi umidi, denominati localmente palù, dopo vent’anni di battaglie ambientaliste, abbiano dovuto soccombere sotto i cementi di un’autostrada è il mio personale contributo alla narrazione del terzo Veneto e della crisi della terra. E tutto ciò lo si può leggere nel mio libro “Bibo, dalla palude al cemento: una storia esemplare”. È da questo avvenimento traumatico che ho imparato a guardare a questa terra con occhi del terzo paesaggio. Guardare alle macchie boscate sopravvissute, goderne. Sostare in qualche prato residuo, respirare. Valorizzare bordi di strade, argini di fiumi: cercarne la liberazione. Sopravvivere insieme al terzo paesaggio. I palù, nel triveneto – praterie umide intersecate da corsi d’acqua di risorgiva e alberature – erano essi stessi una sorta di terzo paesaggio. Erano la storia non- agraria del nostro territorio, uno scrigno di acqua e di varie umidità (nebbie, risorgive, fossi) nel Veneto che si va inaridendo, una costruzione finalmente non di mattoni e di edifici; erano lo stupendo sfondo paesaggistico della pala su cui il Cima da Conegliano dipinse il San Giovanni nel ‘500; un residuo del primordiale lago (mitico e reale) che ricopriva la pianura padana; un’evoluzione delle economie palustri pensate sempre negativamente. Palù sono anche un paesaggio pieno di narrazioni, di miti e di metafore, di linguaggi, di simboli. Perfino la psicanalisi risulta necessaria per definirli e comprenderli, poiché i palù sono connessi con il nostro inconscio (il vuoto, l’estraneo, il diverso, il profondo dentro e fuori di noi). Gilles Clément i palù li assolderebbe senz’altro tra le forme del “terzo paesaggio”: luoghi apparsi “per sottrazione dal territorio antropizzato”, situati ai margini, là dove le macchine non passano, “uno spazio che non esprime né il potere né la sottomissione al potere”, un “luogo dell’invenzione possibile”.
Il terzo Veneto è dunque un terzo paesaggio. Il terzo paesaggio è un paesaggio di sopravvissuti? Di rimasti? Di solitudine? Di violenza? I palù erano il mio giardino. La violenza di una costruzione autostradale sopra questi paesaggi ha costretto me – come molti altri – a pratiche di conversione dello sguardo condivise con altre persone in vari posti del mondo. Il terzo paesaggio è una conversione dello sguardo.
Un’altra singolare pratica che implica una modificazione cognitiva ed emotiva nelle attitudini di confronto al paesaggio è costituita dalla cosiddetta “costruzione dei giardini di Lilliput”. Riporto la testimonianza che ha originato il mio avvicinamento a queste pratiche: “Lungo un tragitto che percorriamo abitualmente, scegliamo un piccolo spazio pubblico lasciato a se stesso; meno di un metro quadrato va benissimo, può essere anche l’interno di un vaso. Il primo passo per trasformarlo in un Giardino di Lilliput è quello di accorgerci della sua esistenza, spostare la nostra attenzione, in-chinarci. In seguito, potremmo sentire il bisogno di ripulirlo, oppure di contribuire alla sua biodiversità seminandoci dei fiori di campo, magari liberandolo dall’asfalto in eccesso. È possibile liberare anche la propria creatività, costruendo un mini-presepe, attaccando una poesia o una cassetta delle lettere […] qualsiasi cosa sentiamo di voler fare, accettando la possibilità che i nostri sforzi potrebbero essere vanificati in ogni momento da un passante o dalla stessa amministrazione comunale: fa parte del gioco. Perché creare un Giardino di Lilliput? Prima di tutto perché è divertente. A questo potremmo aggiungere che un luogo trascurato fuori di noi è lo specchio di un luogo trascurato dentro di noi. E prenderne coscienza è il primo passo per restituirlo a noi stessi e quindi alla collettività. In questo modo possiamo iniziare piano piano ad accorgerci di infiniti Giardini, dentro e fuori di noi. Quella dei Giardini di Lilliput è innanzitutto un’esperienza intima”7.
La perdita del paesaggio viene compensata dall’attivazione di una nuova abilità: guardare al paesaggio attraverso gli occhi del terzo paesaggio, guardarlo cercando i micro giardini di Lilliput che dappertutto ci sono. Creandone di nuovi. Un cambio di scala, decisamente. Un cambio di prospettiva, che ha però in sé anche lo sbalordimento del cambio di pianeta. Un rimpicciolimento di se stessi e del proprio paesaggio. È la letteratura fantasy che infatti può ben rendere conto di questa esperienza e di questa pratica. Una pratica diffusa e spontanea: un’anziana signora mi si avvicina alla fine di una conferenza e mi racconta di come essa abbia effettivamente già creato un giardino di Lilliput, ristrutturando manualmente un rudere abbandonato in montagna, rimasto poi a disposizione per ogni passante che voglia sostarvi. Una simile abilità si esercita anche con l’aiuto di un’altra inversione di prospettiva: guardare e vivere il mondo (in Veneto) di notte anziché di giorno. Valorizzare la notte più che il giorno. Avevo raccolto questa testimonianza apparsa su un giornale dedicato ai temi ambientali, scritto da parte di un gruppo di “custodi della notte”: “Oggi vogliamo illuminare tutto. Che si tratti del lume della ragione o di luce elettrica, tolleriamo sempre meno l’assenza di luce, così come l’assenza di una spiegazione, di una ragione. Eppure il buio, così come il mistero, hanno un valore che oggi più che mai ha bisogno di essere tutelato e sottratto all’immagine di pericolo. L’oscurità, quella naturale, è un bisogno fisico del corpo e dell’anima e la sua sempre maggiore ghettizzazione non fa che nutrire il malessere sociale. Perchè non fondare un’associazione che si proponga di custodire la notte, non solo nel modo in cui stanno già facendo altri gruppi sul tema dell’inquinamento luminoso, ma soprattutto per promuovere la bellezza della notte in quanto tale?8.
I palù non a caso erano la notte. Essi erano stati proposti alla tutela e alla valorizzazione anche per la caratteristica di essere vasti spazi aperti privi di inserimenti elettrici, buchi neri dai quali si potevano vedere cieli stellati, cielo senza inquinamento elettrico notturno. Ma evidentemente bisogna attivarsi anche per tutelare la notte, a fronte dell’invadenza dell’elettricità. La notte, secondo la testimonianza di un ambientalista veneto – che riporto in anonimato qui sotto – può essere una forma di terzo paesaggio, che ci salva dalla visione delle devastazioni ambientali? “[…] Sto somatizzando in modo grave questa barbara cementificazione del paesaggio: ho insonnia e dolori di stomaco; se devo viaggiare mi sposto dopo che sono calate le tenebre, per non vedere, oppure scelgo il treno in quanto i corridoi ferroviari mi illudono che un po’ di Veneto è ancora immune dalla lebbra dell’urbanizzazione. La settimana scorsa sono stato a vedere la nuova zona industriale di Schio (detta ‘Schio2’): è un’immensa espansione urbana a oriente del centro storico in un contesto pedemontano simile al Quartier del Piave. Una buona metà dei capannoni sono in vendita o in affitto. […] Dovevi vedere il ghigno appagato di alcuni individui con la motosega che abbattevano gli ultimi gelsi che avevano il torto di vegetare ancora tra due enormi parcheggi a servizio di una bulloneria, da un lato e di una pressofusione dall’altro. Nemmeno il vantaggio dell’ombra estiva li ferma […]. Bisognerà fare una terapia di gruppo, una narrazione del mostruoso per farsene una ragione, ma anche per farci sentire in un modo diverso o almeno per affermare il proprio dissenso, in modo che i posteri sappiano che il consolidarsi della megalopoli veneta ha avuto dei convinti oppositori […]”.
Il terzo paesaggio è dunque un paesaggio dal quale ricominciare a ricostruire la connessione. Ne abbiamo bisogno: possiamo vivere di soli frammenti? Di campagne marginalizzate? Di terre interstiziali dove coltivare cibo? Di acque tombinate? Dice Gilles Cléments che bisogna “avvicinarsi alla diversità con stupore”, “non aspettare: osservare ogni giorno”, “proteggere i siti toccati da credenze come un territorio indispensabile per l’errare umano”, imparare a “nominare” gli esseri viventi. Per far vivere il terzo paesaggio bisogna imparare a fare un passo indietro e a non volere che i protagonisti siano sempre gli uomini e le società. Eccesso di culture e di costruzioni. Far un passo indietro significa lasciar spazio al vivente. Sembra che Clément parli ai “tarantolati del fare del nordest” quando ci sbaraglia dicendo che bisogna “istruire lo spirito del non fare così come si istruisce lo spirito del fare”, che bisogna “elevare l’indecisione fino a conferirle dignità politica”. Attenzione e ascolto è anche il metodo principale dell’etnografia, disciplina della “perduzione”, come l’ha definita l’antropologo Leonardo Piasere: è risonanza empatica (primo strumento dell’etnografo), è “sentire dentro”, è impregnazione (secondo l’immagine primordiale della donna incinta, “pregna” appunto), è un tipo di procedere che lascia spazio all’incertezza e alle domande (e Clément parla di spazi che pongono domande), che si concentra negli angoli del mondo, che si lascia “macerare” nell’ascolto di sé e degli altri. Un ascolto che è anche un possibile stile di vita per tutti poiché, come dice Piasere, “gli antropologi conoscono come conosce la gente comune, con un aumento di attenzione”9.
È importante, in Veneto, ascoltare accanto alla voce cosmopolita di Clément, l’autorevole urbanista Anna Marson, la cui esperienza di donna e assessora all’urbanistica della Provincia di Venezia10 è riportata nel volume “Barba zuchon town. Una urbanista alle prese col nordest”. Recentemente Anna Marson ha edito uno straordinario libro che può diventare una guida per gli ambientalisti, una forma di ri-orientamento dei disorientati “omini verdi” (vedi sotto) in Veneto: “Archetipi di territorio” ci mostra attraverso quali buone pratiche di lunga durata il territorio manipolato (appunto quella natura politicamente lavorata di cui parlava Lascoume) sia giunto fino a noi nelle sue forme e parti migliori. Si tratta dei centri pubblici, dei limiti, dei confini e delle mura, di giardini, oasi e campagne, di selve paludi e deserti vitali. L’autrice non si limita affatto ad una storia del paesaggio, ma connette direttamente la storia del paesaggio con l’estremo presente (l’extrème quotidienne delle pratiche etnografiche attuali, secondo una espressione francese), mostrandoci come – con quali precise modalità – questi territori siano stati recentemente deturpati: l’acqua da fonte di vita e di morte è diventata merce di consumo, la terra da madre a suolo da sfruttare, il fuoco da energia divina e complemento d’arredo, l’aria da sostanza celeste a camera a gas. L’autrice conosce bene il nordest: ci ha vissuto, lavorato, litigato. In un titolo scrive: “è (ancora) possibile recuperare la memoria negata, e tornare a progettare luoghi in armonia con il cosmo?”11. Anna Marson ci aveva già preparati a questa domanda, intercalando il suo scritto con continui precisi riferimenti a concrete buone pratiche attuali, nuove e creative o antiche e sapienziali, di cittadini attivi e coordinati per la tutela dei loro luoghi di vita, dei loro territori. Così dunque risponde l’autrice alla sua stessa – e nostra – domanda: “Per quanto riguarda il nostro rapporto con il territorio, non perdere la memoria, anzi interrogarla sviluppando un processo d’anamnesi significa indagare, luogo per luogo, la storia lunga che ne ha costituito e mantenuto l’antropizzazione, le permanenze nel tempo lungo di elementi materiali e simbolici, le specificità assunte dagli archetipi più generali in ciascun contesto specifico. Finché ci sono ancora luoghi, ci si può provare”12.
Strade, autostrade, thriller e rospisti
Una parte importante nella conflittualità territoriale spetta alle strade. Le strade, in Veneto – con tutte le loro varianti: autostrade, prolungamenti, corridoi, pedemontane, circonvallazioni, svincoli, reti stradali accessorie – restano un nodo critico altamente conflittuale. L’impatto notevole di questi manufatti – continuamente proposti e riproposti dagli amministratori – crea coaguli di discussioni e movimenti di cittadini. Il caso dell’autostrada Conegliano-Pordenone sopra i paesaggi umidi denominati localmente palù ne è un esempio emblematico. Attualmente assistiamo ad una inversione di tendenza tra le preferenze dei cittadini nelle zone di montagna: mentre fino agli anni Ottanta il prolungamento delle autostrade fino alle Dolomiti, il loro attraversamento fino al congiungimento con i Paesi transalpini era visto come l’unico modello di sviluppo ed invocato come modo di superamento della marginalità – supposta – montana, oggi basta aggiornarsi sul movimento “peraltrestrade” per vedere come i cittadini chiedano ai loro amministratori proprio il contrario: la tutela delle loro montagne (le Dolomiti veneto- friulane sono state recentemente dichiarate Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO), l’integrità delle stesse, lo sviluppo attraverso altri meccanismi economici che non siano le strade.
Altro punto di grosso dibattito locale e nazionale è stato il Passante di Mestre, che ha già il suo film, per la regia di Michele Pastrello, autore di horror a sfondo ambientale, già premiato in varie sedi. La testimonianza, riportata in nota, è stata pubblicata in un supplemento del quotidiano nazionale dedicato – nei giorni dell’inaugurazione – alla storia della controversa costruzione. Interessante ritrovare nel brano che racconta la genesi di questo film, i temi che sono stati quelli dell’ampio dibattito sul paesaggio in questa regione13.
Dunque, i soggetti attivi in Veneto studiano la loro terra, la analizzano, la rappresentano, la interpretano. Ne soffrono, giudicano, si implicano. Decisamente, le loro testimonianze si apparentano a quelle “etnografie dense” di cui parla oggi l’etnografia.
Un altro interessante esempio: mentre conducevo – insieme a molti ambientalisti – la battaglia in difesa dei palù, uno scrittore, Roberto Masiero, ci “studiava” a nostra insaputa, raccoglieva informazioni sul nostro operare, seguiva le tappe dello svolgersi dell’azione. Il risultato è stato un romanzo recentemente pubblicato, dove, con sorpresa, vi si legge ri-narrato in altra forma (umoristica e seria, ironica e dolce, realistica e fantastica insieme) un pezzo di storia del Veneto, compresa la storia della strada sui palù. In “Mistero animato”, Masiero racconta di alcuni personaggi balordi e innamorati, calati nel contraddittorio nordest, che finiscono per essere presi dalla storia dei palù, fino a creare una farsa politica intrigante, dagli esiti imprevedibili. Sentiamone alcune frasi, a partire dai primi momenti in cui alcuni dei protagonisti si lamentano pacatamente della degradazione del paesaggio, fino a decidere poi che faranno qualcosa per fermare l’autostrada sui palù: “Vi rendete conto che paesaggio ci stiamo preparando? Abbattono tutti i platani: un tempo erano una bellezza, d’estate, le nostre gallerie verdi lungo le strade. Erano l’acconciatura del nostro paese. Ma costa potarli, questi alberi improduttivi. E poi bisogna anche curarli: via , via!. Via anche i fossi con le mazze di tamburo e le rane e gli iris. Ci servono più spazi per i parcheggi davanti ai negozi. Quelli sì li piantumano ovunque: si seminano specialmente nuove agenzie immobiliari”. “Stefano e i suoi amici ambientalisti, quattro gatti, si sono messi in testa di fermare i lavori e bloccare l’ultima tratta della nuova autostrada che collega Conegliano a Pordenone. Hanno fatto un bel casino. […] Decidono di andare a vedere i palù. Così, andiamoci tutti a vedere questo spettacolo in ammollo: i palù. Palù: perfino il nome hanno di fastidioso, questi quattro verdoni che mi immagino tanto precari quanto inutili. Ci puoi andare dentro solo con gli stivali. […] E una volta visti questi splendidi e difficili paesaggi passano all’azione: Se qui comandano i Celti nostrani, dico i politici, occorre che i palù siano graditi ai politici celti. Qui dovremmo fare qualcosa di molto celtico – continua Geremia – se vogliamo salvare i palù. Una cosa che, se si osasse passare sopra a queste terre, solleverebbe il clamore di un sacrilegio. Il sogno scapestrato prende forma, di appuntamento in appuntamento: nei palù si insedierà la favolosa comunità celtica underground. Geremia è il consulente storico ufficiale, ma la sua proverbiale ingenuità non ci porta lontano: la grande truffa ha bisogno di professionisti. Gente scaltra: tombaroli, archeologi, scenografi. I protagonisti si danno da fare e creano la loro complessa scenografia celtica. Noi, piccoli omini verdi, trameremo fino a quando qualcuno, più influente ed autorevole, benedirà come inviolabile il luogo paludoso, restituito alla dignità di arcaico quartiere celtico”14.
Non svelerò il finale, che lascio gustare al lettore che vorrà appassionarsi a questa storia sapendo ora da quale ampio sfondo socio-ambientale essa nasce. Piuttosto, mi interessa qui concludere il mio scritto con un’ulteriore testimonianza. Il tema parte ancora da quel groviglio di comodità e disumanità che sono le automobili e il loro presupposto necessario: le strade.
I soggetti attivi, in questo caso, sono uomini e donne che si dedicano, in primavera, a salvare i rospi dall’attraversamento delle statali. Ho incontrato questi auto-definitesi “rospisti”, una sera di febbraio 2006, attratta da un volantino15 che avevo visto distribuito in città e che recitava “Rospisti cercasi”: ho fatto la rospista per una serata. Un’esperienza molto significativa: ho raccolto rospi maschi e femmina, li ho messi in un secchio, ho attraversato la statale innumerevoli volte, ho vuotato il secchio di là della strada, sono ritornata all’altra sponda e ho ripetuto l’andirivieni. Ho anche intervistato e filmato i soggetti. Un resoconto etnografico di questa esperienza sarà oggetto di altro scritto. Attualmente nessuno ne parla, ma merita ricordare che ad oggi sono morte già due persone nello svolgimento di queste azioni.
Due giovani uomini. Sono morti travolti dalle auto mentre trasferivano i rospi da una sponda all’altra delle strade. Uno di essi era il primo rospista ad essersi occupato in Veneto della tutela di questi animali. Casi emblematici, certo, anche rari. Ma significativi. D’altronde, i tunnel per la fauna migratoria sono un elemento discriminante nella valutazione di impatto ambientale di un’opera. Animali e uomini sono legati da una catena biologica che li apparenta, e qui il discorso ci riporta alle condizioni filosofiche in base alle quali agiamo nell’ambiente, sull’ambiente, con o contro di esso. Questo ci aprirebbe alle soglie dell’universo intero, ma basta ricordare che microcosmo e macrocosmo sono legati tra loro e, come mi ha detto un rospista con una illuminante sapienziale frase in quella buia notte da rospista: “La più alta concentrazione di rospi dell’universo è qua!”.
Nadia Breda, Terzo Veneto, Terzo paesaggio. «Indagini antropologiche su ambiente e ambientalisti in Veneto, in «Ri-Vista ricerche per la progettazione del paesaggio», XII (luglio 2010), pp. 37-45.
Nadia Breda è ricercatrice di Antropologia Culturale presso il Dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Firenze
Per gentile concessione dell’autrice.
Riferimenti bibliografici
ERBANI FRANCESCO, Italia maltrattata, Laterza, Roma 2003. MARSON ANNA, Archetipi di territorio, Alinea, Firenze 2009. MASIERO ROBERTO, Mistero animato, ed. Mobydick, Faenza 2009.
PIASERE LEONARDO, L’etnografo imperfetto, Laterza, Roma- Bari 2003.
Regione del Veneto, Fondazione G. Mazzotti per la civiltà veneta, “Ripensare il Veneto”, ed. Regione del Veneto, 2009.
VALLERANI FRANCESCO, VAROTTO MAURO, Il grigio oltre le siepi. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto, Nuova Dimensione, Portogruaro 2005.
Riferimenti iconografici
1 FRANCESCO VALLERANI E MAURO VAROTTO, Il grigio oltre le siepi. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto, Nuova Dimensione, Portogruaro 2005, pag. 86.
2 FRANCESCO VALLERANI E MAURO VAROTTO, Il grigio oltre le siepi. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto, Nuova Dimensione, Portogruaro 2005, pag. 297.
3 FRANCESCO ERBANI, Italia maltrattata, Laterza, Roma 2003.
4 Regione del Veneto, Fondazione G. Mazzotti per la civiltà veneta, “Ripensare il Veneto”, ed. Regione del Veneto, 2009, pag. 91.
5 Regione del Veneto, Fondazione G. Mazzotti per la civiltà veneta, “Ripensare il Veneto”, ed. Regione del Veneto, 2009, pag. 92.
6 S. WEIL, Quaderni 2, pag. 113.
7 Tratto da AAM Terranuova, marzo 2007.
8 tra le iniziative possibili: creazione di un sito internet come punto di riferimento e raccolta di testi sul tema dell’oscurità; organizzazione di passeggiate notturne senza torcia dove si insegna a camminare nel buio; riscoperta di una illuminazione “gentile” come quella della candela; sensibilizzazione nelle scuole e nei Comuni sull’utilizzo dell’illuminazione pubblica; iniziative creative come cene al buio, mostre a tema, ascolto collettivo di audiolibri e radiogrammi; dialogo con le associazioni di non vedenti ecc.”.
9 LEONARDO PIASERE, L’etnografo imperfetto, Laterza, Roma-Bari 2003.
10 Da maggio 2010 neo Assessore all’Urbanistica della Regione Toscana (ndr).
11 ANNA MARSON, Archetipi di territorio, Alinea, Firenze 2009, pag. 233.
12 ANNA MARSON, Archetipi di territorio, Alinea, Firenze 2009, pag. 234.
13 “Una ragazza viene inseguita, picchiata, violentata da uno sconosciuto in giacca e cravatta. Siamo nei pressi di un grande cantiere stradale. La giovane riuscirà a mettere fuori gioco il suo persecutore, facendolo finire a terra, tramortito. Ma, come capita in ogni dramma simile, quello che è successo sarà solo l’inizio di un incubo che la perseguiterà di giorno e di notte. Il ricordo si confonderà per sempre con la vita vissuta, istante dopo istante. Avrà delle visioni, la sensazione di una perenne persecuzione. La ragazza è, metaforicamente, Madre terra violentata dal progresso. Il cantiere è quello del passante di Mestre. Prima ancora di essere aperto al transito, dunque, il Passante ha già il suo film. Si chiama ‘32’, come i chilometri dell’arteria autostradale, il cortometraggio realizzato da Michele Pastrello, regista trentatreenne di Cappella di Scorzè. […] ‘32’ è stato definito dalla critica come un action horror politico, un horror a sfondo ecologico, un film inusuale che tenta di dar voce alla brutalizzazione del paesaggio veneto. Il giovane regista scorzetano non ha avuto bisogno di cercare nella propria mente fonti d’ispirazione. Dalla finestra della sua camera da letto Pastrello ha seguito la costruzione dell’infrastruttura fin dall’apertura del cantiere. A duecento metri da casa sua, giorno dopo giorno, il Passante si materializzava facendo piazza pulita di quanto ostacolava il suo percorso designato: case abbattute, serre divelte, campi ridotti a giardini. Ed è in quel periodo, grazie anche a una chiacchierata con un’antropologa, che nasce l’idea di prendere spunto da quello che stava succedendo proprio lì, davanti a lui, per mettersi alla prova ancora una volta come regista. […] Avrebbe potuto realizzare un documentario, filmare le proteste dei comitati che, per anni, hanno protestato contro quello che hanno definito “uno sfregio al paesaggio”. Ma Pastrello è interessato ad altro. È abituato a filtrare la realtà attraverso una lente che non è quella
documentaristica, ma quella dell’horror. […] L’obiettivo era quello di far vivere emotivamente allo spettatore quella rabbia e indignazione astratta che tanti hanno detto di provare. […] Lo so benissimo che quest’opera è considerata da molti necessaria – osserva Pastrello – ma questi 32 chilometri di asfalto che hanno ferito il territorio rurale in cui sono cresciuto rappresentano a mio avviso l’immagine di come l’uomo consideri sempre più l’ambiente come una puttana, con cui può fare qualsiasi cosa. Restando impunito”. Massimo Scattolin, Un cantiere da film, un horror politico, in “La sfida del passante”, supplemento al quotidiano La Nuova, febbraio 2009.
14 Citazioni tratte da ROBERTO MASIERO, Mistero animato, ed. Mobydick, Faenza 2009, pagg. 164-202.
15 Testo locandina: “È tempo di salvarli. In primavera gli anfibi si destano dal letargo e migrano verso i corsi d’acqua per deporvi le uova attraversando strade molto trafficate e rischiando di essere quasi totalmente schiacciati dalle auto. Fino a qualche anno fa, molte strade si cospargevano di migliaia di corpi massacrati ma, dal 2003, dei volontari hanno garantito la loro sopravvivenza consentendo loro di portare a termine la loro importante fase riproduttiva. La media degli ultimi salvataggi ha superato le 35.000 unità/anno. L’area di intervento riguarda il Montello, la zona dei laghi di Revine e Segusino. La costruzione da parte dell’uomo di sempre più numerose strade ha frammentato ogni ambiente naturale, esponendo la fauna autoctona a rischi estremi negli spostamenti per lo svolgimento dei loro importantissimi e vitali cicli biologici. La compromissione delle possibilità di vita di tali animali rappresenta una grave perdita di biodiversità. Per la loro importanza nella catena biologica essi rappresentano degli insostituibili bioindicatori ambientali. Infatti, dal loro stato di salute, si può capire quanto l’ambiente sia sano o alterato, tanto per loro quanto per noi. Per salvarli basta poco: raccoglierli, riporli in un secchio e liberarli dal lato opposto della strada. Tutto qui! L’intervento inizia al tramonto fino alle oppure 22 circa e si riportare per 2-3 settimane, dipende dal meteo (temperatura e umidità). Rospisti cercasi!! Unisciti a noi. Diventa anche tu un rospista!”.
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