Il più importante repertorio di immagini della prima età moderna – l’Iconologia di Cesare Ripa – contiene un’allegoria della Conservazione il cui senso è che la «durazione» delle cose si può assicurare solo a condizione di una «trasmutazione».
È proprio così: l’ambiente e il patrimonio storico e artistico della nazione italiana dureranno solo se gli italiani «trasmuteranno» la loro mentalità. Per farlo abbiamo bisogno di pensieri diversi, di parole che non siano quelle – fruste, inefficaci, fallimentari – che affondano ogni giorno il discorso pubblico italiano. Di un altro modo per guardare alla funzione della cultura.
Un modo che riprenda le parole e lo spirito della Costituente: e soprattutto che ne riprenda lo sguardo felicemente presbite, e cioè libero dall’angoscia del presente e capace di guardare lontano. È di quel punto di vista che abbiamo disperatamente bisogno se vogliamo rompere l’opprimente stato delle cose nell’Italia di oggi: abbiamo bisogno di uno sguardo pieno di fiducia e di amore, di un progetto carico di futuro.
Per questo non parlerò di ‘beni culturali’, ma di ‘patrimonio’. Il patrimonio non è un’entità amministrativa, né una categoria economica: è, letteralmente, il retaggio dei padri, l’eredità delle generazioni che ci hanno preceduti. È ciò che ci definisce come famiglia, come comunità. «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»: l’articolo 9 della Costituzione si lega all’articolo 1 («la sovranità appartiene al popolo»), perché, conquistando la sovranità, il popolo acquista anche un patrimonio, quello che un tempo era nella disponibilità del re. Così, parlando di patrimonio parliamo di cittadinanza, di sovranità popolare, di uno Stato inteso come comunità. Durante un dibattito televisivo del dicembre 2013, un mio occasionale interlocutore ha esortato gli italiani a «non fidarsi della Pubblica amministrazione», e a fare invece da soli: rimboccandosi le maniche in prima persona per salvare il patrimonio artistico, magari riunendosi in associazioni. Il mio intervento vuole ricordare che esiste già una associazione per la difesa dell’ambiente e del patrimonio storico e artistico della nazione: quella associazione si chiama Repubblica italiana. Difficilmente potremmo inventarcene di migliori: perché solo la Repubblica può permettere al patrimonio di svolgere la sua vera funzione. Che non è assicurare il diletto privato di pochi illuminati volenterosi, ma alimentare la virtù civile, essere palestra di vita pubblica, mezzo per costruire uguaglianza e democrazia sostanziali. E a garantirlo è lo statuto di questa speciale associazione di cittadini: la Costituzione, appunto. L’impegno di ogni cittadino è prezioso: e mai come ora c’è bisogno di un’assunzione di responsabilità in prima persona. Ma il frutto di quell’impegno individuale non può essere la pietra tombale su ogni speranza di esistere come comunità: non possiamo condannarci a mimare ogni giorno il ruolo dello Stato, a ricostruirne malamente le funzioni in una sorta di bricolage personale. Al contrario, l’impegno personale dei cittadini deve aiutarci a riprendercelo, lo Stato. Insieme a quelle per la scuola, l’università e la salute pubblica, la lotta di resistenza per la difesa del patrimonio culturale è uno dei mezzi attraverso i quali dobbiamo riuscire a riportare la Repubblica a res publica.
Sono consapevole che si tratta di un messaggio controcorrente. L’intera scena politica italiana sembra infatti caratterizzata da un unico estremismo: quello antistatale. Così la pensa quel che resta della destra berlusconiana, così il centro post-montiano, così anche ciò che un giorno fu la sinistra, e che oggi si è affidata al neoliberismo ritardatario di Matteo Renzi. Quasi tutti i partiti rappresentati in Parlamento affermano che lo Stato non può essere la soluzione dei nostri problemi, perché esso stesso sarebbe il problema. Paradossalmente, questa convinzione rischia di mettere d’accordo la destra e ciò che era la sinistra: i neoliberisti con i fautori di una visione anti-pubblica del diritto dei beni comuni.
Una simile, radicale, sfiducia nello Stato fu espressa esattamente con quelle parole il 20 gennaio del 1981 da Ronald Reagan, nel discorso di insediamento del suo primo mandato alla Casa Bianca: «In this present crisis, government is not the solution to our problem; government is the problem». Ed è questa la dottrina che ha distrutto, in Europa, ogni idea di giustizia sociale e solidarietà, rimpiazzandola con la «modernizzazione», che è stata la parola d’ordine dell’età di Tony Blair: un’età a cui Renzi si ispira esplicitamente e programmaticamente, e la cui «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, … [è] volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra»1. Luciano Gallino ha spiegato che il primo articolo di questa legge – virtuale, ma ferrea – del mercato dice che «lo Stato provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio»2. Così – mentre negli Stati Uniti economisti, storici e filosofi come Joseph Stiglitz, Tony Judt o Michael Sandel rilanciano il ruolo dello Stato e un’idea forte di interesse pubblico collettivo – l’Europa e con essa l’Italia sembrano condannarsi a guardare al passato, ripetendone errori e tragedie. Ciò che manca, ovunque si guardi, è un progetto di comunità, un’idea forte di cosa possa essere la Repubblica italiana del futuro, la capacità di render finalmente concreto l’attualissimo disegno contenuto nella Costituzione: quella vera. E questa idea manca perché oggi sembra impossibile avere un’idea dell’uomo che non sia ridotta alla sola dimensione economica. Far evadere il patrimonio culturale dalla prostrazione materiale e morale in cui è stato confinato dal totalitarismo neoliberista significa rimettere in circolo uno dei pochi antidoti a questo dogma. Perché le nostre città, i nostri musei, il nostro paesaggio non contengono solo cose belle: contengono valori e prospettive che possano liberarci, innalzarci, renderci di nuovo umani, restituirci un’idea dell’uomo e un idea di comunità che ci permettano di costruire un futuro diverso.
Testo di Tomaso Montanari
Bibliografia minima
Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Torino 2013
Ernst Gombrich, «Discipline umanistiche sotto assedio. La crisi delle università», in Argomenti del nostro tempo. Cultura e arte nel XX secolo, Einaudi, Torino 1991
Tony Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Bari 2010
Alice Leone, Paolo Maddalena, Tomaso Montanari, Salvatore Settis,
Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Einaudi, Torino, 2013
Roberto Longhi, Critica d’arte e buongoverno, Sansoni, Firenze 1985
Ugo Mattei, Contro riforme, Einaudi, Torino 2013
Tomaso Montanari, A cosa serve Michelangelo?, Einaudi, Torino 2011
Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, Roma 2013
Erwin Panofsky, «La storia dell’arte come disciplina umanistica» [1940], in Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino 1962
Michael J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2013
Salvatore Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino, 2002
Salvatore Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento, Einaudi, Torino, 2011 Salvatore Settis, Azione popolare, Einaudi, Torino, 2012
Joseph Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino 2013
David Foster Wallace, «Questa è l’acqua», in Questa è l’acqua, a cura di Luca Briasco, Einaudi, Torino 2009