Sull’Atlantico incombeva un’area di bassa pressione; si muoveva verso oriente in direzione di quella di alta pressione che si trovava sulla Russia, senza manifestare ancora la tendenza a eluderla, spostandosi verso nord. Le isotere e le isoterme facevano il loro dovere. La temperatura dell’aria era nella norma rispetto alla temperatura media annua, rispetto a quella del mese più freddo come a quella del mese più caldo e all’oscillazione mensile aperiodica della temperatura. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi lunari, quelle di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri fenomeni significativi corrispondevano alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la elasticità massima e l’umidità era scarsa. In poche parole, che, seppure un po’ fuori moda, descrivono molto bene questo stato di cose: era una bella giornata di agosto dell’anno 1913.
Le automobili sbucavano da strade strette e anguste nella superficie luminosa delle piazze. Le macchie scure dei pedoni formavano cordoni di nubi. Dove linee di velocità più intensa ne intersecavano la corsa disordinata, quei cordoni si ispessivano, scorrevano più rapidamente e dopo poche oscillazioni riprendevano il loro ritmo regolare. Centinaia di suoni si sovrapponevano in un assordante groviglio di fili metallici, dal quale si distinguevano delle punte, spiccavano degli spigoli taglienti per smussarsi subito dopo, si staccavano chiare note volando via come schegge. Da quel frastuono, la cui particolarità è comunque indescrivibile, una persona, che pur fosse stata assente per anni, avrebbe capito a occhi chiusi di trovarsi nella capitale dell’impero e residenza della corte, a Vienna. Le città si fanno riconoscere al passo, come gli uomini. Aprendo gli occhi, quella persona sarebbe giunta alla stessa conclusione, ricavandola molto prima dal ritmo del traffico stradale piuttosto che da qualche dettaglio caratteristico. E seppure si fosse ingannata, poco male. Sopravvalutare la questione del dove ci si trova, deriva dall’epoca dalle orde di nomadi, in cui l’individuo doveva localizzare i pascoli. Sarebbe interessante comprendere perché di un naso rosso ci si accontenta di dire in modo molto approssimativo che è rosso, e mai ci si domanda di che tipo di rosso sia, sebbene lo si possa esprimere con esattezza al micromillimetro mediante la lunghezza d’onda. Mentre per qualcosa di molto più complesso, come la città in cui ci si trova, si vorrebbe sempre sapere esattamente quale particolare città sia. Questo distrae dall’essenziale.
Non daremo perciò particolare peso al nome della città. Come tutte le grandi città era un insieme di cose e circostanze irregolari, mutevoli, che scorrevano, non tenevano il passo, si scontravano, inframmezzate da immensi momenti di silenzio. Era una città fatta di strade regolari e zone impraticabili, attraversata da un battito ritmico, intenso, e dall’eterna scordatura e sfasamento di tutti i ritmi. Nel complesso assomigliava a una vescica messa a bollire in un recipiente fatto del materiale durevole delle case, delle leggi, dei regolamenti e delle tradizioni storiche. Le due persone che in questa città stavano percorrendo una strada ampia e movimentata non avevano naturalmente tale impressione. Appartenevano chiaramente a una classe sociale privilegiata, avevano un abbigliamento, un contegno e un modo di parlare distinto; portavano le iniziali del loro nome significativamente ricamate sulla biancheria, e allo stesso modo, ovvero senza farlo trapelare all’esterno, nella fine biancheria della coscienza. Sapevano chi erano e che una capitale e residenza di corte era il luogo adatto a loro. Ammesso che si chiamassero Arnheim ed Ermelinda Tuzzi, cosa che peraltro era errata, poiché ad agosto la signora Tuzzi si trovava a Bad Aussee1 in compagnia del marito e il dottor Arnheim a Costantinopoli, resta ancora il mistero di chi fossero in realtà. Le persone dotate di un’immaginazione vivace, quando sono per strada, si pongono molto spesso simili interrogativi e singolarmente li risolvono dimenticandoli, a meno che nei successivi cinquanta passi non si riesca a ricordare dove si erano già visti quei due. La coppia in questione si è ora fermata improvvisamente poiché ha notato davanti a sé un assembramento. Solo un attimo prima qualcosa era saltato fuori dalla propria corsia con una brusca sterzata e aveva girato su se stesso, finendo per mettersi di traverso: era un pesante autocarro che, dopo aver frenato di colpo – ora si poteva vedere – se ne stava bloccato con una ruota sul marciapiede. Come api intorno al buco dell’alveare, la gente aveva formato in un istante un capannello intorno a un piccolo spazio che aveva lasciato vuoto nel mezzo. Sceso dal veicolo, il conducente stava lì, grigio come carta da pacchi, e descriveva con gesti rozzi l’incidente. Gli sguardi di coloro che sopraggiungevano si posavano su di lui per poi calarsi con cautela nella profondità del buco, dove un uomo che sembrava morto era stato adagiato al bordo del marciapiede. Aveva subito quell’incidente per la propria sbadataggine, come fu riconosciuto da tutti. A turno la gente gli si inginocchiava accanto per dargli un qualche aiuto; gli sbottonarono la giacca e poi gliela riabbottonarono, cercarono di farlo alzare e poi lo distesero nuovamente. In realtà nessuno voleva far altro che occupare il tempo finché non fosse arrivato, con il pronto soccorso, un aiuto competente e autorizzato.
Anche la signora e il suo accompagnatore si erano avvicinati e avevano osservato l’uomo steso a terra al di sopra delle teste e delle schiene chinate. Quindi, esitanti, si ritrassero. La signora provava qualcosa di spiacevole nella zona cardio-epigastrica, e la ritenne, a ragione, compassione. Era un sentimento indeciso, paralizzante. Dopo qualche istante di silenzio il signore le disse: «Questi autocarri pesanti che circolano qui hanno uno spazio di frenatura troppo lungo». La signora se ne sentì sollevata e ringraziò con uno sguardo gentile. Aveva già sentito quella parola altre volte, ma non sapeva che cosa fosse uno spazio di frenata, né voleva saperlo. Le bastava mettere un qualche ordine a quell’orribile incidente e ricondurlo a un problema tecnico che non la riguardasse più direttamente. Si udì a questo punto anche il fischio acuto di un’ambulanza, e la tempestività del suo arrivo riempì di soddisfazione i presenti. Sono ammirevoli queste istituzioni sociali. Il ferito venne adagiato su una barella e caricato sull’ambulanza. Uomini in una specie di uniforme si presero cura di lui, e l’interno del veicolo, per quel che si poteva scorgere, appariva pulito e ordinato come una corsia d’ospedale. Se ne traeva la legittima impressione che l’operazione si fosse svolta in modo legale e regolare. «Secondo le statistiche americane», osservò il signore, «negli Stati Uniti muoiono ogni anno in incidenti stradali centonovantamila persone e quattrocentocinquantamila rimangono ferite».
«Lei ritiene che sia morto?», domandò la sua accompagnatrice che continuava a provare l’ingiustificata impressione di aver vissuto qualcosa di eccezionale. «Spero che vivrà», rispose il signore. «Quando lo hanno caricato sull’ambulanza ne aveva tutta l’aria».
1. Località termale austriaca sita nella regione del “Salzkammergut”.
Tratto da:Robert Musil, L’uomo senza qualità