Luisella Girau

“Viaggio nella memoria”, intervista ad Ettore Sottsass 

 

È difficile immaginare un profilo d’autore che esprima l’anima dell’artista che è in Ettore Sottsass o i passi più significativi della sua evoluzione linguistica e concettuale, tanto i suoi interessi perseguono linee innovative in tutti i campi della conoscenza. Spaziando dalle arti visive alla fotografia, dai viaggi nelle metropoli come in luoghi incontaminati, nei deserti od in quelli più degradati o sofisticati. Avvicinandosi ai vernacoli più primitivi od ai reperti di civilizzazioni precedenti, come fonti da cui attingere per trasferire nella composizione del progetto una propria personalissima visione del mondo. Alla ricerca di alcune risposte che l’ intensa partecipazione alla vita gli offre. Non si percepiscono nella sua ricerca percorsi definiti. Ama la libertà espressiva, la comprensione del rapporto che c’è tra la gente, i pensieri e lo spazio dove questi vivono. Non ha interesse per i valori assoluti. Non sa come interpretare la gente, non considera di essere un bravo architetto o un bravo costruttore di case poiché nel suo universo creativo non ricerca la certezza delle soluzioni (1). E quel senso della meraviglia, di uno stupore sempre autentico, come le migliori intuizioni infantili o il senso della scoperta senza tempo, il preferito approccio alla conoscenza.

Il caso ha voluto che in quei circuiti inaspettati che l’esistenza offre, Ettore Sottsass si trovasse nel duemila, sulle tracce della propria memoria. Ricordando un’ esperienza professionale in Sardegna, che ha costituito un suo primo disegnarsi intorno il mondo, per usare le sue parole, alla ricerca di un incessante confronto con se stesso che si manifesta in stupore dei fenomeni che incontra. Sempre affascinato sia fisicamente che metaforicamente dalle zone inesplorate, con i quali si relaziona: persone, luoghi e natura in un intreccio indissolubile e misterioso. Come una fiaba o un antro infernale e doloroso col quale nel viaggio della vita occorre misurarsi. Ettore Sottsass jr ha realizzato col padre in Sardegna negli anni cinquanta, all’inizio della sua attività professionale numerosi progetti tra architettura e urbanistica, soprattutto case popolari, quartieri realizzati con i fondi INA-Casa (2).

Ora che una linea di interpretazione di quegli interventi diventa sempre più attuale o da recuperare in termini di storia contemporanea, diventa sempre più importante capire quale relazione è esistita tra l’uomo (Sottsass), la gente che andava conoscendo, gli spazi, i luoghi ed i paesaggi della nostra terra. Quanta e quale importanza abbia avuto l’architettura locale e le tradizioni popolari negli anni della ricostruzione del dopoguerra in quel nucleo intrecciato di fermenti modernisti e di atteggiamento aperto verso tutte le arti, di rinnovamento e bisogno di internazionalizzazione, che ha caratterizzato il periodo.

Così quando Sottsass, ha offerto il suo reportage sull’architettura popolare in Sardegna realizzato negli anni ’50, ho compreso quell’intuizione anticipatrice che regola la percezione dell’uomo nella impostazione di un progetto. Composizione che si esprime anche nelle scelte formali, assumendo una forma compiuta. Nel ricordare Ettore Sottsass in Sardegna, non si può non pensare all’esperienza pionieristica, in una terra tutta da scoprire, che quell’attività professionale ha comportato. Allo stesso tempo il reportage, mi appare come il racconto tratto da un diario. Qualcosa che si esprime volutamente in modo semplice: con le foto, con brevi testi. Sono frammenti di un racconto personale e poetico, in un contesto estremamente disagiato. Non una scelta di stile ricorda Sottsass, ma una condizione di vita.

“Erano tempi poveri in tutti i sensi. Povera la società italiana, povera la società sarda, poveri i mezzi, povero tutto: il minimalismo non era uno stile ma una condizione. Malgrado tutta questa povertà abbiamo tentato comunque con mio padre di salvare nell’architettura quel tanto di possibile aderenza a quella vita della cultura agricola che aveva trovato sembra un certo equilibrio tra desideri e possibilità…forse con mio padre immaginavamo un luogo per una vita un po’ più poetica di come è diventata la vita contemporanea, la vita del cosiddetto benessere”.

Ad ogni modo si tratta di un percorso intellettuale aperto ad ogni aspetto della conoscenza, ricco di emozioni vissute con passione ed intensità. Ciò che colpisce è la capacità di identificazione, lontana persino da quello che poi è diventato lo stereotipo della tipologia rurale della casa campidanese o del bacile. Architettura conservata, ritrovata ma spesso senza anima, proprio perché recuperata senza considerare l’equilibrio tra natura, vita e casa che invece l’ha determinata.

Figlio di architetto ha respirato tutta la vita quest’aria “…con la mano destra mio padre disegnò sulla carta innumerevoli righe, angoli, cerchi e diagonali usando matite varie, tiralinee e lucidi inchiostri neri; dipinse con l’acquarello prospettive di intere città, palazzi, case e tombe; cancellò per ore e ore progetti sbagliati; misurò altezze, larghezze e spessori…” (3). Immerso in un dibattito intenso che ha visto il padre coinvolto nel MIAR. Personalità autorevole, molto pragmatica, con una concezione professionale da “artigiano” dell’architettura, per il quale ogni soluzione veniva provata e riprovata, adeguandosi duttilmente alla realtà ed ai contesti nel quale si trovava ad operare. Significative in questo senso, le relazioni epistolari di Sottsass sr col Carlo Meloni e la gente di Sardegna (4). Eppure sappiamo che al giovane Sottsass, non interessava costruire sulla terra una casa in più ma soprattutto come lui dice, avere un pensiero in più sulle case. Differenza d’indole e di generazione, ed allo stesso tempo di profonda comunicazione e guida tra padre e figlio, che gli insegnerà a comprendere anche l’importanza delle tradizioni popolari nel costruire. Per suggerire poi, come dice nel suo viaggio della vita in Sardegna, i termini di quello straordinario equilibrio tra natura vita e casa che la gente ha saputo e mantenere durante i secoli.

La nostra cultura è stata oggetto della sua curiosità, fino ad identificarsi in quel mondo fatto di usi agricoli e pastorali, di riti, di dimensione di necessità e povertà. Forse possiamo dire vergine, nel senso di ritorno all’origine del nostro essere, interpretato come un reperto di civilizzazione pre- cedente, da studiare con avida passione. Quando Sottsass fotografa la realtà pensa da architetto, da pittore, da scultore o da design? Difficile dire nel suo approccio con la Sardegna quale aspetto percettivo abbia prevalso. Certo osservando le foto si vedono i cesti, le sedie, i panni stesi in cucina, la struttura di una grotta. Gli utensili hanno importanza quanto l’odore delle persone che in quella stanza vivono. La materia, il colore delle rocce, l’oggetto, la conformazione del terreno e della natura nella loro relazione con l’architettura. Domandandosi quali bisogni psicologici possono determinare una gigantesca produzione di serie nella quale il prodotto si affina attraverso lunghissime esperienze, fino a raggiungere la possibilità di un uso perfetto. Cerca di comprendere alcuni dei principi compositivi che da tali intrecci di contenuti e di cultura possono venire. Con una concezione dell’architettura che è dotata di una forte carica di umana fisicità, restituendo ritualità agli oggetti, al colore delle pietre, alle fasce bianche intorno alle finestre. Alle innumerevoli modulazioni della relazione tra uomo e natura.

Sulle tracce della loro memoria in Sardegna, nel corso della visita alla Villa Meloni ad Iglesias, ci venne mostrato un vaso di terracotta, opera di Ettore Sottsass (5). Era dipinto ad anelli bianchi e blu, ma rimasi colpita soprattutto dal- la carica sensoriale che quell’oggetto trasmetteva alla signora Meloni. Nella forma era di una semplicità assoluta, senza tempo. Richiamava qualcosa di antico. In ogni modo aveva una forza anticipatrice “di modernità”, stupefacente. Ciò che mi incuriosiva inoltre, tendeva a collegare tale percezione al tentativo di comprendere la relazione esistente tra le architetture del villaggio operaio, la casa Meloni e gli emergenti significati concettuali del design nella sua relazione tra le Arti e l’ industrializzazione.

Solo più tardi ho compreso il significato di quel vaso che vorrei spiegare con le parole di Sottsass stesso “…il design non è altro che metafora figurata dell’esistenza, forma figurata dei fondali, dei terreni, delle stanze, degli strumenti, degli abiti dei gesti, e poi dei sogni, delle aspirazioni, delle consapevolezze e delle ignoranze che cerchiamo di dibattere con noi stessi e con gli altri….figure, sistemi più o meno vasti di linguaggio figurativo, che possono essere usati per dare dignità nuova, serenità nuova all’esistenza a questa vasta, aggirante, barbarica invasione della cultura industriale e tecnologica” (6).

Dunque si tratta di un’impostazione del tutto originale, di fondamentale aderenza al viaggio della vita, dove la memoria ha allo stesso tempo significato di molteplici sentimenti e di storia. Così in tale contesto si presenta l’opportunità di presentare le foto antiche realizzate dallo stesso Sottsass in occasione della realizzazione del Villaggio operaio di Iglesias. Offerte come erano e quale memoria dei tempi passati. Mentre il testo e le fotografie dell’Architettura popolare in Sardegna (7) (nell’articolo che segue) rappresentano una testimonianza del suo approccio umano e professionale nell’Isola negli anni cinquanta. Potendo anche essere interpretato come un frammento d’esistenza di Ettore Sottsass jr in un’immaginario viaggio nella memoria. Infine, nell’intervista, un ritratto dell’uomo di oggi. Dialogo che si propone un’ approccio alla personalità di Ettore Sottsass a partire da un’ipotesi di concezione dello spazio. Tendendo ad esprimere la sensibilità percettiva, le emozioni, le funzioni o quanto si può comprendere dalla sua esperienza di lavoro tra architettura, scultura, paesaggio, urbanistica ed i ritmi spazio- temporali (8), o dei vuoti nel progetto. Non dimenticando le diversità culturali o di contesto geografico nel quale questi si inseriscono, e da lui conosciuti nei numerosi e molteplici “viaggi”. In proposito Eduardo Chillida si esprime così descrivendo il suo lavoro: “Lo spazio deve essere concepito in termini di volumi plastici, invece di esse- re fissato con l’aiuto di linee sulla superfice immaginaria di un foglio di carta la forma salta fuori spontaneamente dai bisogni dello spazio, il quale costruisce la sua dimora come l’animale la conchiglia…Proprio come quest’animale, anch’io sono un architetto del vuoto” (9).

Quando “si appropria del luogo col quale la sua opera dovrà interagire, quali impulsi determinano le prime forme di comprensione? Quale fenomeno percettivo determina l’idea?

“Conforme” come dicono i veneti. Non esistono due condizioni chiare e fisse: da una parte “il luogo” chiaro e immobile e dall’altra “io” chiaro e immobile. Si confrontano sempre due culture e per gestire il confronto tra due culture non esistono “metodi”. Certe volte ci si scontra di fronte, certe volte si aggira il problema, certe volte si scappa, certe volte si vince, certe volte è una disfatta.

Ritiene che vi siano differenze di approccio progettuale tra “piccola” opera, anche un oggetto e la grande opera o l’architettura?

La differenza è soltanto “tecnica”. Se sono invitato a una cena mi vesto bene e io devo sapere o immaginare che cosa vuol dire “tecnicamente” vestirsi bene e poi decidere. Se vado a dormire, mi metto il pigiama o mi metto una maglietta o vado a dormire nudo, io devo decidere “tecnicamente” che cosa voglio fare. Sono sempre io a sapere, a immaginare, a decidere. Ci sono sempre IO, che lo voglia o no, a domandarmi che cos’è l’esistenza.

Quale secondo la sua sensibilità il contesto spaziale ideale? In quale ambito sente di esprimere al meglio la sua creatività? Se dovesse scegliere una dimensione spaziale di espressione progettuale, ritiene di avere approcci differenti tra piccolo ambito, il medio od il grande, considerando per esempio anche la dimensione urbanistica?

Secondo me non esiste il “concetto spaziale ideale” perché non esistono “spazi”. (La parola spazio ha sapore astratto, geometrico matematico. Gli spazi dei quali stiamo parlando non sono spazi astratti). Non stiamo parlando di spazi geometrici o matematici, stiamo parlando di spazi disegnati dalla storia; spazi di sabbia o spazi di alberi, spazi freddi o spazi caldi, abitati poco o abitati molto, abitati da gente povera o abitati da banchieri… abitati dalle lacrime o dalla presunzione… Forse, gli spazi disegnati dalla storia e poi disegnati da quello che immaginiamo sia stata la storia, sarebbe meglio chiamarli “luoghi”; o chiamarli città o deserti, o piazze o… Non so. Chiamarli con un nome che renda il luogo avvicinabile.

Se dovesse immaginare il suo apporto per es. in un intervento urbanistico, quali momenti caratterizzerebbero le fasi di “appropriazione”o comprensione del luogo?

Molti. Troppi. Mai abbastanza. Mai esauriti.

Parte senza un progetto preciso ma con un’idea chiara di ciò che dovrà essere il risultato? O viceversa. Nel Suo lavoro prevale la dimensione razionale, funzionale, fantastica, la relazione che l’opera stabilisce con il proprio intorno, il rispetto assoluto della natura, la valutazione preventiva dei costi, gli elementi conservativi del luogo o prevalgono altre e differenti percezioni?

Comincio sempre con quella che tu chiami la “dimensione razionale”. È la più facile e anche la più noiosa, se per dimensione razionale intendi tutto quello che si può sapere ragionando, cioè usando quella zona del pensiero che chiamiamo la ragione. Si fanno elenchi, si fanno statistiche, si fanno interviste, si chiamano consulenti specialisti, si disegnano schemi, percorsi, dimensioni e così via. Alla fine a forza di informazioni “ragionate” si sa più o meno che cosa si deve fare ma ancora non si conosce “la cosa”, cioè nel nostro caso non si conosce ancora l’architettura. L’architettura non viene né prima né dopo, non arriva né dopo, né prima: arriva – se arriva – adagio, adagio, misteriosamente, insieme a tutte le informazioni, se durante il lungo tragitto per sapere se si percorre il lungo tragitto “per sapere” accompagnati sempre dal desiderio di dare altre risposte, di immaginare, di supporre, di offrire, di consegnare un possibile pensiero o possibili pensieri sull’esistenza.

Quali elementi caratterizzano la Sua progettazione del vuoto? O la composizione del pieno? Quale sente più vicina alla Sua sensibilità?

Come credo di avere già detto sono abituato a progettare partendo da altre ossessioni. Quasi quasi ho dimenticato aggettivi come vuoto o pieno, certamente non li uso quasi mai. Uso altri aggettivi come sensoriale, colorato, ricco; povero, nuovo, vecchio, gentile, aggressivo, lirico, metafisico, semplice, complicato, pesante, leggero, opaco, trasparente…

Per ritornare ai suggerimenti offerti da Chillida, questi concepisce”… la scultura come costruzioni viventi che si adattano alla terra ed al paesaggio con cui entrano in con- tatto e crescono e respirano insieme alla natura come se nascessero direttamente dal suolo piuttosto che esservi collocate, creando nello spazio infiniti slittamenti di senso..”. Adattandosi a questa sensibilità, l’intenzionalità è dettata più da ragioni pratiche, artistiche o estetiche? Quanta importanza ha lo spazio interno, il colore negli arredamenti, le porte, l’illuminazione, i pavimenti. Ritiene di risolverli seguendo un ordine cronologico? O piuttosto seguendo una soddisfazione emozionale?

Ho conosciuto Chillida moltissimi anni fa. Era a Milano, non so perché. Eravamo più o meno disperati e pensavo che Chillida era un molto bravo scultore. Continuo a pensare che Chillida sia uno degli scultori contemporanei europei più degni di questo titolo che è un titolo raro. Ad ogni modo Chillida è uno scultore e io sono ossessionato dall’architettura e penso “la scultura si guarda”. “L’architettura si abita”. Penso: l’architettura si abita per continue moltissime ore della vita, da soli o con qualcuno o con molti altri.Nell’architettura si deposita non soltanto la nostra ani- ma ma anche il nostro fragile corpo. Nell’architettura entriamo con gioia come in un amplesso o entriamo disperati come in una prigione. Nell’architettura sentiamo i nostri odori, i nostri suoni, le nostre luci, o sentiamo odori, suoni, luci del nemico. Qualche volta sentiamo odori, suoni, luci di Dio, qualche volta odori, suoni, luci dei resti della nostra fragilità o miseria. Qualche volta ci nascondiamo nel silenzio e nell’oscurità per nasconderci; qualche volta camminiamo sui pavimenti di marmo del potere, qualche volta sulla plastica degli ospedali, qualche volta sulle moquettes dei ricchi signori o degli alberghi a 5 stelle… Che libertà ci offre l’architettura? Quando la offre, la libertà? Quando ci rasserena? Quando ci consola? Quando ci aiuta? Quando ci accompagna nell’esistenza? Quando ci fa vedere qualche schiarita al di là dell’oscurità?

In questa dimensione quanto valore ha l’impiego di materiali secondo le loro leggi, ha individuato una qualche relazione tra questi e lo stile? Conservazione, restauro, progettazione ambientale e utenza, può esistere un’impostazione di fondo che ne faciliti la relazione concreta? E sul paesaggio quale approccio interattivo, creativo sente di poter esprimere?

Le domande precedenti prevedono una risposta semplice che non ho. Non so come rispondere o forse ho già risposto.

Infine l’ultima domanda o la prima se preferisce, utile per il significato didattico o sperimentale che comporta. Lei ha viaggiato molto, arricchendosi di molteplici diversità e culture. A partire dalla Sardegna ha attraversato Indie e Americhe ed ha incontrato molti mondi che in qualche modo si ritrovano nelle sue opere e nei suoi progetti, negli appunti e nelle bellissime fotografie. Può dirci se nel suo lavoro ha individuato tra i metodi ed i temi del design, dell’architettura o del paesaggio, similitudini o differenziazioni al variare delle culture, dello spazio o del contesto geografico?

Fin da quando ero ragazzo ho sempre avuto grandi curiosità per tutto quello che c’era al di là del muro del mio orto. Ho sempre avuto voglia di viaggiare e mi immaginavo di andare in giro in bicicletta con un piccolo zaino e la tenda: mi immaginavo di andare per le strade bianche di polvere, per colline e pianure e mi immaginavo di dormire nei prati sotto il cielo con le stelle; volevo conoscere il pianeta con tutto il corpo, volevo toccare le piante, le foglie, le acque, volevo sentire i venti, volevo inseguire insetti, calabroni, libellule, volevo inseguire tutto, volevo possedere tutto il pianeta. Adesso che ci penso volevo avere un rapporto erotico con il pianeta perché ero – allora – una bomba di erotismo. Poi con il tempo, piano piano l’erotismo da innocente selvaggio che ero, ha spostato le sue ossessioni: non inseguivo più l’odore dell’erba, ho cominciato a inseguire il molto indefinibile odore ambiguo del pensiero, quel pensiero che poi si è nascosto nelle parole, quel pensiero che con la protezione della parola ha cominciato a pretendere sempre più autonomia per liberarsi delle profonde oscurità dell’erotismo, dell’innocenza selvaggia dell’erotismo. Il mondo si è riempito di autonomie, il pianeta si è riempito di parole, di possibilità, di progetti, di soluzioni, di… Io, continuo a viaggiare, non più forse nell’odore dell’erba ma in quello indefinibile del pensiero: nei paesaggi delle autonomie. Ancora vorrei possedere tutto il pianeta.

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Note / Bibliografia

1G.PETTENA (a cura di), Sottsass, l’Arte del progetto, pubblicato in occasione della mostra “Ettore Sottsass e Associati 1980/1999; Ed. Maschietto e Musolino, 1999, Pontedera (FI).
2 L. GIRAU, G. CAVALLUCCI, prefazione di G.PETTENA, Sottsass e Sottsass, sulle tracce di una memoria in Sardegna; in AAVV. ARTE, ARCHITETTURA, AMBIENTE, Ed. Ordine Architetti, pianificatori, paesaggisti, Conservatori di Cagliari e Prov., Anno 2001, n.2. pag. 27 e ss. Vedi anche G. PETTENA, Sottsass e Sottsass, Ed. Testo & Immagine, giugno 2001.
3 G. PETTENA cfr op. cit. in nota 1
4 Villa Meloni, Iglesias (CA), Progetto per l’ingrandimento della villa, 1949. Cfr in nota 2, pag. 33.
5 Cfr op. cit. in nota 2
6…questa può essere un’occasione per ripensare l’importanza di tali interventi, e provvede- re affinché alcune ipotesi progettuali, soprattutto dell’impianto paesaggistico, non compiutamente realizzate ma tutt’ora di necessità, e per i quali il tempo ha modificato condizioni e risultati, possano essere realizzate.
7 E. SOTTSASS jr, Architettura popolare in Sardegna, in AAVV. RIVISTA DEL MOVIMENTO COMUNITA’, giugno 1951
8 G. DORFLES, Intervista ( di L. GIRAU ), in AAVV. ARTE, ARCHITETTURA, AMBIENTE, Ed. Ordine Architetti, pianificatori, paesaggisti, Conservatori di Cagliari e Prov., Anno 2001, n.3. pag.3 e ss.
9 F. DE MAIO, J. Montero Museo Chillida e par- co delle sculture, in AAVV. CASABELLA, n. 695/696, 2001, Ed. Elemond spa, Milano, pag. 136 e ss.

Da Luisella Girau, “Viaggio nella memoria”,  intervista ad Ettore Sottsass jr,  2002

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