Paragono sempre più spesso, a volte con confronti di date, ricerca di parallelismi e coincidenze costante, la fine del secolo passato e di questo. Si rilevano subito due aspetti piuttosto strani: la fine del secolo XIX è clamorosamente pervasa, in onde di trepidazione e con effetti di autentico culto idolatrico, dal messianismo scientifico; e c’era in questo un trasporto di gioia, di speranza senza limiti… Psicologicamente, però, la depressione tocca il punto più basso della storia dell’umanità: la tristezza si tocca con la mano, esce da tutti i luoghi, impregna tutto. Non c’è essere pensante che sia privo della fondamentale connotazione del Pessimismo. Non c’è grande frutto dell’arte che non sia una faccia di quell’unico prisma.
Emblematico è Zola. La sua fede nella verità scientifica è puerilmente illimitata; la sua opera è un’immensa cloaca di liquami pessimistici, il punto d’arrivo è, come per Conrad, lo heart of darkness. È un locomotore poetico che attraversa i fuochi notturni della vita su un gigantesco ponte di ferro, nero, rimbombante. Non c’è neppure un barlume di gioia nell’incontro tra l’ingegnere minerario e l’unico superstite dell’esplosione del Voreux, nella galleria inondata, che pure è di un travolgente lirismo: «Era una tristezza immensa, la miseria delle generazioni, l’eccesso di dolore in cui può precipitare la vita».
Di questa tristezza del secolo XIX parlo spesso, per lettera, con un amico, e non si finisce di esplorarla. Io mi considero generato in quella tristezza, enormemente accresciuta dal passaggio dei nostri padri attraverso la prova della guerra di trincea, senza tuttavia sentire il peso, le conseguenze dell’eredità, forse anche, per restare nel concreto, per via dell’ambiente, del milieu già radicalmente diverso, che mi ha accolto dai primi anni. Mio padre era molto più pessimista di suo figlio, e nello stesso tempo molto più sereno. La sua fiducia scientifica era, popolarmente, dello stesso tipo di Zola. Forse, la pressione della tristezza psicologica era meglio sopportata perché era più forte, più capace di reggere, la tempra.
Nulla si sottraeva alla tristezza del tempo. Sociologi come Vilfredo Pareto, psichiatri come Lombroso… Paralumi, teatri d’ombre, prime voci di morti registrate, sifilicomi, ubriachezze, robes de deuil, manicotti, appuntamenti – tutto era triste. Un documento di tristezza è ogni lettera, ogni cartolina, ogni verso, ogni pastello… Si resta meravigliati, pensando al successivo semicretinismo ottimistico dei cristiani, in Italia, leggendo il testamento-lettera di Giosuè Borsi, cattolico devotissimo, alla madre, la vigilia di perdere con gioia la maleamata vita sull’Isonzo, per mano di Cadorna. Dove neppure ti teneva per le ascelle la fede scientifica, la tristezza prendeva il sopravvento, ed era il suicidio filosofico, alla Michelstaedter. In fondo, sono suicidi che ha fabbricato lo spirito del tempo entrambi, l’ebreo Michelstaedter e il cristianissimo Borsi, che attraversò l’Isonzo servendosi del fiume mitragliato come un nobile romano di una mano schiava che gli reggesse la spada su cui infilzarsi per morire.
Di quest’altra fine di secolo parliamo talmente che la babele attuale, più che a una torre crollata, somiglia all’Amazzonia che non c’è più. Ma qui voglio solo notare quel che c’è di cambiato, rispetto al XIX.
La religione della scienza e l’attesa della palingenesi sociale violenta si sono dileguate: due sorgenti inesauribili di tristezza. E i coltelli per uccidere a pendere più rari sulle pallide carni: ancora sì, perché inseparabile dall’uomo-belva è il coltello, però a quel tempo erano incessantemente alzati, e in ogni rissa o delitto, anche il più aristocratico, spuntavano. (Coltello è un’arma tristissima, un assassino veramente allegro ne ha schifo). Le pelli di animali ai piedi dei letti sono scomparse e i grembiuli insanguinati dei chirurghi barbuti, e i lampioni a gas che evocavano apparizioni vampiriche e Mr. Hyde e la sua triste porta. In apparecchi sanitari infallibili la tristezza delle esonerazioni fecali svanisce, a un cenno lieve, magicamente. L’emottisi, l’eruzione vaiolosa, la crisi di pazzia furiosa, l’iperplasia della prostata, il collare di Venere, la tosse indomabile, l’aborto sanguinario, grandi affluenti del Mare delle Tristezze, hanno subìto un trattamento di sterminio. Sull’emicrania, il reumatismo, il dolore dei denti si sono avventati i pungiglioni delle aspirine, il valium e i barbiturici hanno incatenato l’insonnia e l’epilessia, mostri dell’Antinferno. Tra le donne, l’isterica era triste e scontrosa, mentre l’attuale anoressica mantiene intatto il sorriso. E i monarchi, col petto dove piangevano medaglie e onorificenze senza speranza, la quantità delle uniformi (bellissime ma plumbee, carcerarie), il cotto scuro delle fabbriche, l’immensità del popolo delle miniere, la faccia dura delle padrone di case di tolleranza – tutta questa tristezza si è ricongiunta agli eoni soffiati via, che per ora non torneranno.
Tuttavia la tristezza del XIX ebbe una corona di follia a rischiararla: credeva nel secolo futuro, gli scaricò dentro, negli anni dell’inizio, tutta la smisurata sua elettricità di speranza. Si può ben dire che morì pazzo, come il suo Nietzsche, il XIX… Il XX, nella paura muore. Di speranza non parlano che i cretini, sono numerosissimi, però non fanno connotazione. L’insolubilità di tutto è la visione di chi pensa lucidamente. La moneta cartacea, l’inflazione implacabile sono grandi produttrici di angoscia esistenziale: riempiamo, per placarla, di prodotti assurdi, colorati, i frigoriferi, eppure non è che moneta cartacea salvata dalla decomposizione perché cadavere. Il tempo è turato: contro queste mura di Babilonia sono sbattuti a sfracellarsi i figli, le membra rotte formano montagne davanti al muro sempre più alto, impenetrabile.
Abbiamo sicuramente perso, uccidendo la tristezza dell’altro secolo – che perdura fino all’armistizio dell’11 novembre –, qualcosa di spiritualmente necessario, una specie di surrogato del Dio ripudiato, oggi confinato nelle pagine culturali. Nella tristezza c’era ancora un’aspirina che teneva l’Angoscia lontana, come nell’organo di Barberia e nella sua malinconia irradiata per le vie e dentro le case c’era una tutela musicale estrema contro la bruttezza invasora. Detronizzate la tristezza e la poesia del male di vivere, la repubblica dell’Angoscia ne piglia il posto e crea un Impero senza confini.
Se la tristezza era figlia della certezza, riflessa in tutti gli oggetti e fin nelle loro ombre, che la vita è il male essenziale, l’angoscia di fine XX zampilla dal dogma contrario: la vita, in quanto tale, preti e atei concordano, è predicata e imposta ai dubitanti come l’assoluto bene, quantunque per provarlo manchino i documenti e i testimoni. C’è una nuova Inquisizione, che funziona esclusivamente per colpire l’eresia che mette in dubbio la bontà del vivere e, se potesse, brucerebbe ancora una volta i libri. Ma dappertutto c’è quel muro murante, e la tanto farcita di piacevolezze e di portenti medici, con più forza e più grido si mostra assoggettata alla precarietà e alla morte, e la longevità ultracentenaria scesa dal rapido delle 24.01, assicurata dalla tecnica, s’infutura come uno sbullonato carrozzone che trema, verso un traguardo di scherno.
Vivere senza l’ossessiva superstizione che la vita debba essere per forza bene, metafisicamente bene, consente la pietà, la tolleranza, il rispetto del dolore. Benedetta l’eresia della vita come assoluto male: non rende più felici, ma non accresce stupidamente le sventure del mondo.
Stranamente, è fonte di angoscia anche quel che nell’abito, negli oggetti, nell’ambiente privato ha contribuito all’attenuazione della morsa di tristezza di allora: le pareti chiare, il tessuto colorato, le cucine non annerite, il bagno luminoso dopo tanto nero cesso. Si tratta di consolazioni punitive: sufficienti a delle povere bestie addomesticate, non certo a delle anime inchiodate al proprio eterno mistero di fame.
Devo interrompere. L’argomento è appassionante. Qualcun altro può ripigliarlo, mentre io seguiterò nelle mie piccole riflessioni.
1988
Tratto da: Guido Ceronetti, Cara incertezza, Adelphi
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