Il museo del terzo millennio

Incominciamo parlando male dei musei, e diamo la parola a Paul Valery.

Non amo troppo i musei. Ve ne sono di ammirevoli, ma nessuno è delizioso. Le idee di classificazione, di conservazione e utilità pubblica, che sono giuste e chiare, hanno pochi rapporti con le delizie (…) Mi trovo in un tumulto di creature congelate, ciascuna delle quali esige, senza ottenerla, l’inesistenza di tutte le altre (….) Davanti a me si sviluppa nel silenzio uno strano disordine organizzato. Sono preso da un orrore sacro. Il mio passo si fa religioso. La mia voce cambia, diventa un poco più alta che se fossi in chiesa, ma meno forte di quanto non mi accada nella vita. Presto non so più che cosa sia venuto a fare in queste solitudini cerate, che ricordano il tempio e il salone, il cimitero e la scuola (….) Quale fatica, mi dico, quale barbarie! Tutto ciò è disumano. Non è puro. Questo avvicinamento di meraviglie indipendenti e nemiche, e tanto più nemiche quanto più si assomigliano, è paradossale (….) L’orecchio non sopporterebbe dieci orchestre insieme. Lo spirito non può seguire molte operazioni distinte, non ci sono ragionamenti simultanei. Ma ecco che qui l’occhio (…) nell’istante in cui percepisce, si trova obbligato ad ammettere un ritratto e una marina, una cucina e un trionfo, dei personaggi negli stati e posizioni più diversi, e non solo, ma deve accogliere nello stesso sguardo armonie e modi di dipingere incomparabili tra loro, (…) delle produzioni che si divorano tra loro (….) Ma la nostra eredità ci schiaccia. L’uomo moderno, estenuato dall’enormità dei suoi mezzi tecnici, è impoverito dallo stesso eccesso delle sue ricchezze (….) Un capitale eccessivo e dunque inutilizzabile.

Non so a quale museo Valery pensasse, nel 1923. Forse era di cattivo umore, quel giorno, visto che quattordici anni dopo ha scritto per la facciata del Palais de Chaillot versi in onore dell’esposizione museale (Choses rares et choses belles – ici savamment assemblées – instruisent l’oeil à regarder – comme jamais ancore vues – toutes choses qui sont au monde). Ma certamente coglieva, del museo tradizionale, tre caratteristiche: ambiente silenzioso, oscuro, non amichevole; mancanza di contesto per le singole opere; abbondanza di opere e difficoltà a percepirle e memorizzare tutte. Oggi l’evoluzione museale fa sì che le prime due obiezioni di Valery non valgono più: il museo è diventato chiaro, solare, amichevole, accogliente, gaio, e quasi sempre la distribuzione delle sale è tale da favorire il rapporto tra l’opera e il suo contesto. Abbiamo ovviato alla terza caratteristica?

Il museo è per definizione vorace. E’ tale perché nasce dalla collezione privata, e la collezione privata nasce da una rapina.3 La collezione romana nasce dal bottino di guerra. Dice Plinio (Nat. Hist. 37, 13-14): “Fu la vittoria di Pompeo che creò la voga delle perle e delle gemme, come quella di Scipione e di Manlio la voga dell’argenteria cesellata, dei tessuti attalici e dei triclini ornati di bronzo; come quella di Lucio Mummio creò la voga dei vasi di Corinto e dei quadri.” Nasce con questa rapina (o se volete, diritto di conquista) l’accumulazione di oggetti insigni, l’orgoglio di incrementare il cumulo, il mercato che immediatamente ne consegue. Inizialmente non c’è feticismo dell’originale. Molte opere della Grecia antica ci sono pervenute nella copia che ne aveva ordinato il collezionista romano.

Per Krysztof Pomian, se all’inizio si raccolgono religiosamente, e in luogo riservato, suppellettili funerarie (e basti pensare ai tesori sepolti con i faraoni), o donativi ricevuti dal tempio, ben presto la collezione si rivolge ad oggetti che egli chiama “semiofori”, vale a dire cose che, spesso al di là del loro valore venale, sono segni, portatori di una testimonianza, e rinviano a qualcosa d’altro, al passato da cui provengono, a un modo esotico di cui sono gli unici documenti, al mondo invisibile.

In tal senso la collezione vuole essere a un tempo “tesoro” o “teatro” del mondo, e all’inizio questa idea di un Teatro del Mondo si presenta più sotto forma di raccolta di notizie (e quindi di Libro) che sotto forma di raccolta di oggetti. Teatro voleva essere l’immensa Storia Naturale di Plinio, che nell’epistola dedicatoria dice che per i 20.000 fatti da lui raccolti si dovrebbe parlare di thesaurus, teatri erano le Enciclopedie medievali che registravano tutte le gesta del passato, tutti gli abitanti dei mondi ignoti, tutte le pietre, le erbe, i prodigi. E teatri saranno le grandi enciclopedie ispirate alla Pansofia rinascimentale e barocca, mentre Museum si chiamano anche le raccolte di testi su un argomento particolare, come il Museum Hermeticum.

D’altra parte, di alcune raccolte di oggetti in carne e ossa, come la collezione del Collegio Romano di Athanasius Kircher, ora dispersa, si conosce l’entità solo perché ne sono rimasti (musei in se stessi) i cataloghi illustrati, il Museum Celeberrimum del de Sepibus del 1678 e il Museum Kircherianum del Bonanni del 1709.

Uno spazio privato. In ogni caso, raccolta di libri o di oggetti che fosse, ciò che caratterizzava un “museum” tradizionale era di essere uno spazio privato. Comenio, nel suo Orbis Sensualium Pictus (117) definiva il museo come “locus ubi studiosus, secretus ab hominibus, solus sedet, Studiis deditus, dum lectitat Libros”, e l’incisione mostra un laico chino sul leggìo, mentre sulla parete si allineano libri. Quel museo che era anche chiamato Studio, Studiolo o Gabinetto (e con gli umanisti potrà anche raccogliere testimonianze archeologiche, e quindi si trasformerà in collezione di oggetti rari e antichi), era anzitutto uno spazio di isolamento, e nulla meglio della lettera di Machiavelli a Francesco Vettori (1513) ci può fare capire che cosa fosse per l’uomo di cultura disporre di questo rifugio sottratto alla curiosità e al disturbo del mondo esterno.

Io mi lievo la mattina con el sole et vommene in un mio boscho che io fo tagliare (…) Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, et di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo, Ovvidio et simili (….) Trasferiscomi poi in su la strada nell’hosteria, parlo con quelli che passano, domando delle nuove de paesi loro (…) Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui h uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro umanità mi rispondono; et non sento per quattro ore alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottiscie la morte: tucto mi transferisco in loro.

La raccolta di oggetti dell’umanista, i primi musei di curiosità e cose scientifiche del Seicento, come quello dell’Aldrovandi, le stesse Wunderkammern barocche, non erano aperti al pubblico. Certamente il collezionista orgogliosamente li apriva a visitatori qualificati, colleghi, confratelli di ogni parte del mondo, ma erano pur sempre i membri di uno stesso ambiente sociale che si facevano visita l’un l’altro.

Cos’era un oggetto in uno spazio privato? Qualcosa che il collezionista conosceva intus et in cute: e quindi, se pure provava l’orgoglio per l’accumulazione di tanti oggetti, era in grado, come Machiavelli con le ombre dei suoi Grandi, di interrogarli uno per uno, o magari di dedicare un’intera giornata a un solo reperto, e di leggere in esso non solo la storia della sua origine lontana, ma anche la vicenda della sua scoperta e acquisizione. E’ in fondo la sensazione che io, collezionista di libri antichi, provo abitando tra i miei tesori: sono lieto di averne molti, ma ogni visita è dedicata a uno solo, e toccandolo rivivo persino il giorno in cui l’ho trovato. Così si sfugge alla sindrome di Valery, conoscendo la storia pubblica e privata di tutti gli individui di una raccolta.

Il tesoro. La situazione cambia quando dalla raccolta del patrizio colto si passa ai tesori medievali, che il principe o l’abate ammassavano nel loro palazzo o nella loro chiesa. Certo abbiamo ancora la figura dell’appassionato, come il vescovo Suger di Saint Denis, che sapeva descrivere con accenti mistici ognuno dei suoi reperti, e li nominava uno per uno. Ma viene il momento in cui la quantità degli oggetti domina sulla loro singola qualità. Pensiamo all’accumulo di reliquie. Per Pomian la reliquia è un segno dell’invisibile, e tale era la reliquia singola, faticosamente acquistata da una cattedrale o da una chiesa abbaziale, a cui si recavano folle di pellegrini per vivere un’esperienza di intesa spiritualità di fronte a quel singolo oggetto prodigioso che rinviava alla santità di cui era sineddoche, o metonimia. Ma che cosa accade quando il tesoro diventa ammasso di reliquie?

Nel tesoro della cattedrale di San Vito a Praga si trovano i crani di S. Adalberto e S. Venceslao, la spada di S. Stefano, un frammento della croce, la tovaglia dell’Ultima Cena, un dente di S. Margherita, un frammento della tibia di S. Vitale, una costola di S. Sofia, il mento di sant’Eobano, il bastone di Mosè, il vestito della Madonna. Nel catalogo del favoloso tesoro del duca di Berry, ora disperso, figuravano l’anello di Fidanzamento di S. Giuseppe, calici e vasi di gran valore artistico, un elefante impagliato, un basilisco, un uovo che un abate aveva trovato dentro un altro uovo, della manna del deserto, un corno di unicorno. Nel tesoro imperiale di Vienna vediamo ancora oggi, insieme a un frammento della mangiatoia di Betlemme, la borsa di S. Stefano, la lancia che colpì Gesù al costato con un chiodo della Croce, la spada di Carlo Magno, un dente di San Giovanni Battista, un osso del braccio di S. Anna, le catene degli apostoli, un pezzo del vestito di Giovanni Evangelista, un altro frammento della tovaglia della Cena, una coppa di agata del IV secolo, che la tradizione vuole sia la coppa del Graal. Le antiche cronache riportano che nel XII secolo in una cattedrale tedesca (credo fosse Colonia) si conservava il cranio di San Giovanni Battista all’età di dodici anni.

Di fronte alla folla di queste cartilagini anonime e ingiallite, misticamente ripugnanti, patetiche e misteriose, a questi lacerti di stoffe sbiadite, scolorite, sfilacciate, talora arrotolate in una fiala come un misterioso manoscritto nella bottiglia, a queste materie sbriciolate, che si confondono con la stoffa e il metallo che fan loro da giaciglio, passando in rassegna questi contenitori, spesso costruiti da un devoto bricoleur con pezzi di altri reliquiari, a forma di torre, di piccola cattedrale, con pinnacoli e cupole, a certi reliquiari barocchi che assomigliano a orologi o a carillon, la reliquia singola perde ogni magia. L’insieme non è segno dell’invisibile a cui rinvia, ma della ricchezza visibile che è. Se, di fronte all’unica reliquia che adorava, il fedele era convinto che fosse autentica, di fronte al loro ammasso si rimane insensibili al sospetto che qualcosa sia falso. Che importa? E’ l’insieme che è bello. Tanto che piacciono ormai le reliquie laiche e desacralizzate, costruite proprio per il museo, come le scatole surrealiste di Joseph Cornell e le teche piene di oggetti serializzati di Arman.

Lo stesso gusto per l’ammasso indifferenziato si ritrova nelle prime gallerie di pittura e scultura, almeno se dobbiamo credere alla testimonianza di quel prodigioso pittore di quadrerie che fu Giovanni Paolo Pannini (1691-1765) Come si sa egli ha dipinto collezioni di opere d’arte, gallerie e saloni immensi che sembrano un albo di francobolli, pieni di quadri sino al limite delle volte altissime, a loro volta affrescate, con il collezionista che siede o passeggia orgoglioso tra i propri tesori. Ad andare a vedere con la lente, si possono scoprire imitazioni miniaturizzate di tutta la pittura dei secoli precedenti. In due quadri dipinge una raccolta di sculture e vedute di Roma antica e una di Roma moderna, e nel primo riesce a mettere quasi tutti i monumenti noti della cultura classica, e nel secondo opere di Bernini, Borromini, Sangallo, Vignola, per un insieme di cinquantaquattro capolavori noti, più due monumenti non identificati. Insensibile alla verità museale, colloca nella prima raccolta l’Ercole Borghese, il Galata morente, Laocoonte e il Leone dell’Acqua Felice; nella seconda il Mosè di Michelangelo, il David e l’Apollo e Dafne di Bernini, il leone di Villa Medici. Non ho mai controllato se Pannini abbia messo sulle pareti delle sue gallerie anche quadri che rappresentano un ambiente che contiene dei quadri, ma ne sarebbe stato capacissimo. Il suo capolavoro avrebbe potuto essere un quadro che rappresentasse la raccolta dei suoi quadri di quadrerie.

Pannini inventava le sue quadrerie, ma della quadreria vera esprimeva la voracità, il gusto rapace, l’analità possessiva. Potremmo anche vederlo come il primo dei postmoderni: oppresso dalla pittura, dalla scultura, dall’architettura del passato, anziché distruggere per dimenticare, citava, copiava, ricostruiva, e dell’intera storia dell’arte faceva oggetto di un bricolage incubatico, paralizzato dalla propria crescita esponenziale. Guardando una quadreria di Pannini potreste anche soffermarvi, zumare su un solo quadro tra i cento con cui egli vi opprime: ma per poco, basta distogliate lo sguardo per un istante, e quel quadro non lo ritrovate più, rivedete soltanto l’insieme… Le quadrerie di Pannini sono l’annuncio di una nostra serata televisiva, con il pollice che impazzisce sul telecomando, ubbidiente al delirio di possedere tutto. Le quadrerie di Pannini, celebrando l’estasi dell’abbondanza, pongono le basi per la vertigine melanconica di Valery.

Da privato a pubblico. Per trovare un museo pubblico occorre attendere il XVII secolo, e l’annuncio che ne faceva Bacone nella Nuova Atlantide quando parlava della Casa di Salomone, dove tutte le meraviglie della scienza, i reperti di mezzo mondo e i ritratti dei grandi inventori erano esposti per l’edificazione dei cittadini. La prima biblioteca pubblica è la Bodleian di Oxford, del 1602. Il primo museo che si dichiara aperto alla cittadinanza è l’Ashmolean Museum di Oxford nel 1683. Nel 1753 il parlamento britannico crea il British Museum da collezioni acquistate da Hans Sloane. Con la rivoluzione francese i beni della casa reale diventano pubblici e i capolavori del Louvre sono esposti sotto il nome di Musée. L’idea di un tempio dell’arte maturava già prima e nel 1783 Etienne-Louis Boullée aveva disegnato il progetto per un Museo come monumento di pubblico ringraziamento. Il museo della rivoluzione non è solo raccolta di oggetti d’arte ma raccolta di popolo. Ma Walther Benjamin ci avverte che, nel momento in cui veniva esibito a tutti, il capolavoro perdeva la propria “aura”:

La ricezione di opere d’arte avviene secondo accenti diversi (…) Il primo di questi accenti cade sul valore cultuale, l’altro sul valore espositivo dell’opera d’arte. La produzione artistica comincia con figurazioni che sono al servizio del culto. Di queste figurazioni si può ammettere che il fatto che esistano è più importante del fatto che vengano viste. L’alce che l’uomo dell’età della pietra raffigura sulle pareti della sua caverna è uno strumento magico. Egli lo espone davanti ai suoi simili; ma prima di tutto è dedicato agli spiriti. (…) Certe statue degli dèi sono accessibili soltanto al sacerdote nella sua cella. (…) Con l’emancipazione di determinati esercizi artistici dall’ambito del rituale, le occasioni di esposizione dei prodotti aumentano. L’esponibilità di un ritratto a mezzo busto, che può essere inviato in qualunque luogo, è maggiore di quella della statua di un dio che ha la sua sede permanente all’interno di un tempio. L ‘esponibilità di una tavola è maggiore di quella del mosaico o dell’affresco che l’hanno preceduta. (…) Così come nelle età primitive, attraverso il peso assoluto del suo valore cultuale, l’opera d’arte era diventata uno strumento della magia, che in certo modo soltanto più tardi venne riconosciuto quale opera d’arte, oggi, attraverso il peso assoluto assunto dal suo valore di esponibilità, l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale.” Michel M.Foucault 6 ci ricorda che, con la nascita del museo pubblico, nasce un’opera concepita per essere esposta nel museo: E’ possibile che Le dejeuner sur l’herbe e l’Olympia siano state le prime pitture “da museo”: per la prima volta, nell’arte europea, delle tele sono state dipinte -non precisamente per replicare a Giorgione, a Raffaello e a Velazquez, ma per dare testimonianza, al riparo di questo rapporto particolare e visibile, al di sotto della referenza decifrabile, di un sostanziale nuovo rapporto della pittura con se stessa, per manifestare l’esistenza dei musei, e il modo d’essere e di parentela che lì vi acquistano i quadri.

Il proposito virtuoso dei primi musei è di sottrarre l’oggetto al possesso individuale e al circuito commerciale, per renderlo bene inalienabile riservato a tutti i cittadini. Ma, diventando democratico, il museo crea subito un pubblico che soffre, in modo meno colto e più istintivo, della sindrome di Valery. Pochi decenni dopo l’apertura della Bodleian Library e dell’Ashmolean Museum, Zacharias Conrad von Uffenbach, un visitatore di inizio Settecento, a proposito della Bodleian dice:

Ogni istante reca con se degli spettatori nuovi e, fatto assai sorprendente, tra di loro villici e contadine che fissano la biblioteca come una mucca potrebbe fissare un nuovo cancello, con tale rumore e sbattere di piedi da recare disturbo a tutti gli altri (…) Il 23 agosto volevamo andare all’Ashmolean Museum ma era giorno di mercato e ogni sorta di campagnolo, sia uomini che donne, si trovavano là perché le leges appese alla porta… ammettono l’ingresso a chiunque.” Pochi anni dopo la loro fondazione questi strumenti di informazione ed educazione erano già divenuti luogo di pellegrinaggio stupito da parte di curiosi che a mala pena capivano ciò che vedevano.7

Fruizione nella disattenzione. Per quanto sia bene organizzato e suddiviso per epoche, generi o stili, il museo moderno diventa un luogo dove, chi volesse vedere tutto quello che c’è, non vedrebbe nulla, e se pure guardasse non potrebbe memorizzare. E’ vero che il vero appassionato visita un museo pezzo per pezzo, e interrompendo la visita con lunghe soste (e la grande intuizione del museo contemporaneo è stata che il caffè, il ristorante, la libreria, non sono appendici commerciali del museo, ma permettono di dilazionare, interrompere e riprendere la visita, senza affaticare l’occhio e la mente). Altri fanno ciò che io faccio quando capito per esempio ad Amsterdam e dedico una mezz’ora a un’ennesima visita al Rijksmuseum: percorro di corsa tutte le sale, trascurando persino Rembrandt, e mi dedico solo al mio quadro preferito, una chiesa di Saenredam. Mezz’ora di intensa contemplazione satura lo spirito. Dopo esco, per non perdere ciò che ho capitalizzato. Ho evitato sia la sindrome di Stendhal che quella di Valery.

Ma sappiamo benissimo che la visita normale al museo oggi procede ben diversamente. Torme di turisti che non potrebbero tornare a casa senza avere visto (o dire di avere visto) il Louvre, la National Gallery o gli Uffizi, percorrono a passo di maratoneta una lunga sequenza di sale, si arrestano brevemente e senza discriminazione davanti a quadri irrilevanti, trascurano capolavori, affollano le code davanti alle sole opere di cui hanno sentito parlare (la Gioconda, La vergine delle Rocce, la Primavera) riuscendo a malapena a vedere l’opera-feticcio, ed escono avendo realizzato scarsa informazione e un godimento estetico del tutto superficiale. In compenso, con i loro fiati mortiferi, contribuiscono alla rovina dei grandi capolavori che sono andati a venerare.

Il contenitore. A questo si aggiunga che spesso alcuni musei sono visitati non per le opere che contengono, ma per la magia del contenitore. Non calcoliamo il punto di vista del museografo, che in ogni museo valuta la qualità dell’esposizione, ma poniamoci dal punto di vista dei visitatori comuni. L’esempio più illustre del museo visitato per il contenitore era, almeno all’inizio, il Guggenheim di New York. Contano certo le opere, ma ancor più il percorso a spirale che si compie per vederle rapidamente in successione. Un museo in cui il contenitore rischia di contare più delle opere è il Musée d’Orsay, a tal punto che si è deciso di porre nella grande sala centrale, dove l’architettura rischia di sopraffare le opere, quadri e sculture pompier, decorative per definizione, e che dunque dal contenitore vengono persino redente, e sovente magnificate; e si sono posti i quadri di maggiore valore estetico, pensiamo a Manet e agli impressionisti, in locali meno imponenti, che li lasciano campeggiare sulla parete senza soffocarli.

Un altro esempio in cui il contenitore conta più del contenuto è certamente il museo di Bilbao. Io sono tra coloro che sono riusciti a venire finalmente a Bilbao prima per vedere l’architettura di Gehry e solo in seconda istanza le opere esposte.

Il trionfo del contenitore sulle opere non è solo tipico dei nostri tempi. Immagino che i primi visitatori del Louvre, sottratto alla famiglia reale, entrassero non tanto per ammirare le opere d’arte che conteneva ma per porre piede nella prima volta in quel palazzo sino ad allora chiuso al popolo. Oggi si va a Versailles per visitare il palazzo e i giardini, non le opere d’arte che vi sono esposte. Ma potremmo dire che Versailles è anzitutto un museo dell’architettura, dell’arte dei giardini, e dell’arredamento. Del resto anche a San Pietro a Roma i pellegrini non vanno per vedere la Pietà di Michelangelo, bensì per avere l’esperienza globale di un’opera d’arte architettonica e di un luogo di fervore religioso, tanto che alcuni possono dire di averne compiuto una visita memorabile anche se hanno ignorato Michelangelo, per trasporto mistico o per mancanza di informazione,.

Recentemente è stata pubblicata in Italia una classifica dei dieci musei maggiormente visitati nello scorso anno. Vengono anzitutto i Musei Vaticani, con tre milioni e mezzo di visitatori annui (e l’occasione del Giubileo ha aumentato le visite solo del 23%). Seguono con un milione e mezzo la galleria degli Uffizi, poi la Galleria dell’Accademia di Firenze, e al quarto posto i musei del Castello Sforzesco di Milano con più di ottocentomila visitatori. L’ultimo dei dieci è il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (281.000 visitatori). In questi primi dieci musei manca la Galleria di Brera di Milano. Dunque gli ottocentomila visitatori che hanno visitato i musei del Castello sono passati per Milano, e avranno visto anche il Duomo, ma non il Cenacolo di Leonardo e non Brera. Passi per il Cenacolo, che richiede faticose prenotazioni, ma certamente a Brera (accessibilissima) sono passate seicentomila persone meno che al Castello. Eppure, se al Castello si possono vedere opere come la Pietà Rondinini di Michelangelo, Brera ha la Madonna di Piero della Francesca, il Matrimonio della Vergine di Raffaello, la Pietà di Giovanni Bellini e quattrocento altre opere famosissime, da Mantegna a Tintoretto e a Caravaggio sino al romanticismo e al novecento. Però Brera sta in un palazzo, antico, bello e dignitoso, ma non sorprendente, mentre l’insieme del castello Sforzesco, benché quasi interamente restaurato e rifatto nel XIX secolo, è imponente e permette percorsi multipli, nelle corti interne, tra i merli, in gallerie piene di armature. Dunque il Castello è stato visitato da ottocentomila persone anzitutto in quanto contenitore.

Ora, non c’è nulla di male a visitare un museo anzitutto quale contenitore, e anzi l’appello costituito dal contenitore può incoraggiare a scoprire le opere. Ma, continuando per questa strada, si arriva alla situazione del Beaubourg di Parigi, dove il contenitore costituisce certamente la massima attrazione, e il resto sono o servizi (di biblioteca e videoteca) o mostre temporanee – peraltro molto belle. Un’esposizione temporanea di solito ci invita a considerare un solo autore, o un dato periodo storico, o un dato tema, e le opere debbono essere inserite nel loro contesto. Questa sembra essere la tendenza delle più importanti esposizioni degli ultimi decenni, dall’Oro degli Sciti a Georges de La Tour. Ma se il museo ideale deve essere una raccolta di opere su soggetto specifico, ciascuna collocata nel proprio contesto, si deve privilegiare l’originalità (e dunque esporre solo le opere disponibili) o la completezza storica, magari ricorrendo a copie?

Copie o originali? Un caso insigne di museo che espone tute le opere su un dato argomento, e nessuna di esse è l’originale, bensì un calco perfetto, è il Musée des Monuments Français di Parigi, dove si possono vedere non solo le statue ma, in grandezza originale, i portali di abbazie come Moissac e Vezelay. Prima di visitare molti di questi capolavori dell’arte romanica francese e del gotico dell’Ile de France, io li avevo scoperti al Musée des Monuments Français, e quella visita, più volte ripetuta, non solo mi aveva affascinato ma mi aveva permesso di capire (forse meglio che guardando poi gli originali) i minimi particolari di quei portali.

Si potrà osservare che la scultura può essere goduta anche attraverso un buon calco, e che molti di coloro che vanno ad ammirare a Firenze il David di Michelangelo non si preoccupano del fatto che quello esposto fuori di Palazzo Vecchio sia solo una copia e l’originale sia alla Galleria dell’Accademia. In scultura la differenza tra la buona copia e l’originale è data al massimo dalla patina del tempo. Cosa accade in pittura?

Chiediamoci quali e quante siano le ragioni per cui si desidera vedere un quadro originale: (1) Il soggetto, (2) le dimensioni (è prodigioso vedere le dimensioni reali della Flagellazione di Piero a Urbino, poiché le sue riproduzioni ci facevano immaginare quel quadro, con lo spazio che apre davanti ai nostri occhi, come immenso, e solo l’originale ci fa apprezzare la meraviglia di uno spazio virtuale amplissimo racchiuso entro dimensioni fisiche assai ridotte), (3) i colori. Infine (4) il modo in cui la materia si dispone sulla tela o sulla tavola. Questo particolare è fondamentale per una piena valutazione estetica, perché certamente i grumi di materia dell’ultimo Tintoretto o di Magnasco, per non dire di Pollock, vanno visti da vicino (se fosse possibile, andrebbero toccati con le dita). Tra una pittura di chiese olandese su tavola e una pittura di chiese fiamminga su rame, la luminosità è certamente diversa, e il quadro deve essere visto sotto diverse incidenze di luce. Infine (5) ci sono poi quadri, come gli Ambasciatori di Holbein, che richiedono anche una vista “di sguincio”, ovvero ponendosi non perpendicolarmente ma quasi sullo stesso piano della superficie, altrimenti si perde l’effetto dell’anamorfosi.

Ora le tecniche attuali di riproduzione permettono di riprodurre un’opera di pittura (vuoi su supporto materiale, vuoi proiettandola su schermo) con risultati di assoluta fedeltà quanto al soggetto e alle dimensioni, e risultati di approssimazione quasi totale quanto a effetto cromatico. La riproduzione dunque permette di godere della caratteristiche (1), (2) e (3), soggetto, dimensioni reali e colore e del quadro. Quello che essa non può darci sono le caratteristiche (4) e (5), vale a dire la tridimensionalità dei grumi di colore, e la visione di sguincio, che possono essere rese solo in modo tale che l’impressione sia quella che proveremmo se vedessimo l’originale di fronte, a una distanza di qualche metro.

Ma in un museo noi di solito siamo obbligati a vedere il quadro a debita distanza e non possiamo toccarlo. Quindi le caratteristiche (4) e (5) non sono realmente godute dal visitatore (e parlo di quello accurato, trascurando chi passa di corsa e si accontenta di avere ricevuto un’impressione generica). Se poi pensiamo a un quadro esposto in una chiesa, sopra l’altare maggiore o in una cappella laterale, di solito il visitatore, nella penombra del tempio, dell’opera vede poco e, se vuole apprezzarla appieno, dopo torna a esaminarla su una buona riproduzione.

Ecco pertanto che, di fronte alle possibilità di godimento estetico e comprensione culturale permesse da una visita affrettata in un museo di originali, si dovrebbe talora prendere in considerazione l’allestimento di musei o esposizioni temporanee fatte soltanto di ottime riproduzioni. Esiste a Ferrara un museo della pittura metafisica dove al posto di ogni quadro c’è uno schermo su cui l’opera originale appare splendidamente proiettata. Il museo permette di vedere, insieme, tutte le opere della pittura metafisica italiana, cosa che nessun museo esistente consente di fare. Fondamentale per lo studioso, il museo è anche affascinate per il visitatore. Purché l’intento che lo guida sia estetico e culturale e non feticistico. Altrimenti al visitatore non resta che lamentarsi per non avere visto l’originale di quella tale Piazza d’Italia di De Chirico, che tanto gli è piaciuta.

Una volta, anticipando l’idea del museo ferrarese, Konrad Wachsmann aveva progettato una struttura architettonica in metallo, trasportabile e costruibile in città diverse, in modo da poterla installare, per esempio, a Dallas, Texas, e permettere ai cittadini di vedere, su schemi di varia grandezza, tutte le opere, poniamo, del Louvre, e magari la settimana dopo tutte le opere degli Uffizi. L’esperimento è stato talora tentato. Si potrà osservare che questo è ormai reso possibile da un buon CDrom, ma certamente l’impressione spettacolare, il fascino delle dimensioni reali sarebbe diverso. Parlavo recentemente con un professore di storia medievale del Mali, il quale si lamentava di non poter fare vedere ai suoi studenti che cosa fosse davvero una cattedrale gotica – né si può pensare che in quel paese africano poverissimo si possa consentire gli studenti di fare un tour in Francia o in Germania. Ebbene, gli dicevo, se l’Unesco vi provvedesse di strutture alla Wachsmann, dove si possa avere l’impressione di cosa fosse vivere in una navata gotica, con la luce filtrata dalle vetrate e dai rosoni multicolori, forse gli studenti del Mali capirebbero qualcosa del Medioevo europeo. Capisco che sarebbe diverso che passare un’intera giornata a Chartres, ma tra il tutto e il nulla vi sono molte e interessanti soluzioni intermedie.

Il problema di un uso intelligente delle riproduzioni diventa sempre più urgente in un mondo in cui le opere d’arte viaggiano sempre più da paese a paese, per permettere l’allestimento di esposizioni tematiche, sul seicento fiammingo, su Raffaello o sul cubismo. Molti musei sono restii ai prestiti, ma le opere d’arte viaggiano sempre più. Quando un’opera del Museo X è in viaggio, che cosa fa il Museo X? Esibisce uno spazio vuoto? La sostituisce con un’opera minore tratta dai magazzini? Il rischio è che sempre più visiteremo molti musei con molti spazi vuoti. E dunque il riempire quegli spazi con ottime riproduzioni non soddisferà certo l’impulso feticistico, ma almeno l’esigenza di informazione al cento per cento, e il godimento estetico per una buona percentuale.

Infine, ciascuno conosce la frustrazione di una visita della Gioconda al Louvre. Davanti a noi stanno squadre di giapponesi con la loro guida che parla ad alta voce, e anche se si riesce ad avvicinarsi al quadro sarà per breve tempo. Se in una sala attigua ci fossero anche più di una buone copie del quadro, e magari schermi con i particolari delle mani o del sorriso, una volta soddisfatto il bisogno feticistico di aver visto l’originale, il visitatore veramente interessato all’opera potrebbe ammirarsela a lungo e sotto ogni punto di vista. Questo accorgimento didattico è ora realizzato da alcuni musei, e sono pronto a scommettere che per molti la visione delle copie sarà stata esteticamente più soddisfacente che il rapido sguardo all’originale.

Stabile o temporaneo? Alla luce di queste considerazioni, eccomi ora a delineare il mio ideale di Museo. Debbo dire che talune delle soluzioni che propongo sono state già tentate in vari musei, e indicano una strada possibile. Ma ora permettetemi di chiedere il massimo Come si conviene a un’Utopia, miro alla sua forma estrema, anche se mi accontenterei di soluzioni intermedie.. Il mio ideale è quello di un museo che serva a capire e godere un solo quadro (o una sola statua, o anche una sola saliera del Cellini). Prendiamo a esempio la Primavera di Botticelli. L’intera sequenza delle sale degli Uffizi dovrebbe essere trasformata in un unico percorso attraverso il quale si arrivi, alla fine, a capire tutto della Primavera. Ci sarebbero sale introduttive sulla Firenze dell’epoca, la cultura umanistica, la riscoperta degli antichi, i fermenti mistici del tempo, e sulla Roma in cui lavoravano Ghirlandaio e il Perugino, con pannelli didattici, esposizioni di libri e incisioni (dai manoscritti ai primi incunaboli che erano già apparsi in quegli anni). Poi seguirebbero le opere dei pittori che hanno preceduto e ispirato Botticelli, nella bottega di Lippi e del Verrocchio (e in quel caso, purché la documentazione fosse completa, si potrebbero accettare delle ottime copie, o trarre dai magazzini opere che il museo non aveva mai esposto), e le opere di Botticelli prima della Primavera. Poi vorrei vedere quadri con volti femminili che annunciano quelli di Botticelli, o al contrario mi dicano che la donna all’epoca era visto in modo diverso e lui ha radicalmente innovato; dovrebbero udirsi le musiche che Botticelli poteva avere ascoltato, le voci dei poeti e dei filosofi che poteva avere letto, e se necessario dovrebbero apparire grandi fotografie dei paesaggi toscani (immagino che per un pittore di paesaggio questa documentazione dovrebbe essere fondamentale); vorrei vedere documenti sulla flora dell’epoca, per capire come Botticelli abbia poi concepito i suoi fiori e i suoi alberi. Insomma, vorrei arrivare alla sala centrale, dove finalmente mi apparirà la Primavera, con l’occhio ormai educato di un fiorentino del Quattrocento. Poi, nelle sale seguenti, vorrei vedere su schermi tutti i particolari della Primavera, le soluzioni pittoriche adottate, comparazioni con particolari di altri pittori. E infine, nelle ultime sale, tutto ciò che mi può dire qualcosa sull’eredità di Botticelli, sino ai Prerafaelliti.

Aveva ragione Valery. Troppe opere, l’una diversa dall’altra, tutte fatalmente fuori contesto, mi affaticano l’occhio e la mente. Ma un tragitto che mi conduca (come accade a me quando ad Amsterdam vado a vedere un solo quadro di Saenredam, conoscendone già la storia e l’ambiente in cui è nato) a entrare veramente “dentro” a una sola opera, farebbe di quella visita al museo un’esperienza memorabile. E se poi il turista feticista si lamenterà che ha compiuto tanta fatica per vedere una sola opera, peggio per lui. Ma anche il peggior feticista non resisterebbe all’esperienza della contemplazione di un solo feticcio di cui gli viene rivelata la storia remota, l’essenza, il destino.

Si noti che questo museo a un solo quadro potrebbe anche viaggiare ed essere riallestito in molti luoghi. Immediatamente dopo la partenza della Primavera per il suo viaggio, la galleria degli Uffizi potrebbe ristrutturarsi intorno a un’altra delle sue meraviglie. Oltretutto, con una galleria che cambia di stagione in stagione, Firenze diventerebbe degna di essere rivisitata molte volte, come si va più volte a Salisburgo o a Bayreuth, per ascoltare opere di Mozart e di Wagner sempre diverse, e in diverse esecuzioni. Inoltre, per ogni museo, viaggerebbe una sola opera alla volta.

Il mio museo del terzo millennio sarebbe sempre inedito, sempre capace di offrirmi nuove sorprese. Lo stesso Valery sarebbe tentato di tornarci. E anche un quadro che, come avvertiva Foucault, fosse stato concepito direttamente per il museo, in quel nuovo allestimento tornerebbe alla vita e alla cultura da cui è nato e non dialogherebbe soltanto con altri quadri ma con la cultura che lo ha prodotto e la natura, o la vita, che lo ha ispirato.

Se l’Utopia che ho delineato vi pare irrealizzabile, state calmi. Ho intitolato il mio intervento al museo del terzo millennio, e prima che questo millennio termini ci vogliono ancora 999 anni. Un tempo sufficiente per vedere – e spero di esserci – un’utopia realizzata.

Tratto da: Umberto Eco, Il museo del terzo millennio, Bilbao, Giugno 2007

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