Adolf Loos

Posso condurvi sulle sponde di un lago montano? Il cielo è azzurro, l’acqua verde e tutto è pace profonda. I monti e le nuvole si specchiano nel lago, e così anche le case, le corti e le cappelle. Sembra che stiano lì come se non fossero state create dalla mano dell’uomo. Come fossero uscite dall’officina di Dio, come i monti e gli alberi, le nuvole e il cielo azzurro. E tutto respira bellezza e pace…

Ma cosa c’è là? Una stonatura s’insinua in questa pace. Come uno stridore inutile. Fra le case dei contadini, che non da essi furono fatte, ma da Dio, c’è una villa. L’opera di un buono o di un cattivo architetto? Non lo so. So soltanto che la pace, la quiete e la bellezza se ne sono già andate.

Perché al cospetto di Dio non ci sono architetti buoni o cattivi. Davanti al suo trono tutti gli architetti sono uguali. Nelle città, nel regno di Belial, ci sono sottili sfumature, com’è appunto caratteristico del vizio. E io domando allora: perché tutti gli architetti, buoni o cattivi, finiscono per deturpare il lago?

Il contadino non lo fa. Neppure l’ingegnere che costruisce sulle sue rive una ferrovia o traccia con il suo battello solchi profondi nel chiaro specchio del lago. Essi creano in modo diverso. Il contadino ha delimitato sull’erba verde il terreno su cui deve sorgere la nuova casa e ha scavato la terra per i muri maestri. Ora compare il muratore. Se c’è nelle vicinanze un terreno argilloso, c’è anche una fornace per i mattoni. Se non c’è, basta la pietra delle rive. E mentre il muratore dispone mattone su mattone, pietra su pietra, il carpentiere ha preso posto accanto a lui. Allegri risuonano i colpi d’ascia. Egli costruisce il tetto. Che specie di tetto? Un tetto bello o brutto? Non lo sa. Il tetto.

E poi il falegname prende le misure per le porte e le finestre e compaiono tutti gli altri e prendono misure e vanno nella loro officina e lavorano. E poi il contadino rimesta in un grande recipiente pieno di colore a calce e dipinge la casa bella bianca. Ma conserva il pennello perché a Pasqua, l’anno prossimo, verrà di nuovo usato.

Egli ha voluto costruire una casa per sé, per la sua famiglia e per il suo bestiame, e gli è riuscito. Proprio come è riuscito al suo vicino o al suo avo. Come riesce ad ogni animale che si lascia guidare dal suo istinto. È bella la casa? Sì, è bella proprio come sono belli le rose e il cardo, il cavallo e la mucca.

E io chiedo nuovamente: perché un architetto, un architetto buono o un architetto cattivo, deturpa il lago? L’architetto, come quasi ogni abitante della città, non ha civiltà. Gli manca la sicurezza del contadino, che possiede invece una sua civiltà. L’abitante della città è uno sradicato.

Intendo per civiltà quell’equilibrio interiore ed esteriore dell’uomo garantito soltanto dal pensiero e dall’azione razionali. Io terrò fra breve una conferenza su questo tema: perché i Papua sono civili e i Tedeschi no?

La storia dell’umanità non ha dovuto registrare finora nessun periodo di inciviltà. All’uomo della città, nella seconda metà del secolo diciannovesimo, era riservato il privilegio di dar vita a questo periodo. Fino a quel momento lo sviluppo della nostra civiltà aveva continuato a scorrere come un fiume bello e regolare. Si ubbidiva all’esigenza del momento e non si guardava né avanti né indietro.

Ma poi sono sopravvenuti dei falsi profeti. Hanno detto: eppure com’è brutta e senza gioia la nostra vita. E misero insieme tutto ciò che apparteneva a tutte le civiltà, lo collocarono in musei e dissero: vedete, questa sì è bellezza. Voi invece siete vissuti in una bruttezza miserevole.

C’erano suppellettili provviste come le case di colonne e di cornicioni, c’erano velluto e seta. E soprattutto c’erano ornamenti. E poiché l’artigiano, essendo un uomo moderno, civile, non era in grado di disegnare ornamenti, si costruirono scuole nelle quali giovani sani venivano distorti finché non riuscivano a farlo. Come in Cina si ficcano i bambini in un vaso e li si nutre per anni, finché ridotti a orrendi aborti non fanno scoppiare la loro gabbia. Si guardò ora a questi orribili aborti spirituali con lo stesso stupore con cui si guardava ai loro fratelli cinesi, ed essi poterono meritatamente guadagnarsi il pane grazie ai loro difetti.

Cioè non ci fu allora nessuno che gridasse agli uomini: pensateci! La via della civiltà è una via che si allontana dagli ornamenti per condurre all’assenza di ornamento! Evoluzione civile è sinonimo di eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso. Il Papua ricopre di ornamenti tutto ciò che è alla sua portata, dal suo volto e dal suo corpo al suo arco e alla sua barca a remi. Oggi però il tatuaggio è un segno di degenerazione ed è in uso soltanto presso i delinquenti e gli aristocratici degenerati. E l’uomo civile, a differenza dell’abitante della Papuasia, trova un volto non tatuato più bello di un volto tatuato, anche se il tatuaggio fosse opera dello stesso Michelangelo o di Kolo Moser. E l’uomo del secolo diciannovesimo vuole che siano difesi dai nuovi Papua prodotti artificialmente non solo il suo volto, ma le sue valigie, i suoi vestiti, le sue suppellettili, le sue case! Il gotico? Noi siamo più in alto degli uomini del periodo gotico. Il Rinascimento?! Noi siamo più in alto. Noi siamo diventati più esigenti e più nobili. Ci manca quella saldezza di nervi che occorre per bere in un boccale d’avorio sul quale è intagliato un combattimento di Amazzoni. Le vecchie tecniche sono andate perdute? Grazie a Dio. Le abbiamo sostituite con le armonie celesti di Beethoven. I nostri templi non sono più come il Partenone dipinti in rosso, blu, verde e bianco. No, noi abbiamo imparato a sentire la bellezza della nuda pietra.

Tuttavia – già l’ho detto – in quel momento non c’era nessuno a replicare e i nemici della nostra civiltà e i laudatori di quelle antiche hanno avuto gioco facile. Per giunta hanno commesso un errore. Hanno frainteso le epoche passate. Siccome venivano conservati soltanto quegli oggetti che, a causa della loro ornamentazione fine a se stessa, poco si adattavano all’uso, ci sono giunte soltanto cose decorate e così si è supposto che in passato ci fossero soltanto cose decorate. Inoltre, in base agli ornamenti era facile stabilire l’età e la provenienza degli oggetti, e il catalogarli fu uno dei piaceri più edificanti di quell’epoca maledetta.

A quel punto però l’artigiano non poteva tenere il passo. In un sol giorno doveva essere in grado di riscoprire e reinventare tutto ciò che presso tutti i popoli era stato fatto attraverso migliaia d’anni. Questi oggetti erano di volta in volta espressione della loro civiltà ed erano realizzati dai maestri allo stesso modo in cui il contadino costruisce la sua casa. Il maestro di oggi poteva lavorare come i maestri di sempre. Ma il contemporaneo di Goethe non poteva già più realizzare ornamenti. Allora si andò a cercare quelle menti distorte che furono poi date come tutori al maestro.

Il capomastro, il costruttore, ricevettero così un tutore. Il capomastro sapeva costruire soltanto case: nello stile del suo tempo. Ma chi poteva costruire in qualsiasi stile del passato, chi aveva perduto ogni legame con il proprio tempo, costui, sradicato e distorto, divenne il dominatore, lui, l’architetto.

L’artigiano non poteva occuparsi molto di libri. L’architetto attingeva tutto dai libri. Una letteratura immensa lo provvide di tutto ciò che era importante sapere. Non si ha idea della quantità di veleno che abili pubblicazioni riversano sulla nostra civiltà urbana, di quanto esse abbiano impedito ogni presa di coscienza. Che l’architetto avesse impresso nella sua mente le forme in modo da poterle disegnare a memoria, o che dovesse tenersi davanti il modello durante la sua ‘creazione artistica’, il risultato era identico. L’effetto era sempre lo stesso. Era sempre un orrore. E questo orrore crebbe all’infinito. Ognuno aspirava a vedere eternamente le sue cose in nuove pubblicazioni e così un gran numero di riviste di architettura venne incontro alla vanità degli architetti. E la situazione è rimasta tale e quale fino ai nostri giorni.

Ma l’architetto ha soppiantato il capomastro anche per un altro motivo. Ha imparato a disegnare e ha potuto farlo perché non ha imparato nient’altro. L’artigiano invece non sa farlo. La sua mano è diventata goffa. Le piante disegnate dagli antichi maestri sono pesanti, qualsiasi allievo della scuola di architettura saprebbe farle meglio. E così appare il cosiddetto libero interprete, l’uomo richiesto da ogni studio di architettura e pagato profumatamente!

L’architettura è scaduta ad arte grafica per colpa degli architetti. Non colui che sa costruire meglio riceve il maggior numero di commissioni, ma chi sa presentare meglio i suoi lavori sulla carta. E questi due tipi stanno agli antipodi.

Se si vogliono mettere in fila le arti e si comincia con la grafica, troviamo che da essa si può passare alla pittura. Da questa si può arrivare alla scultura attraverso la scultura policroma, e dalla scultura si può giungere all’architettura. Grafica e architettura sono l’inizio e la fine di una medesima linea.

Il miglior disegnatore può essere un cattivo architetto, il miglior architetto può essere un cattivo disegnatore. Già nella scelta della professione di architetto viene richiesto il talento per l’arte grafica. Tutta la nostra nuova architettura è inventata alla tavola da disegno, e i disegni che ne risultano trovano poi una rappresentazione plastica, come i quadri al museo delle cere.

Per gli antichi maestri invece il disegno era soltanto un mezzo per farsi capire dall’artigiano esecutore. Come il poeta deve farsi intendere per mezzo della scrittura. Tuttavia non siamo ancora così incivili da insegnare a un ragazzo la poesia attraverso la calligrafia.

Ora una cosa è ben nota: ogni opera d’arte ha delle leggi interne talmente forti che può manifestarsi soltanto in un’unica forma.

Un romanzo da cui è possibile trarre un buon dramma è cattivo tanto come romanzo che come dramma. Un caso molto peggiore si ha inoltre quando due arti differenti, che per altri versi presentano dei punti di contatto, possono essere scambiate. Un quadro che si inserisce bene in un museo delle cere è un brutto quadro. Un tirolese da salotto lo si può vedere nel Kastans Panoptikum,25 non però in un’aurora di Monet o in un’acquaforte di Whistler. Ma è orribile se un disegno di architettura, che, per il tipo di esecuzione, mostra di voler essere preso in considerazione già in quanto capolavoro grafico – e fra gli architetti ci sono dei veri artisti-grafici –, viene poi anche realizzato in pietra, ferro e vetro. Perché ciò che contraddistingue l’architettura autentica è il fatto di non poter essere resa con efficacia sul piano. Se potessi cancellare dalla memoria dei contemporanei l’architettura più straordinaria, il palazzo Pitti, e potessi presentarla come progetto a un concorso, disegnata dal miglior grafico, la giuria mi spedirebbe in manicomio.

Oggi però domina il libero interprete. A determinare le forme dell’architettura non è più lo strumento di quell’arte, ma la matita. Dalle modanature di un edificio, dai suoi ornamenti, l’osservatore può desumere se l’architetto lavora con la matita numero 1 o numero 5. E quali effetti devastanti sul gusto ha sulla coscienza il compasso! La linea tratteggiata fatta con il tiralinee ha prodotto l’epidemia del quadrato. Non c’è cornice di finestra, non c’è lastra di marmo che non sia tratteggiata in scala 1:100; tocca poi al muratore e allo scalpellino di incidere o bocciardare questa follia grafica con il sudore della fronte. Se per caso il tiralinee dell’artista è caricato con inchiostro colorato, si scomoda anche il doratore.

Io affermo invece: una vera architettura non può essere resa con efficacia da un disegno che la rappresenta su una superficie. È il mio più grande motivo di orgoglio che gli spazi interni creati da me non facciano alcun effetto in fotografia. Che le persone che abitano nei locali da me progettati non riconoscano la loro abitazione dalle fotografie, proprio come il possessore di un quadro di Monet non riconoscerebbe la sua opera al Kastans Panoptikum. Devo quindi rinunciare all’onore di vedermi pubblicato nelle varie riviste di architettura. Mi è negato così di soddisfare la mia vanità.

Per questo forse la mia azione resta inefficace. Di me non si conosce nulla. Ma qui si mostra la forza delle mie idee e la giustezza del mio insegnamento. Io, l’impubblicato, io, la cui opera non è conosciuta, io sono l’unico dei mille architetti che eserciti una reale influenza. Posso servirmi di un esempio. Quando mi fu concesso per la prima volta di fare qualcosa – fu abbastanza difficile, perché, come ho detto, i lavori come li concepisco io non possono essere rappresentati graficamente – fui aspramente criticato. Avvenne dodici anni or sono: il Café Museum a Vienna. Gli architetti lo chiamarono ‘Café Nihilismus’.26 Tuttavia il Café Museum esiste ancora oggi, mentre tutti i moderni lavori da mobiliere degli altri mille architetti sono già stati gettati in soffitta da gran tempo. Oppure essi si devono vergognare oggi di questi lavori. E che il Café Museum abbia avuto più influsso sulla nostra produzione di mobili di tutti i lavori precedenti messi assieme ve lo può confermare uno sguardo all’annata 1899 della «Dekorative Kunst» di Monaco, dove fu riprodotto questo interno – credo che se così avvenne fu per una svista della redazione. Ma non furono quelle due riproduzioni fotografiche a esercitare allora un influsso – passarono completamente inosservate. Soltanto la forza dell’esempio ha esercitato la sua influenza. Quella forza con la quale anche gli antichi maestri hanno agito, capace di raggiungere con la massima rapidità i più remoti angoli della terra, anche se, o piuttosto perché ancora non esistevano la posta, il telegrafo e i giornali.

Nella seconda metà del secolo diciannovesimo echeggiò il grido degli incivili: non abbiamo uno stile architettonico! Che menzogna, che falsità! Proprio quest’epoca, più di ogni altra, aveva uno stile fortemente accentuato, uno stile che con maggior stacco si distingueva da tutti gli altri periodi; si trattava di un cambiamento che non ha precedenti nella storia della civiltà. Ma poiché i falsi profeti potevano riconoscere un prodotto soltanto in base ai diversi tipi di ornamenti, essi feticizzarono l’ornamento, spacciarono per legittimo un bastardo chiamandolo stile. Uno stile vero lo avevamo, ma non avevamo ornamenti. Se potessi strappar via dalle nostre case vecchie e nuove tutti gli ornamenti in modo da lasciare soltanto le nude pareti, sarebbe veramente difficile distinguere una casa del quindicesimo secolo da una del diciassettesimo. Ma qualsiasi profano saprebbe riconoscere a prima vista le case del diciannovesimo secolo. Non avevamo alcun ornamento e lamentavano che non avessimo uno stile. E seguitarono a copiare con insistenza gli ornamenti del passato finché essi stessi non lo trovarono ridicolo e, quando fu impossibile andar oltre su questa strada, inventarono nuovi ornamenti, erano cioè finiti così in basso da riuscire a farlo. E ora sono tutti soddisfatti di aver trovato lo stile del ventesimo secolo.

Solo che lo stile del ventesimo secolo non è affatto questo. Vi sono moltissime cose che mostrano nella sua forma pura lo stile del ventesimo secolo. Sono quelle cose ai cui autori non furono imposti come tutori quelle menti distorte. Tali autori sono soprattutto i sarti. Ma anche i calzolai, i valigiai, i sellai, i carrozzieri, i costruttori di strumenti e tutti, tutti quelli che furono risparmiati dallo sradicamento generale soltanto perché il loro mestiere non sembrò abbastanza distinto agli incivili da poter partecipare alle riforme da loro dettate. Che fortuna! Servendomi di questi resti lasciatimi dagli architetti, ho potuto ricostruire dodici anni fa la moderna arte dei mobili, quell’arte che possederemmo già saldamente se gli architetti non avessero cacciato il naso nei laboratori dei mobilieri. Infatti non ho assolto il mio compito come un artista, creando liberamente e lasciando libero corso alla fantasia. È proprio così che ci si esprime nei circoli artistici. No. Io invece entrai nei laboratori timido come uno scolaro, rispettoso osservavo l’uomo dal grembiule blu. E lo pregavo: fammi partecipe dei tuoi segreti! Giacché, schiva, si celava allo sguardo degli architetti ancora gran parte della tradizione artigianale. E quando essi lessero il mio pensiero, quando si accorsero che non ero uno che voleva manipolare il loro amato legno fantasticandoci sopra a tavolino, quando videro che non intendevo profanare il nobile colore del materiale da loro tanto onorato verniciandolo di verde o di violetto, allora emerse la loro fiera coscienza d’artigiani e si manifestò apertamente la loro tradizione custodita con ogni cura, e il loro risentimento contro gli oppressori poté infine aver libero sfogo. E io inventai il moderno rivestimento in pannelli di legno che copre le cassette idrauliche dei vecchi water-closets, trovai la moderna soluzione d’angolo per i cassetti dove si tengono le posate d’argento e trovai serrature e borchie dal fabbricante di bauli e di pianoforti. E trovai la cosa più importante: cioè che lo stile del 1900 si differenzia da quello del 1800 soltanto nella misura in cui il frac del 1900 si distingue dal frac del 1800.

E non è molto. L’uno era di panno blu e aveva i bottoni d’oro, l’altro è nero e ha i bottoni neri. Il frac nero è nello stile del nostro tempo. Nessuno può negarlo. Le menti distorte, nella loro superbia, non si erano curate della riforma dei nostri vestiti. Erano cioè tutte persone serie che ritenevano poco dignitoso occuparsi di simili cose. E così il nostro modo di vestire si mantenne nello stile del suo tempo. All’uomo serio e dignitoso si addiceva soltanto inventare ornamenti.

Quando finalmente mi toccò il compito di costruire una casa, mi dissi: l’esterno della casa può essersi trasformato al massimo come il frac. Dunque non molto. E vedevo come avevano costruito gli antichi, e vedevo come essi, di secolo in secolo, di anno in anno, si erano emancipati dall’ornamento. Io dovevo perciò agganciarmi al punto in cui la catena dello sviluppo era stata spezzata. Sapevo una cosa: per restare nel solco di questo sviluppo dovevo diventare ancora molto più semplice. Dovevo sostituire i bottoni d’oro con quelli neri. La casa non deve dar nell’occhio. Non avevo coniato una volta il motto: è vestito in modo moderno chi dà meno nell’occhio? Sembrò un paradosso. Ma vi furono delle brave persone che annotarono diligentemente queste mie idee paradossali e le fecero ristampare. Ciò accadde così spesso che alla fine la gente le considerò verità.

Tuttavia per quanto riguarda il non dar nell’occhio non avevo tenuto conto di una cosa. E cioè: quanto valeva per l’abito non valeva per l’architettura. Anzi, se l’architettura fosse stata lasciata in pace dalle menti distorte e l’abito fosse stato trasformato nel senso delle anticaglie teatrali o in senso secessionistico – tentativi in questa direzione ce ne erano pur stati –, le posizioni sarebbero state invertite.

Immaginatevi la situazione in questo modo: ognuno indossa un abito che appartiene a un’epoca passata o a un immaginario, lontano futuro. Si vedrebbero allora uomini vestiti nella foggia di tempi remoti, donne con acconciature alte come torri e in crinolina, graziosi signori in brache alla borgognona. E in mezzo a questi un paio di tipi vezzosi, vestiti alla moderna con scarpini violetti e giubbotti di seta verde mela con guarnizioni del professor Walter Scherbel. E tra loro farebbe il suo ingresso un tipo con indosso una semplice redingote. Non darebbe forse nell’occhio costui? Anzi, peggio ancora, non darebbe scandalo? E non chiamerebbero forse la polizia, che è fatta apposta per allontanare tutto ciò che desta scandalo?

Le cose invece stanno a rovescio. Il vestiario è giusto, l’arlecchinata la troviamo nell’architettura. La mia casa (intendo la ‘Looshaus’ nella Michaelerplatz a Vienna, che fu costruita nello stesso anno in cui fu redatto questo articolo) scatenò un vero scandalo e la polizia comparve sul posto. Fra quattro mura potevo fare quel che volevo, ma certe cosacce non si fanno per la strada!

* * *

Di fronte alle mie ultime argomentazioni molti saranno restati perplessi, perplessi per quanto riguarda il parallelo che io faccio tra architettura e sartoria. L’architettura è pur sempre un’arte. Concediamolo, per il momento, concediamolo. Ma a voi non è ancora mai saltata all’occhio la straordinaria corrispondenza che c’è tra l’aspetto esteriore degli uomini e l’aspetto esteriore delle case? Non si accordava forse lo stile gotico con i cernecchi e la parrucca coi ricciolini con il barocco? Ma le nostre case di oggi si accordano con il nostro abbigliamento? Si ha paura dell’uniformità? Ebbene, gli edifici antichi di una certa epoca e di un certo paese non erano forse uniformi? Tanto uniformi che grazie alla loro uniformità ci è possibile ordinarli secondo i vari stili e paesi, secondo popoli e città? La vanità isterica era ignota agli antichi maestri. La tradizione aveva determinato le forme. E non furono le forme a mutarla. Soltanto che i maestri non erano in grado di applicare fedelmente, in ogni situazione, la salda, consacrata forma tradizionale. Nuovi compiti operarono un mutamento nella forma, fu così che vennero infrante le vecchie norme e sorsero forme nuove. Ma gli uomini del tempo erano d’accordo con l’architettura del loro tempo. La nuova casa appena sorta piaceva a tutti. Oggi la maggior parte delle case piacciono soltanto a due persone: al padrone di casa e all’architetto.

La casa deve piacere a tutti. A differenza dell’opera d’arte, che non ha bisogno di piacere a nessuno. L’opera d’arte è una faccenda privata dell’artista. La casa no. L’opera d’arte vien messa al mondo senza che ce ne sia bisogno. La casa invece soddisfa un bisogno. L’opera d’arte non è responsabile verso nessuno, la casa verso tutti. L’opera d’arte vuol strappare gli uomini dai loro comodi. La casa è al servizio della comodità. L’opera d’arte è rivoluzionaria, la casa è conservatrice. L’opera d’arte indica all’umanità nuove vie e pensa all’avvenire. La casa pensa al presente. L’uomo ama tutto ciò che serve alla sua comodità. E odia tutto ciò che lo molesta e vuol strapparlo alla posizione che ha raggiunto e che si è assicurata. Ed è per questo che ama la casa e odia l’arte.

Dunque la casa non avrebbe niente a che vedere con l’arte, e l’architettura non sarebbe da annoverare tra le arti? Proprio così. Soltanto una piccolissima parte dell’architettura appartiene all’arte: il sepolcro e il monumento. Il resto, tutto ciò che è al servizio di uno scopo, deve essere escluso dal regno dell’arte.

Soltanto quando verrà superato il grave malinteso che l’arte sia una cosa che può rispondere a un determinato scopo, soltanto quando dal lessico dei popoli sarà scomparsa la menzognera espressione ‘arte applicata’, soltanto allora avremo l’architettura del nostro tempo. L’artista deve essere al servizio solo di se stesso, l’architetto della società. Ma l’aver confuso arte e artigianato ha arrecato danni incalcolabili a entrambi e all’umanità. L’umanità, per colpa di questa confusione, non sa più che cosa sia arte. Con furia insensata essa perseguita l’artista e in questo modo impedisce la creazione dell’opera d’arte. L’umanità commette in ogni momento l’enorme peccato che non può essere perdonato, il peccato contro lo Spirito Santo. Assassinio e rapina, tutto può essere perdonato. Ma le molte None sinfonie che l’umanità ha impedito, nella sua cieca persecuzione dell’artista – no, il peccato è già nell’omissione – queste non le verranno perdonate. Contrariare i piani di Dio, questo non le verrà perdonato.

L’umanità non sa più che cosa sia arte. ‘L’arte al servizio del commerciante’ si chiamava una recente esposizione a Monaco e non si trovò nessuna mano che castigasse l’espressione insolente. E nessuno ride della bella espressione ‘arte applicata’.

Chi invece sa che l’arte esiste per condurre gli uomini sempre più avanti, sempre più in alto, per farli più simili a Dio, trova che la confusione degli scopi materiali con l’arte è la profanazione dell’Altissimo. Gli uomini non lasciano fare all’artista perché non incute loro rispetto e l’artigianato, oppresso dal peso schiacciante delle esigenze ideali, non può svilupparsi liberamente. L’artista non può essere sostenuto presso i suoi contemporanei da nessuna maggioranza. Il suo regno è l’avvenire.

Poiché esistono edifici di buon gusto ed edifici di cattivo gusto, la gente suppone che i primi siano opera degli artisti e i secondi dei non-artisti. Ma costruire con gusto non è ancora un merito, come non è un merito non mettersi il coltello in bocca o pulirsi i denti al mattino. Qui si confonde l’arte con la civiltà. Chi mi può documentare una mancanza di gusto in epoche passate, quindi civili? Le case fatte dal più modesto capomastro di provincia erano di buon gusto. Ovviamente c’erano grandi maestri e piccoli maestri. I grandi lavori erano riservati ai grandi maestri. Grazie alla loro maggiore cultura i grandi maestri avevano un contatto più intimo degli altri con lo spirito del tempo.

L’architettura suscita nell’uomo degli stati d’animo. Il compito dell’architetto è dunque di precisare lo stato d’animo. La stanza deve apparire accogliente, la casa abitabile. Il Palazzo di Giustizia deve apparire al vizio segreto come un gesto di minaccia. La sede della banca deve dire: qui il tuo denaro è custodito saldamente e con oculatezza da gente onesta.

All’architetto questo riesce soltanto se si collega a quegli edifici che finora hanno suscitato nell’uomo questo stato d’animo. Presso i Cinesi il colore del lutto è il bianco, per noi è il nero. I nostri architetti non riuscirebbero quindi a suscitare con il nero uno stato d’animo gioioso.

Se in un bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura.

La nostra civiltà si fonda sul riconoscimento della inarrivabile grandezza dell’antichità classica. Dai Romani abbiamo derivato la tecnica del nostro pensiero e del nostro modo di sentire. Ai Romani dobbiamo la nostra coscienza sociale e la disciplina della nostra anima.

Non è un caso che i Romani non fossero in grado di inventare un nuovo ordine di colonne, un nuovo ornamento. Per far questo erano già troppo progrediti. Essi hanno derivato tutto questo dai Greci e lo hanno adattato ai loro scopi. I Greci erano individualisti. Ogni edificio doveva avere la sua modanatura, il suo ornamento. I Romani invece pensavano socialmente. I Greci non riuscivano neppure a governare le loro città, i Romani dominarono la terra intera. I Greci sprecarono la loro forza inventiva negli ordini delle colonne, i Romani applicarono la loro nel progettare gli edifici. E chi può risolvere grandi problemi di progettazione non pensa a nuove modanature.

Da quando l’umanità ha compreso la grandezza dell’antichità classica, un solo pensiero unisce fra loro i grandi architetti. Essi pensano: così come io costruisco avrebbero costruito anche gli antichi Romani. Noi sappiamo che hanno torto. Tempo, luogo, scopo, clima, ambiente vietano questo calcolo.

Ma ogni volta che l’architettura si allontana dal suo modello con i minori, i decorativisti, ricompare il grande architetto che la riconduce all’antichità. Fischer von Erlach nel sud, Schlüter nel nord furono a buon diritto i grandi maestri del secolo diciottesimo. E sulla soglia del diciannovesimo secolo c’era Schinkel. Lo abbiamo dimenticato. Possa la luce di questa straordinaria figura illuminare la nostra futura generazione di architetti!

(1910)

Tratto da:  Adolf Loos, Parole nel vuoto, Traduzione di Sonia Gessner, Adelphi

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