Ci sono eventi preziosi che possono offrire spiragli di senso proprio non appartenendo all’attualità e alle mode. Uno di questi, recente, soprattutto per chi è abituato a pensare in profondità le grandi questioni dibattute da sempre, è l’uscita del carteggio tra Guido Ceronetti e Sergio Quinzio (Un tentativo di colmare l’abisso, Adelphi 2014). Riguarda una raccolta di lettere che i due si sono scritti tra il ’68 e il ’96 del secolo scorso, un arco notevole di tempo conclusosi con l’anno di morte del secondo. Al primo, ancora vivente, è toccato il compito d’introdurre brevemente quello scambio, che subito definisce “combattimento spirituale” rimasto in sospeso, battaglia perduta da entrambi: il tentativo – dice Guido – “via via che procediamo negli anni impallidisce, fino a perdere del tutto il connotato di tentativo”. La colpa? Siano altri a giudicare, ma Guido è convinto che a scavare e allargare l’abisso sia stato Sergio, che definisce “spietato” addirittura, nel suo volersi “uomo uniuslibri (la Bibbia dei due Testamenti) e inaudito solitario interprete dei suoi testi”, visti per di più come testimonianza di un Dio svuotato e misero portatore di una sua “non salvante salvezza”, contro chi, come lui, tentava invece di muoversi nei testi sacri coadiuvato dal cardine della filologia, cardine che per Sergio “contava poco, quasi niente” mentre davvero molto contava “la resurrezione dei morti” , la stessa che fa ritrarre Guido “come da un patibolo”.
È dunque il durare appassionato del confronto, su questi straordinari temi, tra i due a risultare prezioso e singolare in un periodo in cui, che la fede rischi di scomparire dalla faccia della terra, persino un teologo tra i più preparati poi diventato papa l’ha detto non molto tempo fa, pochi mesi prima di rinunciare con gesto improvviso e inaudito al suo mandato, per definitivamente ritirarsi, nel nascondimento, a riflessione e preghiera.
La differenza, così come la somiglianza, emerge fin dalle prime due lettere che si scambiano non chiamandosi ancora amichevolmente per nome. Ceronetti ha appena finito di leggere, di Quinzio, “in treno e a Torino”, Cristianesimo dell’inizio e della fine, uscito da poco. “La differenza resta nel fondo: nel non sentirmi cristiano. E non so neppure se tu lo sei”, gli scrive senza mezzi termini entrando subito, e con grande lucidità, nell’abisso che li divide. In quel libro – talmente ancora oggi attuale da avere spinto la casa editrice Adelphi a ripubblicarlo, dopo quasi mezzo secolo, proprio quest’anno insieme al carteggio – Guido coglie almeno un paio di cose che ritiene della massima importanza e glielo scrive: “Il cristianesimo non è Gesù”. E poi: “Nell’attesa messianica c’è tutto Gesù”, d’accordo, “ma Gesù è morto, il Regno non è venuto”; certo, tu continui ad aspettarlo, come se potesse venire ancora, ma solo credendo come credi tu è possibile questo. Sì, anch’io “vedo la Catastrofe, come la vedi tu, non vedo il Regno che dovrebbe seguirla come la ruota il carro”.
A separarli è dunque la fede capace di attendere ancora e a unirli la capacità di guardare la possibilità della catastrofe, che tanto assomiglia alla possibilità che il Cristo aveva di finire crocifisso mentr’egli con tutte le forze desiderava invece salvarci e regnare.
A Guido Sergio risponde con gratitudine: “Caro Ceronetti, grazie di gran cuore per tutto quello che mi hai scritto, e specialmente per l’offerta di continuare il discorso”. E subito accogliendo la diversità di vedute: tu, gli dice, sei come costretto ad accontentarti “di un concetto puro, non potendo nutrire nessuna speranza. Io invece, devo nutrirmi di una speranza, non potendo accontentarmi di un concetto puro”.
La via della speranza porta dunque Quinzio a una fatica maggiore: quella dell’accoglimento della sconfitta e del grande ritardo senza tuttavia arrendersi, piuttosto ostinandosi a credere ancora, a sperare ancora, perché il Crocifisso è risorto e in un attimo potrebbe tornare e proprio quando nessuno lo aspetta più, dunque contro ogni ragionevole sperare, proprio come accadde ad Abramo. Nulla assicura, anzi, tutto concorre ad abbandonare la presa, a rassegnarsi alle cose così come stanno. E invece Quinzio non s’arrende, perché credere non è per lui fondare la speranza sulla realtà, è piuttosto tentare di forzare la realtà affinché diventi così come Dio l’ha promessa, e lo può fare semplicemente perché, da credente, non può “accettarla diversa” da come esattamente Dio l’ha promessa. Se ha promesso che i morti risorgeranno a Dio non si deve dare pace fino a quando ciò non accadrà, sine glossa. Quinzio è stato sentinella che “per tutto il giorno e tutta la notte” non ha taciuto, mai. Egli sapeva bene che non bisogna concedere il “riposo” a Dio finché non abbia compiuto quello che ha promesso di compiere (cfr. Is 62,6-7).
È da queste premesse che inizia un dialogo colmo di argomentazioni e riferimenti, di rispetto reciproco, di aiuto reciproco. Cos’è stato il rapporto umano tra i due lo si coglie tutto in una lettera che Sergio scrive a Guido nel ’77 da Isola del Piano, confessando come per lui alla fine contino soltanto “i volti e le cose, e i libri come loro disperata allusione”. A Guido che gli confida di volere ricordarsi del suo “creatore” e di non riuscire a farlo perché è il cuore a rispondergli poco, Sergio cerca di chiarire: “Forse risponde poco perché è stanco. Ma forse è bene, perché fino a quando il cuore ha qualcosa da dire non ascolta. Bisogna essere molto stanchi”.
E a Guido che a sua volta gli chiede: “Tu te ne ricordi?”, Sergio non batte ciglio: “Guido, il Signore ha scritto sul mio cuore con caratteri di fuoco, non sono io a ricordarmene. Ricordarsi del creatore non è una specie di dovere etico, piuttosto è una specie di miracolo, dato con la Torà”.
La fede è un punto di vista dal quale cogliere quel che coglie Dio, quel che sente Dio, come in ogni vera storia d’amore del resto. In una lettera del ’71, sempre da Isola del Piano, a Guido alle prese col Libro di Giobbedice: “Ricordati Guido, manipolando il dolore di Giobbe, che non era quello modernamente nevrotico, ma quello di colui che vedeva nei greggi, nei cammelli, nella dote delle figlie, nella potenza uscita dai suoi reni la gloria di una gioia perfetta. Fraternamente vorrei che il dolore di Giobbe ti aiutasse a vedere come il vero dolore è quello che nasce dalla certezza della salvezza”. E ancora: “Ma non sta al centro della mia intenzione, adesso scrivendo e da tanti anni pensando, né la mia vita né il mio dolore: solo la gioia di Dio”.
Il Regno dunque, più che il luogo in cui gioiremo, è per Quinzio il luogo in cui gioirà Dio finalmente, consolato dalla nostra gioia e dalla nostra presenza di riscattati dagli artigli del male e della morte. E non è, d’altra parte, a pensarci bene, proprio espressione e simbolo di questa gioia condivisa con Dio, il necessarissimo “abito nuziale” della parabola evangelica che parla di un re che chiama a fare “festa” perché “tutto è pronto” nel giorno delle sue nozze mentre proprio gli invitati cercano scuse d’ogni genere pur di non andare (Mt 22,11)? Non dovremmo forse prima di tutto essere affamati della sua “salvezza”, per poterla attendere con gioia? Non ci è stato forse promesso che sentiremo un giorno “gioia e letizia” e che “esulteranno le ossa” che ci sono state spezzate (Sal 50,10)? Ma la domanda ultima allora è: potrà gioire nel Regno chi manca di questo “abito nuziale”, di questo precedente coinvolgimento compassionevole a favore del Dio che attende di gioire insieme a noi nel giorno delle sue nozze?
Altro passaggio che evidenzia diversità, ma anche una qualche somiglianza di fondo, di amicizia e di bene che cova nel profondo di entrambi: “La mia impressione – gli dice Sergio dopo avere letto la sua versione di Giobbe– è che l’Ecclesiasteti sia più congeniale, e che tu tenda a qohéletizzare Giobbe. Il suo grido diventa ritmi di abbandono, tristezza e nostalgia, non più sdegno, non più scandalo”.
La risposta giunge immediata, siamo nel febbraio del ’72, e viene tirato in ballo San Gerolamo che, nella sua versione, rimane infine “impigliato nel miele greco, e lontano, con tutta la sua fede, dallo scandalo di Giobbe” sebbene, “in qualche punto”, proprio “il suo andare al di là del testo” sia “pieno di rivelazione”. E ancora: “Si capisce che tu debba, alla verità in cui credi, sacrificare la comprensione di innumerevoli cose, e prima di tutto delle parole profonde e meravigliose che ti perderebbero se le ascoltassi”. Ma poi ecco confrontarlo addirittura con Bloy, che lo trova fare “della letteratura” usando uno “stile prodigioso” ma da “impostore”, da uno che ama troppo compiacersi di come scrive, una cosa “che ai tuoi occhi, e anche ai miei, è un imperdonabile male. Ho più fiducia nei tuoi accenti che nei suoi, perché tu non sei una sirena, e finora non ho sentito il cristianesimo come un ostacolo a comprenderti. Del tuo commento biblico non caccio via a priori niente. (Tu forse lo vorresti, per bisogno di un contrasto nella somiglianza)”. E ancora: “Credo di poterti umanamente accettare perché non sei un impostore, ma un nabi da ascoltare. Quel che vorrei da te in cambio è l’abbandono dell’apriorismo negativo”.
Subito dopo è la volta di Quinzio, che vede con pena “l’impossibilità” di comprendersi e aiutarsi: “Le tue parole significano per me cose diverse da quelle che significano per te”, al punto da credere di accogliere quel che dico, dissolvendo però la mia “speranza nel Signore nell’oceano in cui si equiparano” troppe cose. “Preferisco, credimi, un rifiuto netto e orripilato, che mi dà per lo meno l’illusione di avere toccato una tua corda, di non essere scivolato come acqua su di te”.
In altri contesti si avrebbe qui il taglio deciso d’ogni rapporto, ma in Quinzio la capacità di avere a cuore l’interlocutore era pari a quella di avere a cuore la verità che gli vibrava dentro, incontenibile. “Per questa impossibilità più volte dolorosamente sperimentata di comprenderci – scrive -, dovrei tacere. Ma io non posso tacere fino a che un’occasione mi si offre di dire parole sia pure inudibili, perché la mia fede mi impedisce di accettare l’orrore come un fato e per me non comprendersi è orribile”.
Quinzio ti guardava con sorriso di bambino ma quando apriva la bocca le sue parole potevano essere dure come pietre, e se ne accorgeva: “Caro Guido, sono veramente conteso tra amicizia e sincerità. Vedo la tua dolcezza inerme, il tuo amore e anche la tua angoscia, e non vorrei rattristarti. Forse sarò anche capace, se il Signore mi aiuterà, di leggere il tuo Giobbesenza pensare troppo alla ‘poetica’ sottostante. Ma vorrei a mia volta pregare te di domandarti davvero che senso ha sorvolare i millenni cristiani e ebraici per ritrovare parole come fossero angeli eterni e non fiati tragicamente lontani di figli d’Israele, fiati di figli di Atene, fiati di figli di Rimbaud, fiati di figli della Ford. Scusami ti prego, e ti abbraccio”.
Il rapporto, lungi dall’interrompersi, continua. La tua posta “mi è preziosa”, confida Guido a Sergio mentre, una decina d’anni dopo, si trova alle prese con una nuova versione dei Salmi. Tu – gli dice – ti trovi in crisi “con la tua Scrittura‘povera’ ma io sono disperato a trovarla così povera. Più ci ritorno e meno mi trovo contento. E tuttavia anche perché c’è la forza, c’è il Soffio… Ma è un deserto atroce, di ripetizioni e di lamenti confusi”.
Poi giù una coltellata a ulteriormente dividerli: “Che ‘arte’ e ‘fede’ divergano è un tuo dogma personale – che a me fa ORRORE, semplicemente – dice Guido -. Se dovessi scegliere non esiterei a buttare la fede: butterei uno spettro triste, privo di vita; qualche volta, nei profeti, appare questo spettro nudo e mi fa male evocarlo. L’arte è la rivincita della vita sulla terra bruciata… La tua smania di ‘risolvere’ avrebbe potuto fare di te un marxista (creatore di un mondo ‘di fede’ disperatissimo e disumano): è uno ‘scarto’ leggero quello che in profondo te ne separa”.
La risposta di Sergio è immediata: “Che ‘arte’ e ‘fede’ divergano, non è un mio dogma personale: pensa a Kierkegaard (ma in genere al protestantesimo), o anche a Gogol’. Ma che ti faccia orrore lo capisco benissimo. Ti fa orrore come e perché ti fa orrore il ‘deserto atroce di ripetizioni e di lamenti confusi’ che sono i Salmi, che è la Bibbia. Non i pastori, non i teologi, non gli esegeti, ma tu lo sai benissimo che la Bibbia è questo. Anche tu, leggendo la Bibbia con la sua ‘fede’, fai quello che faccio io leggendo Ceronetti con la sua ‘arte’: puoi dire ‘qualcosa di non banalmente illustrativo’, ma ‘ti rifiuti a tutto quel che ne è l’essenza (la penetri solo per dire no no, non ne vieni ‘modificato’, e questo lo sai già prima)”. Più difficile – continua Sergio – è vedere in quale posizione sta la vita tra l’arido deserto della fede e la fioritura dell’arte. Paradossalmente, ad amare la vita, ad esigere la vita, a voler ‘risolvere’ tutto ciò che la contraddice è l’abitatore del deserto della fede. Tu infatti non ami la vita, e lo dici spesso. La ‘bellezza’ funziona come una compensazione, una trasposizione, un’elusione. La vita piena è quella alla quale si anela dal deserto dove si muore, come all’acqua viva anela la cerva assetata”.
Nel marzo del ’90, dopo avere saputo che si trovava in “buona forma” e dopo avere da lui avuto per lettera il suggerimento di scrivergli quando si trovasse finalmente “disteso e in pace” Sergio, con la sottile ironia di cui a volte era capace, è così che risponde a Guido: “L’unica previsione che posso fare di distensione e pace è relativa a una condizione nella quale non potrò più scriverti. Tu sei alla ricerca di riposo, di bellezza, di silenzio, di verde, ti difendi in tutti i modi possibili; io invece non ho mai percorso questa via e non sono capace di percorrerla: ho sempre avuto ed ho persone a cui pensare, malati, vecchi, figlia difficile con genero non facile, nipotina, e sono più o meno sempre vissuto in mezzo agli altri, in portinerie, in caserme, in brutti paesi sperduti, fra parenti, conoscenti, persone per lo più diversissime da me. E continuo a spendere le mie giornate senza difese. D’altra parte, quelle che per te sono tali io non potrei sopportarle. Non Parigi, per esempio. In qualche modo è vero: è il grido di Rachele che non vuole essere consolata (Geremia31,15 e Matteo2,18), perché i suoi figli sono morti e le parole non possono restituirglieli”.
E riguardo a pagine scritte da un amico che gli aveva inviato ricevendone rifiuto categorico a leggerle, Sergio sente in qualche modo necessario l’impeto della severità: “Mi dispiace che non abbia neanche aperto il libretto di Francesco Calvo. Ero io a chiederti di vederlo, a questo l’autore non aveva assolutamente pensato. Io non riuscirei, neanche qui, a difendermi, a sacralizzare il mio semicupio…”.
Di questa attenzione all’altro come singolo coi suoi bisogni qui e ora, chi sta scrivendo queste brevi note può forse testimoniarlo come pochi di Sergio Quinzio, avendola personalmente sperimentata in varie occasioni, anche in semplici gesti ma con una capacità di coinvolgimento e ascolto a volte assoluti.
Dopo un certo rimanere l’un l’altro muti, ecco Guido scrivere a Sergio da Parigi nel maggio del ’92. Una lettera in cui sembra essere Guido e non Sergio il credente. Guido ha appena letto La sconfitta di Dioe gliene scrive: “rende più accanito, e completa, il tuo sbriciolamento delle speranze, già così vaghe, eppure tenaci nei secoli, cristiane. Nulla è più desertificante che la fede (ma come può ancora essere tale) in un Dio impotente, in un salvatore che non salva. La differenza pratica dall’ateismo è, a questo punto, inesistente. Caro Sergio, non ti sarà certo sfuggito, questo… Lo dico da un’altra riva perché mi sento un po’, ancora, shomèrdi un Dio che non sono io a dover salvare, e che mi ha messo là (Isaia, 21). Poi il Sabato verrà per tutti”.
Ma qualcosa del genere gliela diceva già esattamente un anno prima, da Torino, dopo avere parlato insieme in una trasmissione alla radio: “Il tuo fuggire da ogni scheggia di luce che possa lucciolare la notte a me pare inumano, in una volontà compiuta di non essere consolato che è proprio raro incontrare. Per radio apparivamo quasi appaiati ma non è così. Tu sei per me altro, io per te altrettanto. Questo non impedisce per niente il dialogo e l’amicizia, anzi, da parte mia, l’amicizia ti vorrebbe meno solitario e meno infelice”.
La risposta non si fa attendere e rivela ciò che davvero ha continuato a stare a cuore a Sergio fino all’ultimo dei suoi giorni, lasciando a noi decidere chi, tra i due, era più capace del coraggio della speranza, della speranza che sa rimanere ad occhi vigili e aperti facendo proprio il dolore di chi ci sta intorno prima di tutto: “Tu hai paura della morte, come me, ma anche della vita. Anch’io ho paura della vita, ma in un modo diverso. Non mi spaventa tanto il male che può fare a me (o almeno provo vergogna se me ne lascio spaventare), visto che ne ha fatto tanto a chi era certo infinitamente migliore e più delicato di me; mi spaventa soprattutto la sofferenza che avanza nel mondo come un rullo compressore. Me ne importa poco della colpa, poco della giustizia, poco della verità, poco della bellezza, me ne importa della sofferenza”.
E più avanti: “È vero, io sono ‘sempre un braccatore di negazioni’. Perché temo sopra ogni cosa l’illusione, l’autoinganno, la finzione. In questo credo si riveli soprattutto l’indubbia incompatibilità dei nostri atteggiamenti e dei nostri modi di pensare. La notte, se è freddo, deserto, bufera, solitudine, malattia, vecchiaia, morte incombente, poco aiutano eventuali lucciole. Non posso capire chi riesce a consolarsene. Mi fa pena… lo vorrei più solitario e più infelice, più vero, più adeguato alla situazione. Ma in concreto, Guido, le lucciole che cosa sono? In fondo non sono altro che il proprio ruolo sociale, le qualità che ci vengono riconosciute e ci rassicurano, la sensibilità e l’intelligenza che ci attribuiamo e che ci attribuiscono. Io semplicemente ammetto di non essere consolato da quello che tutti sappiamo benissimo che non può consolarci. Nessuno, inchiodato alla croce, è consolato se gli mostrano il più sublime quadro di Raffaello”.
Questo era Quinzio, uno che sapeva essere credibile come pochi nel suo incoraggiarti non solo alla bontà e alla gioia di vivere, ma anche alla preziosità della fede, perché non nascondeva mai la verità, né di quel che aveva dentro né di quel che vedeva accadere fuori, nel mondo, pensando a quanto doveva soffrire Dio vedendo tutto, conoscendo tutto di tutti.
Non era dunque “dolorismo implacabile” che “sommergeva tutto e insieme a se stesso tutti” – vorrei dirlo a Guido – era invece proprio “un soffrire per bisogno di felicità più che di croce”, un “piangere per l’uomo” che prima di noi è stato di Dio che ha voluto (o dovuto?), in Gesù, non solo piangere ma persino morire da uomo per noi uomini, in modo che a noi tocca ora piangere per l’uomo e per Dio, per quel Dio che ha promesso di venire comunque e “presto” ad asciugare “le lacrime su ogni volto”, eliminando “la morte per sempre”, come disse il profeta antico e ribadì Giovanni, ormai duemila anni fa, dall’“isola chiamata Patmos” (Is 25,8; Ap 1,9; 21,4; 22,20).
Tratto da Daniele Garota, OCCHI APERTI SULL’ABISSO, La singolar tenzione tra Quinzio e Ceronetti, Per KOINONIA ottobre 2014
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