Ma perché li fanno? Perché con tanta impudenza e leggerezza li gettano in queste fornaci? Non si può pensare ai catini frignanti, agli squittenti garbugli delle cliniche materne, senza commiserazione e spavento. Nessuna pietà per chi nasce. La compassione per l’infanzia, se ce ne fosse, sarebbe una pillola formidabile. Non vedono che sulla terra non c’è più posto? E che la città umana, avviluppata dalle suppurazioni del mondo minerale come da un mortale catarro, è ormai un luogo di supplizio per i corpi più fragili? E non mancano trombe intrepide che ci incoraggiano a sempre più eccedere, come il professor Colin Clark, autore di The myth of over-population, venuto di recente in Italia dall’emisfero australe su invito papistico per illustrare i meravigliosi effetti di una strabocchevole popolazione mondiale. Veniva da Bombay il professore, e là non aveva visto, sentito, annusato niente! Non capisco questi cattolici superpopolazionisti, non capisco una Chiesa pro-banchetto cieco, frenetico, della vita. Il loro massimo dottore, Agostino, aborriva il crescete-moltiplicatevi: comando precristico che, dopo Cristo, diventa anticristico. Questa Chiesa fanaticamente popolazionista ha l’ideologia demografica di tutti i vecchi imperialismi, antimalthusiani come anticattolici: oppure quali mai binari la guidano? Sant’Agostino ebbe un figlio solo; il professor Colin Clark, nove. Da chi viene l’esempio migliore? Neppure nei loro opachi termini contabili i nostri partiti politici osano dire certe umili verità, come l’impossibilità di dare a tutti, sotto la valanga demografica, una scuola e un lavoro decenti. Non osano dire che, aumentando insieme popolazione e consumi, la rovina dell’ambiente è sicura. Miserande élites senza un pensiero, senza un’idea morale, senza una partecipazione nella gravità, tengono spregevolmente il potere. E che cosa ne faranno, le nazioni meglio organizzate, dotate di ogni tipo d’arma, fino al fischio ultrasonico, dei continenti in esplosione demografica, quando il male diventasse estremo? Ricorrerebbero, ne accennava Georg Picht in una intervista all’«Express», allo sterminio razionale, a una Endlösung senza fessure, alla sterilizzazione nucleare: «Abbiamo i mezzi per farlo», come diceva il generale Mola, quando parlava di radere tutta la Biscaglia. Ah gli faranno rimpiangere il colera, la malaria, le carestie… Oggi un ponte aereo contro la fame, domani il raggio della morte. Diffidare sempre dei salvatori. Lasciamo la gente che non può capire e che è abbandonata dall’inerzia della legge alla sua prolificità senza legge. Entra, nelle teste istruite, il pudore di fare aumentare, mentre sta già paurosamente crescendo, la popolazione mondiale? Non ne fate una questione di soldi, il problema è morale. I mezzi disponibili non c’entrano: bisogna dirsi che è una vergogna accrescere, sapendo quanto sia mala la vita, il dolore del mondo. Qui va sentito il dovere sociale! Non sono le religioni e le dottrine a insegnarlo, è il senso dell’umano, la compassione umana, la verità irresistibile del dolore. Se hai già un figlio, perché ne vuoi due? Se ne hai due, perché quattro? Oh provveditori di carne viva alle fornaci del dolore! Sciagura, avete inventato gli automi da calcolo, avete cifre di tutto, ma ignorate la più elementare, la più facile aritmetica del dolore.
Lavatevi gli occhi, vedete le condizioni di vita che si preparano a tutti in un mondo sovrappopolato, ascoltate il lamento degli ergastoli urbani, là fuori, straripanti di folla pigiata, di odio, di malattia e di solitudine, sentite l’odore di polpetta al plutonio nelle cucine del diavolo, e capirete che avete quest’obbligo assoluto: di non sentirvi affatto liberi di fare quel che volete in fatto di procreazione. Se vi ritenete liberi, solo perché forniti di mezzi adeguati, di procreare un mucchio di figli ben nutriti di spazio (conta più lo spazio del pane), mangiatori di spazio, restringitori di spazio, non consideratevi mentalmente superiori al moltiplicatore tarato di prole, che la rovescia per incuria e miseria nei brefotrofi, nei riformatori e negli ospedali.
Già nascono malvolentieri. Quasi sempre, bisogna dargli una spinta. L’espulsione naturale, a tempo, senza interventi, è sempre più rara. Ci vuole la siringa per convincerli. Il cesareo è un rubinetto sempre aperto. Appena nati, sono subito masse. Li cacciano in un gabbione dove imparano lo strepito collettivo, e di là passeranno in altre gabbie, in piazze, casamenti, quartieri, aule, uffici, ascensori, autobus, prigioni, corsie, cimiteri che straripano: vivranno come incapsulati in un incubo oppiofagico di De Quincey, dentro un mare di facce umane, la loro vita di spine. Li amassero veramente, ma hanno l’aria di esserne perpetuamente stufi. Per levarseli dai piedi, i padrimadri sono maestri di sottigliezze. Bambini trattati in modo giusto, rispettati e guidati, non mutilati spiritualmente, non traditi, non visti con gli occhi di un manuale, non nutriti in modi insensati, ne vedo pochi. Da notare l’incapacità completa degli adulti di farli divertire, di stare con loro a un gioco. L’adulto moderno soffre d’impotenza ludica incurabile, e la morfina televisiva data ai bambini è un frutto di questa buia impotenza. Il teleschermo è un orco, che se li mangia un pezzo alla volta. Orfani di ogni correzione, li invade la paura… L’anarchia familiare è uno dei grandi terrori infantili. Quasi sempre, la coppia scopre che non li voleva. La moglie inchioderebbe volentieri il padre dei suoi figli, che vaga oppresso dalla paternità, a una croce, se ce ne fosse una pronta, in cucina. Sufficit una domus. Ma vale la pena l’indagare alcuni dei motivi per cui si procrea, quando non c’è la scusa della cecità e dell’abbrutimento, oltre il limite di Sant’Agostino. Uno dei motivi più fradici è la crisi della coppia. Hanno già due figli, il terzo è incaricato di risolvere i loro problemini. Le loro risse coniugali m’interessano poco, ma che per colpa loro ci sia un uomo in più mi sconforta. Questa sarebbe la famosa procreazione cosciente!
Poi ci sono i consigli degli esperti! Psicologi, ginecologi… «Faccia un altro figlio, signora, non perda tempo!». Allora, per guarire di un’orticaria, ci giochiamo la testa di un uomo. La piccola nevrosi della madre sarà curata a prezzo della nevrosi incurabile del figlio. Un uomo entrerà nel dolore per ravvivare un ormone, spianare un foruncolo, eliminare un prurito. Non so quanti sospiravano l’istituzione del divorzio per fare subito un figlio all’amante diventata moglie, eppure ne avevano già tre o quattro della moglie precedente. E c’è chi, pur rischiando di avere figli subnormali, porta ugualmente alla tempia della matrice la canna della sua dannata pistola, e preme il grilletto per vedere se nel tamburo è rimasto un colpo. Molti considerano il figlio unico come una specie di cataclisma; li prende una rabbia che non si placa finché al maschio non hanno aggiunto la femmina, o viceversa. Altri devono compiacere a un parente, che gli telefona ogni giorno per imporgli un altro figlio col proprio nome. E quanti si ritengono in colpa se non procreano più volte! Ma quale colpa c’è in un atto senza conseguenze, e quale innocenza o catarsi in uno che può averne di terribili? Quanta pena, nelle pitture, fanno i figliuolini pallidi, consunti dalle emottisi, coperti di ermellini, medaglieri, trapunte, cuscini, gorgiere, panoplie e piumaggi, dei monarchi assoluti e anche di quelli un po’ costituzionali! Li facevano nascere a grandi colpi di magie nere, decapitando medici e astrologhi, all’unico scopo di assicurare una successione a un trono senza gioia, e per consolarli di essere nati li soffocavano di delizie, cavallini, belle balie, automi musicali, ombre cinesi, acrobati, gelati al limone, gobbetti, cani. I principini malinconici si addormentavano abbracciando il teschio del nano che li aveva fatti ridere qualche volta. Nati per ragioni dinastiche, obbrobrio! L’uomo si è sempre riprodotto per scopi futili. C’è un grande male, molto elogiato, dell’industria medica di questi tempi: un concentrarsi di violenza ai danni della sterilità naturale. Nei profeti biblici, la sterile che partorisce è un segno messianico, ma quel che vediamo tura gli alleluia. Povere forzate del parto (un’ex sterile, di questi giorni, ne aveva in corpo otto, che la stavano divorando), sottoposte a trattamenti tenebrosi, a crudeli umiliazioni, a inseminazioni di fantasia, a gravidanze in un tubo! I laboratori preparano grandi crimini in questo campo, a prezzo di vite viventi e di anime indifese; perciò bisogna difendere il corpo, non darlo all’esperimento; non cedere alle pressioni ignobili dell’ambiente, rifiutare il miracolo clinico, portare la propria sterilità naturale come un dono fatto alla terra troppo popolata, troppo carica e malata d’uomo. Se si rinuncia, per generosità morale e sociale, per rispetto di un impedimento naturale, ad avere figli di sangue, niente – se non il solito law’s delay di Amleto – vieta che si prendano dappertutto figli abbandonati, i respinti, i maleamati, per dargli un cuore, una casa e un nome. Nell’adozione cadono i limiti morali al numero: uno, due, o dodici come le tribù di Giacobbe, o cento come i prepuzi di Filistei ordinati a Davide da Saulle. Chi fa questo, di rado li assassina col disamore. L’adozione è la paternità-maternità adeguata all’attuale esplosione demografica, l’unica degna di una coscienza che riflette. Lévi-Strauss parla di certi Indios brasiliani che, pur essendo pochi, preferiscono adottare che riprodursi, e questa esemplare saggezza di primitivi mi piace che incastri con un pezzo di sapienza greca; il filosofo Democrito raccomandava calorosamente adottate! e non era un pessimista: la tradizione l’ha tramandato ridente.
Tratto da: Guido Ceronetti, La Carta è stanca, Una scelta, Adelphi
Adorabile Ceronetti
Adoro questa parte
… Già nascono malvolentieri. Quasi sempre, bisogna dargli una spinta. L’espulsione naturale, a tempo, senza interventi, è sempre più rara. Ci vuole la siringa per convincerli. Il cesareo è un rubinetto sempre aperto. Appena nati, sono subito masse. Li cacciano in un gabbione dove imparano lo strepito collettivo, e di là passeranno in altre gabbie, in piazze, casamenti, quartieri, aule, uffici, ascensori, autobus, prigioni, corsie, cimiteri che straripano: vivranno come incapsulati in un incubo oppiofagico di De Quincey, dentro un mare di facce umane, la loro vita di spine.