L’ombra dell’uomo

ph. Guerin Blask for The New York Times

Sto scrivendo questa nuova introduzione all’Ombra dell’uomo a The Birches, la dimora vittoriana in mattoni rossi nella quale sono cresciuta a Bournemouth. Dalla mia finestra vedo gli alberi su cui mi arrampicavo da piccola, quando sognavo che un giorno sarei andata in Africa a vivere tra gli animali e a scrivere su di loro. I libri che m’ispirarono allora, oltre a molti altri letti in età adulta, sono allineati sui ripiani della mia libreria: dal Dottor Dolittle a Tarzan, da Beatrix Potter al Vento tra i salici, e tanti volumi sulle avventure dei primi esploratori di Darkest Africa.

Di fatto, ogni volta che torno qui, nei brevi intervalli tra i miei numerosi viaggi per sensibilizzare sulle difficili condizioni degli scimpanzé, degli altri animali e degli habitat naturali nel mondo, i ricordi della mia infanzia tornano prepotentemente a galla. Ad esempio, ricordo i giorni in cui ero inseparabile dal mio amico Rusty, l’intelligentissimo bastardino nero che, insieme a mia madre Vanne – diminutivo del gallese Myfanwe e pronunciato “Van” – e al resto della famiglia, giocò un ruolo chiave nel determinare la persona che sarei diventata.

In questo libro, intitolato L’ombra dell’uomo, racconto di come finalmente arrivai in Africa, conobbi il compianto Louis Leakey e, in maniera del tutto inverosimile, visto che non ero neppure andata all’università, mi fu data l’opportunità di vivere non solo con degli animali, ma addirittura con degli scimpanzé, i parenti più prossimi dell’uomo. In queste pagine troverete la descrizione delle originalissime personalità e dell’affascinante comportamento degli scimpanzé del Gombe: da come costruivano utensili, cacciavano e condividevano la preda, a come mostravano emozioni incredibilmente vicine alle nostre. Molti dei loro atteggiamenti e gesti, che appartengono alla comunicazione non verbale, non solo ricordano quelli degli uomini, ma avvengono in situazioni assai simili e hanno più o meno lo stesso valore: baciare, abbracciare, tenersi per mano, fare il solletico, pavoneggiarsi, agitare i pugni, lanciare sassi e brandire bastoni. Descrivo, inoltre, come il mio rapporto personale con alcuni scimpanzé è gradualmente passato dalla paura (da parte loro) a una fiducia reciproca, e come le mie iniziali supposizioni, per lo più basate sull’intuito, hanno trovato conferma in anni di attente osservazioni e analisi del loro comportamento.

Ho cominciato il mio studio nel 1960 e dieci anni più tardi ho iniziato a lavorare all’Ombra dell’uomo. Prima d’allora avevo già scritto un altro libro e un paio di articoli per la National Geographic Society, l’organizzazione che sostenne il mio lavoro quasi dall’inizio e che inviò Hugo van Lawick, che più tardi divenne mio marito, a fotografare e a filmare il comportamento degli scimpanzé. Nel frattempo avevo preso il dottorato in Etologia presso l’Università di Cambridge in Inghilterra. Le fotografie scattate da Hugo avevano già portato le immagini degli scimpanzé del Gombe nelle case degli americani, e le sue riprese erano state utilizzate per realizzare un documentario, intitolato Miss Goodall and the Wild Chimpanzees (‘Miss Goodall e gli scimpanzé selvatici’), commentato da Orson Welles.

Inoltre, insieme a Hugo avevamo raccolto in un libro le nostre osservazioni sugli sciacalli, sui cani da caccia africani e sulle iene delle piane del Serengeti in Tanzania. Gli studenti neolaureati e gli assistenti ricercatori portavano avanti il progetto di ricerca al Gombe, e li sentivamo per radiotelefono tutti i giorni. Noi, però, non vivevamo più nella riserva, bensì sul Serengeti, perché ci era nato un figlio – Hugo Eric Louis, soprannominato allora e ancora oggi Grup – e, sapendo che i cuccioli d’uomo sono predati dagli scimpanzé, non volevamo correre alcun rischio.

Pertanto, fu così che il grosso dell’Ombra dell’uomo fu scritto sul Serengeti, all’interno di un camper che la National Geogra phic Society mi aveva donato per farne il mio “ufficio itinerante”. Non avevo né un computer né una macchina per scrivere elettrica e scrissi tutto pestando sui tasti di una vecchia manuale, utilizzando il bianchetto per camuffare i miei numerosi refusi. Quelle preziose pagine furono spedite al nostro compianto amico Billy Collins (che divenne Sir William) e al mio eccezionale editor, Philip Zeigler.

Tuttavia, il labor limae del libro ebbe luogo qui, a The Birches, e proprio come da bambina avevo letto i temi e le poesie che scrivevo ai miei genitori, lessi loro i capitoli che parlavano delle avventure condivise con mia madre, del cuoco Dominic e del suo debole per l’alcol, di David Graybeard, e di Goliath, di Flo e di Olly con la rispettiva prole. Se il libro è venuto bene, lo devo ai saggi commenti di Vanne.

All’epoca in cui lo scrissi non avrei mai immaginato quanta influenza avrebbe avuto su centinaia, anzi migliaia di persone in tutto il mondo. Un primo sentore lo ebbi subito dopo la sua prima pubblicazione, avvenuta nel 1971. Stava viaggiando in metropolitana a Londra quando inavvertitamente ascoltai una conversazione tra due uomini d’affari nel classico abbigliamento con bombetta e ombrello nero. “Chissà cos’era che rendeva Flo così attraente per i maschi?” si chiedeva uno di loro, passando poi a disquisire sui misteri del sex appeal. In seguito, passarono a descrivere delle personalità mettendole a confronto con quelle di amici e conoscenti. Impiegai vari minuti per capire che, in realtà, stavano parlando dei “miei” scimpanzé! Uno aveva una copia del “Sunday Times”, che aveva pubblicato L’ombra dell’uomo a puntate.

Da quel momento, sono stati in molti, soprattutto in Africa, Asia e America Latina, a dirmi che, dopo aver letto il mio libro, avevano cominciato a vedere tutti gli animali, non solo gli scimpanzé, sotto una luce diversa. Ancora oggi, firmando copie del libro in qualche parte del mondo, capita in continuazione che qualcuno si presenti con una copia molto vecchia, magari appartenuta a un genitore. Alcuni mi raccontano che qualcuno gli aveva letto quel libro quando erano piccoli. A volte il libro che dovevo firmare era un regalo di un compleanno o di un Natale di molti anni prima. Di tanto in tanto mi capita persino di firmare e di rimettere la data su un libro che avevo autografato, dieci, venti o persino trent’anni prima.

Il libro continua a vendere ancora oggi. “L’ho letto da bambina” dice una donna di mezza età “ed è stato così importante per me che ora voglio regalarlo a mia figlia”, o in altri casi a un nipote. Perciò dopo ogni conferenza il numero di copie vendute è ancora oggi piuttosto elevato.

L’ombra dell’uomo è stato tradotto in circa cinquanta lingue. Rainer Hagencord lesse la versione tedesca mentre studiava in un seminario gesuita e, in seguito, mi confessò che il libro aveva profondamente cambiato il suo modo di pensare. “Noi non siamo l’orgoglio della creazione che la teologia a volte proclama, ma possiamo ritrovare le nostre radici nel regno animale. Questa consapevolezza, oltre a rendermi umile, mi dà la forza per prendere ancora più sul serio la mia missione di proteggere il creato. Il tuo libro mi ha spinto a riflettere sulla posizione cristiana in materia di animali, che attualmente non li considera creature di dignità pari alla nostra”.

In seguito Rainer ottenne dal vescovo l’autorizzazione a prendersi un periodo sabbatico per raccogliere testimonianze scritte intorno all’epoca di Cristo, scoprendo che allora l’atteggiamento di san Francesco che, come i nativi americani, considerava gli animali come fratelli e sorelle, era ampiamente diffuso. I risultati di questa ricerca sono consultabili nel suo lavoro intitolato Diesseits von Eden.

Mi commuovo sempre quando, alle mie conferenze, mi chiedono di autografare copie delle prime edizioni uscite nei paesi dell’Est. Ben Nogrady ha letto il libro nella traduzione ungherese. “Ognuno di noi ha un libro che l’ha particolarmente ispirato durante l’infanzia” scrisse. “Per me si è trattato dell’Ombra dell’uomo di Jane Goodall, un libro regalatomi da mio padre per il mio decimo compleanno. Leggendolo, mi sono innamorato dell’Africa e, in quel momento, ho deciso che un giorno ci sarei andato a vivere. Per un ragazzino che viveva in condizione di estrema povertà, sotto il regime comunista in Ungheria, era un sogno utopistico, poiché obiettivi e sogni erano stati azzerati. Tuttavia, grazie al libro della Goodall ho imparato qualcosa che si è rivelato utilissimo anche dopo: mai mollare!”. Quando, alla fine, Ben si trasferì in Sudafrica, portò con sé due libri: “La Bibbia e L’ombra dell’uomo. Se ho bisogno di sentirmi rassicurato, aprendo uno o l’altro trovo sempre la risposta che cerco”.

La prima traduzione cinese del libro ha una storia piuttosto curiosa. David Orr ne trovò una copia mentre era a Hong Kong per conto del Ministero degli Affari Esteri britannico, e me la inviò pensando che potesse farmi piacere vederla. Ha una copertina sottilissima ed è stampata sulla carta più economica che si trovi in commercio, tanto che le fotografie sono quasi illeggibili. Era una traduzione dal russo di un’edizione non autorizzata. Le fotografie erano state riprodotte illegalmente da quelle del libro russo, che a loro volta erano state copiate illegalmente dall’edizione inglese. Ma anche quel libricino, con le sue fotografie completamente sfocate, avrebbe influenzato l’esistenza di tante persone.

A ogni evento legato al libro, c’è sempre almeno una persona che mi dice che L’ombra dell’uomo ha giocato un ruolo decisivo nella scelta d’intraprendere una carriera legata agli animali, ad esempio come biologo, veterinario o altro. In genere, nella stessa fila ci sono più persone che vogliono ringraziarmi per aver influenzato, in un modo o nell’altro, le loro scelte di vita. E in alcuni casi queste testimonianze hanno per me un significato speciale.

Ho conosciuto Fang Minghe circa dieci anni fa, a Shanghai, e in quell’occasione mi raccontò quanto la lettura del libro gli avesse cambiato la vita. “Ha avuto un effetto radicale su di me” mi ha scritto di recente. Aveva scoperto il volume nella biblioteca della scuola e si era reso conto che “questo tipo di carriera, che non avrei mai ritenuto possibile, era anche il mio sogno”. Dopo la laurea ha creato la prima organizzazione senza fini di lucro nella provincia di Zhejiang, tra i cui obiettivi vi è la protezione delle specie selvatiche a rischio di estinzione e la cura degli animali abbandonati.

L’ombra dell’uomo è un libro che, secondo me, ha rappresentato qualcosa di speciale soprattutto per le donne. Sono centinaia, o forse migliaia, quelle che vi hanno tratto la forza per osare ciò che fino a quel momento avevano solo potuto sognare. Spesso mi dicono o mi scrivono frasi come “Mi hai insegnato a credere che, se ce l’hai fatta tu, posso farcela anch’io!”. Di fatto, il consiglio che Vanne mi ripeteva sempre da bambina – “Se t’impegnerai a fondo, saprai cogliere le opportunità che la vita ti offre e non ti arrenderai mai, avrai successo” – è servito a spingere un numero infinito di giovani donne a seguire il proprio sogno. Come lo so? Perché me lo confermano in continuazione.

Alcuni anni fa, mi trovavo alla sede della National Geographic Society a Washington D.C. per motivi di lavoro, quando una giovane donna cinese mi venne incontro nel corridoio. Si fermò davanti a me e, facendo per abbracciarmi, gli occhi le si riempirono di lacrime. Lì per lì rimasi un po’ spiazzata, ma la donna mi disse che voleva soltanto ringraziarmi. Mi raccontò che da bambina aveva sempre sognato di studiare i panda giganti, ma tutti la prendevano in giro e la scoraggiavano dicendole che non erano cose da femmina. “Alle superiori” proseguì “ho letto il tuo libro”, ed esso le aveva fatto capire che ciò che sembrava impossibile poteva, invece, realizzarsi. Si trovava lì per terminare un articolo sui panda giganti, che sarebbe uscito su un numero della rivista con una foto scattata da lei addirittura in copertina! Oggi è direttrice di Conservation International in Cina.

Una delle tante cose che ho imparato dagli scimpanzé è l’importanza delle prime esperienze nello sviluppo dei nostri figli. Il confronto tra i metodi educativi di Flo e Passion mi confermò che, esattamente come nella società umana, anche in quella degli scimpanzé c’erano buone e cattive madri, e che i figli delle buone madri si trovano meglio nella vita. A distanza di cinquant’anni, mi è ancora più chiaro che la qualità della maternità negli scimpanzé svolge davvero un ruolo chiave nella definizione del futuro comportamento della prole. D’altro canto, anche gli psicologi e gli psichiatri infantili non fanno che ripetere tale concetto. Una giovane californiana mi ha detto che L’ombra dell’uomo le ha dato la forza di scegliere di restare a casa con i suoi figli, e la sua è una tra le tante testimonianze del genere.

Ma qual è stata l’accoglienza del libro da parte della comunità scientifica? Quando, nel 1961, fui ammessa all’Università di Cambridge, venni avvertita che, trattando di scimpanzé, non era il caso di parlare di personalità, capacità di pensiero, o di emozioni quali felicità, tristezza, rabbia, disperazione e così via. Tali sentimenti erano attribuibili solo ed esclusivamente all’animale uomo, il che stava a significare che esisteva una netta linea di separazione tra “noi” e “loro”. All’epoca della pubblicazione dell’Ombra dell’uomo, ci furono alcuni scienziati che cominciarono a pensarla diversamente. Nel frattempo, erano stati realizzati diversi studi su animali che vivono in società complesse, tra cui scimpanzé di varie zone dell’Africa, gorilla, babbuini, elefanti e altri. L’enorme quantità di dati ricavati dall’attenta osservazione di questi esemplari aveva costretto alcuni scienziati a rivedere le proprie posizioni nei riguardi di animali altri dall’uomo. Divenne sempre più chiaro che anche noi facciamo parte del più ampio regno animale. Ovviamente, il nostro intelletto si è sviluppato in maniera notevole, forse stimolato dalla capacità del linguaggio, che ci consente di parlare di cose che non sono presenti, fare progetti, raccontare storie o scambiare idee; tuttavia, si tratta di differenze di livello, non di genere.

Il noto e stimato scienziato Stephen Jay Gould, oggi scomparso, ha descritto con chiarezza la propria posizione al riguardo nella prefazione che ha scritto per questo libro. “Spesso consideriamo la scienza come un insieme di attività di manipolazione, sperimentazione e quantificazione condotte da persone in camice bianco, che passano il tempo a girare manopole e a controllare indicatori nei laboratori” scriveva. “Leggendo di una donna che dà nomi buffi a degli scimpanzé e li segue nella foresta, registrando meticolosamente ogni loro singolo grugnito o spulciatura, abbiamo qualche difficoltà a includere tale attività tra quelle di serie A… Viene da chiedersi se lei rappresenti l’avanguardia della scienza o l’ultimo avamposto di un’idea romantica dell’esplorazione ormai destinata a scomparire”. Gould prosegue spiegando perché, a suo avviso, “il lavoro di Jane Goodall con gli scimpanzé rappresenta uno dei più importanti traguardi scientifici del mondo occidentale”. Un complimento non da poco!

Rileggendo il libro di recente, prima di scrivere quest’introduzione, ho constatato quanto siano cambiate le cose. Le foreste che un tempo si estendevano lungo le rive del lago Tanganica e nell’entroterra a est sono praticamente scomparse, lasciando gli scimpanzé del Gombe confinati nei trentacinque chilometri quadrati di parco. Oltre i confini del parco, la terra è stata spogliata degli alberi, e il suolo è divenuto arido a causa di un forte processo erosivo. Dato l’aumento della popolazione globale dal 1960, e a causa dell’afflusso di rifugiati dal Burundi e dalla parte orientale del Congo nell’area intorno al Gombe, ormai vivono lì molte più persone di quante la terra riesca a sostentare, che, pertanto, lottano per sopravvivere. I turisti visitano il parco del Gombe regolarmente, accompagnati dalle guide. Secondo le nuove regole, i visitatori devono mantenersi a una certa distanza dagli scimpanzé per ridurre al minimo il rischio di trasmissione di malattie.

Il cambiamento più grande, tuttavia, ripercorrendo questi cinquant’anni a ritroso fino a quel primo, magico momento al Gombe, in cui entrai in un mondo ancora incontaminato, riguarda il cast dei personaggi di questa storia. Vanne, Hugo, Dominic e Hassan ci hanno lasciato, mentre degli scimpanzé di cui parlo nel libro, che imparai a conoscere così bene, ce n’è uno solo ancora in vita, ovvero Gremlin, il primo figlio sopravvissuto di Melissa, e anche il mio scimpanzé vivente preferito. Suo fratello Goblin, che vidi nel 1964 appena nato, con il cordone ombelicale e la placenta ancora attaccati, si è ammalato ed è morto nel 2004. Fifi, che conoscevo dalla nascita, e che è vissuta per quasi tutti questi cinquant’anni, è scomparsa nel 2004, insieme all’ultimo dei suoi figli. Quante cose ho imparato da loro, e quante ore meravigliose ho trascorso con loro e le loro famiglie nelle foreste del Gombe.

Gli anni descritti in questo libro sono stati, forse, i più felici della mia vita, perché ho vissuto immersa nella natura come sognavo da bambina. Quegli anni, come i loro attori, sono passati per sempre, ma le personalità di Flo e David Graybeard, Olly e Worzle, Passion e Mike, Melissa e il vecchio McGregor, così come degli altri, continuano a vivere dentro di me. Rileggendo L’ombra dell’uomo, ho riassaporato l’atmosfera di quei primi giorni, e ora, chiudendo gli occhi, rivedo Flo che carica uno dei babbuini che le ha minacciato un figlio, con i peli radi arruffati per la furia, coraggiosa nello sfidare creature dotate di denti in grado di infliggere ferite mortali anche a un leopardo! E rivedo Mike mentre raccoglie alcune lattine vuote e le utilizza, calciandole e colpendole, per mettere in fuga un gruppo di maschi dominanti. E ancora, proseguendo il mio viaggio nel passato, mi sembra di sentire, proprio come allora, la delicata pressione delle dita di David Graybeard con cui volle rassicurarmi e dirmi che, pur rifiutando il frutto che gli offrivo, aveva capito che avevo buone intenzioni.

Tratto da: Jane Goodall,  L’ombra dell’uomo, Prefazione di Stephen Jay Gould, A cura di Helena Colombini e Federica Frasca

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