«Che fai qui, ragazzo?»
«Niente».
«E allora perché ci stai?».
«Così…».
«Sai già leggere?».
«Oh sì».
«Quanti anni hai?».
«Nove compiuti».
«Cosa ti piace di più: una tavoletta di cioccolata o un libro?».
«Un libro».
«Davvero? Ma bravo. Allora è per questo che te ne stai qui?».
«Sì».
«E perché non l’hai detto subito?».
«Papà mi sgrida».
«Ah, ecco. Come si chiama tuo padre?».
«Franz Metzger».
«Ti piacerebbe andare in un paese straniero?».
«Sì. In India. Là ci sono le tigri».
«E poi dove?».
«In Cina. C’è un’enorme muraglia».
«Ti piacerebbe scavalcarla, vero?».
«È troppo spessa e troppo grande. Nessuno può scavalcarla. Proprio per questo l’hanno costruita».
«Quante cose sai! Hai già letto molto, tu».
«Sì, leggo sempre. Papà mi toglie i libri. Mi piacerebbe frequentare una scuola cinese. Là s’imparano quarantamila lettere. Non c’entrano nemmeno tutte in un libro».«Questo lo pensi tu».
«Ho fatto il conto»
«Però le cose non stanno così. Lascia perdere i libri in vetrina. È roba che non vale niente. Nella mia borsa ho qualcosa di bello. Aspetta, te lo faccio vedere. Sai che scrittura è questa?».
«Cinese! Cinese!».
«Ma sei proprio un ragazzino sveglio! Ne hai già visti di libri cinesi?».
«No, l’ho indovinato».
«Questi due segni significano Mong Tse, cioè il filosofo Mong. È stato un grand’uomo, in Cina. È vissuto 2250 anni fa, e lo si legge ancor oggi. Te ne ricorderai?».
«Sì. Adesso devo andare a scuola».
«Ah, così ti guardi le librerie mentre vai a scuola! E tu come ti chiami?».
«Franz Metzger. Come mio padre».
«E dove abiti?».
«Ehrlichstrasse 24».
«Ci abito anch’io. Ma non riesco proprio a ricordarmi di te».
«Lei guarda sempre dall’altra parte, quando qualcuno la incontra per le scale. Io la conosco da tanto tempo. Lei è il professor Kien, però non ha niente a che fare con la scuola. La mamma dice che lei non è un professore. Io però penso di sì, perché lei ha una biblioteca. Una cosa da non credersi, dice Maria. Maria è la nostra donna di servizio. Quando sarò grande voglio una biblioteca. Ci dovranno essere tutti i libri, in tutte le lingue, anche uno cinese come questo. Adesso devo scappare».
«Chi ha scritto questo libro? Te lo ricordi?».
«Mong Tse, il filosofo Mong. Esattamente 2250 anni fa».
«Bene. Puoi venire, una volta, a vedere la mia biblioteca. Di’ alla governante che t’ho dato il permesso io. Ti mostrerò illustrazioni dell’India e della Cina».
«Magnifico! Ci vengo! Ci vengo di sicuro! Oggi pomeriggio?».
«No, no, ragazzo. Devo lavorare. Fra una settimana, non prima».
Il professor Peter Kien, un uomo lungo e asciutto, uno studioso, specialista di sinologia, infilò il libro cinese nella borsa rigonfia che teneva sotto il braccio, la chiuse con cura e seguì con lo sguardo, finché non fu scomparso, quel ragazzo dalla mente così pronta. Taciturno e scontroso per natura, si rimproverò quella conversazione che aveva avviato senza una vera necessità.
Aveva l’abitudine, durante le passeggiate che compiva fra le sette e le otto del mattino, di dare un’occhiata alle vetrine di tutte le librerie che trovava sulla propria strada. Quasi con gioia constatava che robaccia e porcherie d’ogni genere occupavano sempre più spazio. Quanto a lui, possedeva la più importante biblioteca privata di quella grande città, e ne portava sempre con sé una piccola parte. La sua passione per i libri, l’unica che si concedesse in un’esistenza severa e laboriosa, lo costringeva a rispettare molte misure precauzionali. Era facile che un libro, magari insignificante, lo tentasse all’acquisto. Per fortuna, la maggior parte delle librerie apriva solo dopo le otto. Qualche volta un giovane apprendista che voleva guadagnarsi la fiducia del principale faceva la sua comparsa anche più presto e stava ad aspettare il primo commesso, al quale toglieva solennemente le chiavi di mano. «Sono qui dalle sette, io» esclamava, oppure: «Non posso entrare». Un Kien si faceva contagiare facilmente da tanto zelo; gli costava un grosso sforzo dominarsi e non entrare sui due piedi. Fra i proprietari delle librerie minori non mancavano i tipi mattinieri, che già alle sette e mezzo si davano da fare dietro le porte aperte. Per non cedere a queste tentazioni, Kien batteva col palmo della mano sulla sua borsa gonfia di volumi. Se la teneva stretta addosso, in una maniera speciale che aveva escogitato lui perché vi fosse sempre tra essa e il suo corpo il più ampio contatto possibile. Le costole la sentivano oltre l’abito sottile, di qualità scadente. La parte superiore del braccio veniva a disporsi lungo la piega laterale della borsa, dove entrava di giusta misura. Sotto, l’avambraccio fungeva da sostegno. Le dita divaricate si stendevano con voluttà su tutta la superficie. Scusava davanti a se stesso questa cura eccessiva accampando il valore del contenuto. Se la borsa per caso finiva a terra, se la serratura, che lui controllava ogni mattina prima di uscire, si apriva proprio in quell’istante pericoloso, per quelle opere preziose era la fine. Niente lo disgustava più di un libro insudiciato.
Quel mattino, tornando verso casa, s’era fermato davanti a una vetrina e improvvisamente un ragazzo s’era infilato tra lui e il vetro. Kien giudicò questa mossa un atto di maleducazione. Di spazio ce n’era abbastanza. Lui si metteva sempre a un metro di distanza dal vetro; nondimeno leggeva senza il minimo sforzo ogni lettera al di là della vetrina. I suoi occhi funzionavano a meraviglia; cosa notevole in un uomo di quarant’anni che passava tutta la giornata chino su libri e manoscritti. Ogni mattina i suoi occhi gli confermavano l’eccellenza del loro stato. Nella distanza che manteneva tra sé e quei libri offerti in vendita alla massa si esprimeva inoltre quel disprezzo che, rispetto alle opere ponderose e indigeste della sua biblioteca, essi meritavano ampiamente. Il ragazzo era basso, Kien di statura non comune. Si sarebbe aspettato un maggior ossequio. Prima di rimproverargli il suo modo di comportarsi, si spostò di lato, per osservarlo. Il ragazzo teneva gli occhi fissi sui titoli dei libri e muoveva le labbra lentamente, quasi in silenzio. Passava senza stancarsi da un volume all’altro. Ogni due minuti girava di scatto la testa. Sull’altro lato della strada c’era un enorme orologio appeso sopra una bottega di orologiaio. Erano le otto meno venti. Era evidente che il ragazzo temeva di far tardi a qualcosa di importante. Non prestava alcuna attenzione al signore che gli stava dietro. Forse faceva esercizio di lettura; forse imparava i titoli a memoria. Riservava a tutti un trattamento uguale ed equanime. Si vedeva chiaramente su quale punto fermava un attimo di più la sua attenzione.
Kien ne ebbe pena. Perdendosi dietro a quella roba volgare guastava il suo spirito fresco, forse già assetato di letture. Più tardi avrebbe letto certi libracci solo perché il titolo gli era familiare fin da bambino. Com’è possibile porre un limite alla ricettività dei primi anni? Un bambino, non appena ha imparato a camminare e sillabare, si ritrova esposto senza pietà ai pericoli di una qualche strada sconnessa, alle insidie di un qualsiasi mercante che, sa il diavolo per quale motivo, s’è messo nei libri. I piccoli dovrebbero crescere in una buona biblioteca privata. Il contatto quotidiano ed esclusivo con spiriti austeri, un luogo dove regnino saggezza, penombra, silenzio, l’abitudine tenace all’ordine più rigoroso, nello spazio come nel tempo: quale ambiente potrebbe meglio aiutare creature tanto fragili a superare gli anni della giovinezza? L’unica persona che in quella città possedesse una biblioteca privata degna di considerazione era appunto Kien. Lui non poteva prendersi bambini in casa. Il suo lavoro non gli permetteva divagazioni. I bambini fanno chiasso. Bisogna occuparsi di loro. Per curarli è necessaria una donna. Per la cucina basta una governante qualunque, ma per i bambini bisogna tenersi in casa una madre. Se una madre fosse solo una madre: ma quale donna si contenta di quello che è il suo vero ufficio? Una donna, prima di tutto, è una donna, e come tale avanza pretese che uno studioso serio non si sognerebbe neppure lontanamente di soddisfare. Di una moglie Kien fa volentieri a meno. Finora le donne gli sono state indifferenti, e indifferenti continueranno a essergli. Chi ci rimette è il ragazzo dagli occhi sgranati e dalla testa in fermento.
Gli aveva rivolto la parola spinto da un senso di pena, e contro le proprie abitudini. Si sarebbe liberato volentieri dei suoi sentimenti pedagogici con una tavoletta di cioccolata. Ma a questo punto era venuto fuori che esistono bambini di nove anni capaci di preferire un libro a una tavoletta di cioccolata. Ciò che poi era venuto a sapere l’aveva sorpreso ancora di più. Il ragazzo s’interessava alla Cina. Leggeva contro la volontà di suo padre. Le voci sulle difficoltà della scrittura cinese lo stimolavano invece di spaventarlo. La riconosceva subito senza averla mai vista. La prova d’intelligenza l’aveva superata con lode. Non aveva toccato il libro che gli veniva mostrato. Forse aveva le dita sporche e se ne vergognava. Kien le aveva esaminate: erano pulite. Un altro avrebbe cercato di afferrare il libro anche con le dita sporche. Aveva fretta, la scuola cominciava alle otto, ma rimaneva là fino all’ultimo istante. S’era buttato sull’invito come un affamato, certo il padre doveva proprio tormentarlo. Fosse stato per lui sarebbe venuto subito, già nel pomeriggio, in pieno orario di lavoro. Abitava nella stessa casa.
Kien arrivò a perdonarsi di aver attaccato discorso. L’eccezione che s’era concessa pareva giustificata. Rivolse il pensiero al ragazzo ormai scomparso dalla strada e salutò in lui un futuro sinologo. Chi mai s’interessava a quella scienza tanto remota? I bambini giocavano a pallone, gli adulti si occupavano del guadagno, il tempo libero lo passavano pensando all’amore. Per dormire otto ore e non far niente per altre otto dedicavano il resto del tempo a un lavoro che detestavano. Non solo del ventre avevano fatto una divinità, ma di tutto il loro corpo. Il dio celeste dei cinesi era più severo e più dignitoso. Anche se la settimana prossima il ragazzo non fosse venuto, cosa abbastanza inverosimile, un nome ormai l’aveva in testa comunque, un nome difficile da dimenticare: quello del filosofo Mong. Proprio le spinte occasionali e inattese danno agli uomini un indirizzo per la vita.
Sorridendo, Kien proseguì il cammino verso casa. Sorrideva di rado. Non è frequente che la maggiore aspirazione di qualcuno sia quella di possedere una biblioteca. A nove anni l’oggetto dei suoi desideri era invece una libreria. L’idea di andarvi su e giù da proprietario gli appariva, allora, sacrilega. Un libraio è un re, un re non può essere un libraio. Sapeva di essere troppo giovane per fare il commesso. I fattorini venivano sempre mandati in giro. Che piacere avrebbe ricavato dai libri se si fosse dovuto limitare a portarli impacchettati sottobraccio? Cercò a lungo una soluzione. Un giorno, dopo la scuola, non tornò a casa. Entrò nel negozio più grande della città, sei vetrine piene di libri, e cominciò a piangere forte. «Devo uscire, presto, ho paura che…» frignò. Gli mostrarono il retro del negozio. Lui se l’impresse bene in mente. Alla fine ringraziò e chiese se poteva rendersi utile. La sua faccia raggiante divertì tutti quanti. Non più di un momento prima era stravolta da quella buffa paura. Lo fecero parlare; sui libri sapeva una quantità di cose. Per l’età sua lo trovarono intelligente. Verso sera lo spedirono fuori con un pacco pesante. Lui prese il tram all’andata e al ritorno. Aveva messo da parte il denaro occorrente. Un attimo prima dell’ora di chiusura, già imbruniva, riferì che la commissione era fatta e mise la ricevuta sul bancone. Qualcuno gli dette in premio un dissetante. Mentre i commessi s’infilavano il soprabito lui sgattaiolò nel retrobottega, raggiunse quel tal posticino sicuro e vi si chiuse dentro. Nessuno si accorse di nulla: quelli erano tutti presi dal pensiero della loro serata libera. Aspettò a lungo là dentro. Solo dopo molto tempo, a tarda sera, osò uscire. Nel negozio era tutto buio. Cercò l’interruttore. Di giorno non vi aveva pensato. Lo trovò, e già vi teneva sopra la mano, quando il pensiero di accendere la luce lo spaventò. E se qualcuno lo vedeva dalla strada e lo riportava a casa?
I suoi occhi s’abituarono da soli all’oscurità. Leggere tuttavia non poteva, questo era davvero un peccato. Toglieva dagli scaffali un volume dopo l’altro, ne sfogliava le pagine e riusciva persino a decifrare qualche titolo. Più tardi si arrampicò qua e là sulla scaletta. Voleva scoprire se i ripiani più alti nascondevano qualche segreto. Cadde a terra e disse: «Non mi sono fatto male!». Il pavimento era duro. I libri erano morbidi. In una libreria si cade sui libri. Con essi avrebbe potuto costruire una torre, ma giudicava il disordine una cosa volgare e prima di prendere in mano un nuovo volume rimetteva a posto il precedente. La schiena gli doleva. Forse era soltanto stanchezza. A casa sarebbe stato a letto già da un pezzo. Qui non era possibile, l’eccitazione lo teneva sveglio. Ma ormai i suoi occhi non riuscivano a distinguere nemmeno i titoli più grandi, e ciò l’indispettiva assai. Provò a calcolare quanti anni uno sarebbe potuto rimanere lì dentro a leggere senza metter piede una sola volta in strada o in quella stupida scuola. Perché non restare sempre lì? I soldi per un lettino sarebbe pur riuscito a metterli da parte. La mamma avrebbe avuto paura. Anche lui, ma solo un poco, per via di quel gran silenzio. I lampioni a gas della strada si spensero. Tutt’intorno strisciarono le ombre. I fantasmi dopotutto esistevano sul serio. Di notte si raccoglievano tutti là dentro e si accoccolavano sui libri. E leggevano. La luce a loro non serviva, avevano occhi tanto grandi. Ora, su in alto, lui non avrebbe più osato toccare un solo libro, no davvero, e neanche in basso. Si rifugiò sotto il bancone battendo i denti. Diecimila libri, e su ognuno sedeva un fantasma. Per questo c’era tanto silenzio. A volte li sentiva sfogliare le pagine. Leggevano svelti proprio come lui. Avrebbe potuto abituarcisi, ma erano diecimila, uno di loro poteva anche mordere. I fantasmi si stizziscono se uno li sfiora, credono che li si voglia prendere in giro. Si fece piccolo piccolo; loro gli svolazzavano sopra la testa. Il mattino non venne che dopo molte notti. Allora si addormentò. Quando il negozio venne aperto lui non si accorse di nulla. Lo trovarono sotto il bancone e lo scossero fino a svegliarlo. Sulle prime lui finse d’essere ancora addormentato, poi si mise prontamente a strillare. Ieri, disse, l’avevano chiuso dentro, aveva paura di sua madre, lei l’aveva sicuramente cercato dappertutto. Il padrone l’interrogò e non appena ebbe saputo il suo nome lo fece accompagnare a casa da un commesso. Pregava la signora di volerlo scusare. Il ragazzo era stato chiuso per errore nel negozio, ma per il resto stava benissimo. Quanto a lui, le porgeva i suoi più devoti ossequi. La mamma ci credette e fu felice. Adesso il piccolo bugiardo d’allora possedeva una splendida biblioteca e un nome altrettanto famoso.
Kien detestava la menzogna; fin da bambino s’era sempre attenuto alla verità. Non ricordava d’aver detto, a parte questa, una sola bugia. E nemmeno a questa aveva risparmiato la sua condanna. Solo il dialogo con quello scolaretto che pareva l’immagine della sua giovinezza gliel’aveva richiamata alla memoria. Ma ora basta, pensò, sono quasi le otto. Alle otto in punto cominciava il suo lavoro, la sua opera al servizio della verità. Scienza e verità erano per lui concetti identici. E alla verità ci si avvicinava solo tenendosi lontano dagli uomini. La vita quotidiana era un superficiale groviglio di menzogne. Tanti passanti, tanti bugiardi. Per questo lui non li degnava d’uno sguardo. Chi mai, tra i cattivi attori di cui si componeva la massa, aveva un volto che richiamasse la sua attenzione? Lo mutavano a seconda del momento, non resistevano in una parte nemmeno per un giorno. Lui questo lo sapeva a priori. Il conforto dell’esperienza era del tutto superfluo. Lui, invece, riponeva la sua ambizione in una caparbia costanza della propria natura. Non per un mese, non per un anno, per tutta la vita restava uguale a se stesso. Il carattere, se uno ne aveva, determinava anche l’aspetto. Per quanto riusciva a ricordare, lui era sempre stato lungo e troppo magro. La faccia se la vedeva soltanto nelle vetrine dei librai. Specchi a casa non ne aveva; erano tanti i libri che non c’era posto. Ma che essa fosse sottile, severa e ossuta lo sapeva bene: tanto bastava.
Non provando la minima voglia di badare alla gente, teneva gli occhi fissi in basso oppure in alto, al di sopra delle teste. La vicinanza di una libreria l’avvertiva ugualmente. Bastava che si affidasse al suo istinto. Quel che sanno fare i cavalli quando tornano alla stalla riusciva pure a lui. Andava a passeggio proprio per respirare l’aria di libri non suoi: essi stimolavano il suo spirito di contraddizione, lo ricreavano un po’. Nella sua biblioteca tutto filava in perfetta regola. Fra le sette e le otto del mattino si concedeva qualcuna delle libertà di cui è fatta interamente la vita degli altri.
Benché gustasse appieno quest’ora, non dimenticava il suo amore per l’ordine. Prima di attraversare una via piena d’animazione, esitò un poco: gli piaceva camminare a passo eguale; per non dover attraversare in fretta aspettò il momento propizio. In quel mentre qualcuno chiese forte a un altro: «Mi sa dire dov’è la Mutstrasse?». L’interrogato non replicò parola. Kien ne fu stupito: dunque v’erano per la strada, oltre a lui, altri individui taciturni. Tese l’orecchio senza alzare gli occhi. Come avrebbe reagito di fronte a quel silenzio l’uomo che aveva fatto la domanda? «Mi scusi, potrebbe dirmi per favore dov’è la Mutstrasse?». Raddoppiò la propria gentilezza ma non ebbe miglior fortuna: l’altro non disse niente. «Forse lei non mi ha sentito. Avrei bisogno di un’informazione. Vuol essere così gentile da dirmi come posso trovare la Mutstrasse?». L’impulso conoscitivo di Kien – lui non conosceva curiosità – s’era destato: si propose di guardare in faccia il taciturno, nel caso che avesse insistito anche adesso nel suo silenzio. Senza dubbio l’uomo era immerso nei suoi pensieri e desiderava evitare ogni interruzione. Restò zitto di nuovo. Kien lo elogiò. Un carattere, fra migliaia, capace di resistere ai casi esteriori. «Ma dica, è sordo?» gridò il primo. Adesso l’altro risponderà, pensò Kien, e cominciò a perder gusto all’avventura del suo protetto. Chi sa tenere a freno la lingua quando viene offeso? Si girò verso la strada: il momento di attraversare era arrivato. Stupito che il silenzio continuasse, si fermò. Il secondo ancora non parlava. Tanto più violento sarebbe stato quindi l’esplodere della sua collera. Kien sperava che ne uscisse una lite. Se il secondo si dimostrava non diverso dagli altri, lui, Kien, sarebbe rimasto incontestabilmente quello che riteneva di essere: l’unica persona di carattere che passeggiava per quella strada. Si chiese se dovesse già alzare gli occhi sui due. La scena si svolgeva alla sua destra. Qui il primo strepitava: «Lei è un maleducato! Le ho rivolto una domanda con la massima cortesia. Ma chi crede di essere! Villanzone! È forse muto?». L’altro taceva. «Dovrà chiedermi scusa! Me n’infischio della Mutstrasse! Quella può indicarmela chiunque. Ma lei dovrà scusarsi con me. Ha capito?». L’altro non si dette per inteso. In compenso crebbe nella considerazione di Kien, che stava in ascolto. «Adesso chiamo la polizia! Ma lo sa chi sono io? Brutto mucchio d’ossa! E questa sarebbe una persona civile! Dove ha preso quei vestiti? Al monte di pietà, scommetto: ne hanno tutta l’aria! E cosa tiene sotto il braccio? Gliela farò vedere! S’impicchi! Lo sa cos’è lei?!».
A questo punto Kien ricevette una forte spinta. Qualcuno gli afferrò la borsa e cercò di strappargliela. Con uno strattone che superava di molto le sue forze abituali, lui sottrasse i libri agli artigli dell’altro e si girò di scatto verso destra. Il suo sguardo era diretto alla borsa, ma cadde su un uomo piccolo e grasso che l’investiva con grida furibonde. «Un tanghero! Un tanghero! Un tanghero!». L’altro, l’uomo taciturno e di carattere che sapeva tenere a freno la lingua anche nella collera era lui stesso, Kien. Senza scomporsi girò le spalle a quell’analfabeta gesticolante, e con questo sottile coltello diede un taglio netto alle ciance dell’altro. Un simile grassone, la cui gentilezza si trasformava in insolenza nel giro di pochi istanti; non poteva offenderlo. Ad ogni modo attraversò la strada più in fretta di quel che non fosse nelle sue intenzioni. Quando si hanno dei libri con sé bisogna evitare di venire alle mani. E di libri con sé, lui ne aveva sempre.
Perché, in fondo, uno non è tenuto a prestare orecchio alle sciocchezze di ogni passante. Perdersi in chiacchiere è il peggior pericolo che minacci uno studioso. Kien preferiva esprimersi per iscritto piuttosto che a voce. Conosceva alla perfezione più di una dozzina di lingue orientali. Alcune occidentali si capivano senza bisogno di studio. Nessuna letteratura gli era sconosciuta. Pensava per citazioni, scriveva in ben meditate proposizioni. Innumerevoli testi dovevano a lui il loro recupero in un’edizione affidabile. Quando doveva occuparsi di passi deteriorati o corrotti di antichissimi manoscritti cinesi, indiani, giapponesi, gli venivano in mente quante combinazioni voleva. C’era chi l’invidiava per questo; quanto a lui, doveva guardarsi dalla sovrabbondanza di idee. Cauto fino a torturarsi, soppesava per mesi una lettera, una parola, un’intera frase, con una lentezza addirittura esasperante, con un rigore che rivolgeva soprattutto a se stesso; ed esprimeva la propria opinione solo quando era sicuro che fosse ormai inoppugnabile. I saggi che aveva scritto fino a quel momento, pochi di numero ma ognuno tale da costituire la base per cento altri, gli avevano procurato la fama di primo sinologo del suo tempo. Gli specialisti della sua materia li conoscevano alla perfezione, quasi a memoria. Ogni frase scritta da lui veniva considerata decisiva e impegnativa. In questioni controverse ci si rivolgeva a lui, somma autorità anche in campi attinenti solo secondariamente al suo. A pochi concedeva l’onore di una sua lettera. Ma chi veniva prescelto riceveva in un solo scritto suggerimenti e ispirazioni a non finire, e ne aveva lavoro per anni: un lavoro i cui risultati, data la figura dell’ispiratore, si potevano considerare sicuri in partenza. Rapporti personali non ne aveva con nessuno. Inviti non ne accettava. Ovunque si liberasse una cattedra di filologia orientale, essa veniva offerta, prima che ad ogni altro, a lui. Che rifiutava con sprezzante cortesia.
Lui – rispondeva – non era nato per fare l’oratore. Ricevere un compenso per la sua attività gliel’avrebbe resa insopportabile. A suo modesto parere, le cattedre universitarie avrebbero dovuto essere occupate dagli stessi improduttivi volgarizzatori cui si affida l’insegnamento nelle scuole medie, in modo che gli studiosi veri e propri, quelli capaci di creare, potessero dedicarsi esclusivamente al loro lavoro. Intelligenze mediocri in ogni caso non ne mancavano. Alle sue lezioni non ci sarebbe stata grande affluenza, dal momento che lui sarebbe stato quanto mai esigente con i suoi allievi. E probabilmente nessun candidato avrebbe superato gli esami: per lui sarebbe stato un titolo di orgoglio bocciare ripetutamente quei giovani immaturi finché non avessero compiuto i trent’anni e vuoi per noia, vuoi per un inizio di serietà, non avessero imparato qualcosa, foss’anche, per il momento, ben poco. Già l’ammissione alle aule della facoltà di persone la cui memoria non fosse sottoposta a un esame accurato gli sembrava cosa pericolosa o quanto meno inutile. Dieci studenti scelti attraverso rigorosissimi esami preliminari sarebbero indubbiamente riusciti, a patto che rimanessero fra loro, a rendere di più che mescolati a cento neghittosi birraioli quali sono normalmente i frequentatori delle università. Le sue erano quindi perplessità sostanziali e di principio. Pregava dunque il Consiglio di non voler più rinnovare una proposta che, benché lui non se ne sentisse onorato, era stata certamente formulata con intenti onorevoli.
Ai congressi, che si svolgono solitamente all’insegna della loquacità, Kien era una delle figure più discusse. Per la maggior parte della loro vita quei signori erano schive, miopi e silenziose talpe; ma in simili occasioni, che si presentavano ogni paio d’anni, non stavano più nella pelle. Si salutavano, complottavano accostando le teste peggio assortite, bisbigliavano senza dir niente e ai banchetti brindavano con mosse maldestre. Profondamente emozionati e piacevolmente esaltati, tenevano alto il loro vessillo, e senza macchia il loro scudo. Giuravano e spergiuravano la stessa cosa in tutte le lingue, ma anche senza giuramenti avrebbero mantenuto le loro promesse. Durante gli intervalli si davano alle scommesse. Verrà Kien questa volta? Di lui si parlava più che di ogni altro collega famoso; il suo modo di comportarsi stuzzicava la curiosità. Che lui non si presentasse mai a riscuotere le rendite della sua fama, che schivasse da anni, ostinatamente, discorsi inaugurali e banchetti in cui, a dispetto della sua giovane età, lo si sarebbe celebrato, che ad ogni congresso annunciasse un’importante relazione il cui manoscritto veniva poi letto da qualcun altro per suo conto: tutto ciò veniva considerato dai colleghi nient’altro che un modo di prender tempo. Una volta o l’altra, forse proprio quella volta, si sarebbe presentato all’improvviso, avrebbe accolto con dignità l’applauso tanto più scrosciante dopo il lungo riserbo e si sarebbe lasciato eleggere per acclamazione presidente del congresso, un posto che gli spettava e di cui lui stesso prendeva a suo modo possesso con la propria assenza. Ma i signori s’ingannavano. Kien non si faceva vedere. Il partito più fiducioso perdeva le sue scommesse.
Kien ricusava l’invito all’ultimo momento. L’invio dei suoi manoscritti a qualche studioso di sua preferenza era accompagnato da espressioni ironiche. Nel caso che, pur con un programma ricreativo tanto nutrito, si riservasse qualche minuto anche al lavoro – cosa che lui, nell’interesse della salute generale, si guardava bene dall’auspicare – pregava di presentare al congresso quella sua inezia, frutto di due anni di lavoro. Era solito tenere in serbo per tali circostanze risultati nuovi e sorprendenti. E da lontano seguiva, sospettosamente e coscienziosamente, l’effetto che sortivano, le discussioni che ne derivavano, come se avesse dovuto saggiare la loro consistenza testuale. Ai suoi sarcasmi l’assemblea non reagiva. Su cento presenti, ottanta si richiamavano a lui. I suoi risultati erano inestimabili. Quasi tutti gli auguravano lunga vita. Se fosse morto, la maggioranza rischiava di morire dallo spavento.
Quei pochi che l’avevano conosciuto di persona negli anni della gioventù s’erano ormai scordati la sua faccia. Ogni tanto qualcuno gli scriveva chiedendogli una fotografia. Non ne aveva, rispondeva lui, e non aveva alcuna intenzione di farsene fare. L’una e l’altra cosa rispondevano a verità. A un’altra concessione s’era invece deciso spontaneamente. All’età di trent’anni, senza aver preso per il resto alcuna disposizione testamentaria, aveva lasciato il suo cranio e il relativo contenuto a un istituto di frenologia. Motivò tale passo facendo presente il vantaggio che sarebbe derivato alla scienza dalla possibilità di trovare in una particolare struttura o fors’anche in un non comune peso del suo cervello la spiegazione della sua memoria veramente prodigiosa. Non che lui credesse – così aveva scritto al direttore dell’istituto – che il genio si riducesse a una facoltà mnemonica, come da qualche tempo si amava supporre da più parti. Lui stesso era tutt’altro che un genio. Nondimeno, negare l’utilità che per il suo lavoro scientifico aveva la memoria quasi spaventosa di cui era dotato, sarebbe stato antiscientifico. Lui aveva, in testa, per così dire, una seconda biblioteca, altrettanto vasta e attendibile di quella reale, della quale, a quanto sentiva dire, tutti facevano grandi elogi. Seduto al suo scrittoio, redigeva interi saggi, addentrandosi nei più minuti particolari, senza mai consultare altra biblioteca se non, appunto, quella che aveva in testa. Beninteso, controllava poi accuratamente le citazioni e i riferimenti bibliografici sulla scorta dei testi reali; ma lo faceva per puro scrupolo. Per quanto poteva ricordare, non era mai incorso in errori di memoria. Persino i suoi sogni avevano contorni più netti di quanto non avvenisse per la maggior parte degli uomini. Visioni confuse, informi o incolori erano del tutto estranee ai sogni che egli aveva preso in considerazione fino a quel momento. Nella sua testa, la notte non metteva mai niente sossopra; i suoni che udiva avevano tutti un’origine normale, le conversazioni che teneva erano assolutamente sensate, tutto funzionava secondo la logica. Non rientrava nella sua competenza stabilire se avesse legittimo fondamento la supposta relazione intercorrente fra la sua esattissima memoria e i suoi sogni chiari e precisi. Si limitava a segnalare modestamente la cosa e pregava di non voler considerare i dati personali che si permetteva di esporre in quella lettera come un segno di presunzione o di sciocca loquacità.
Kien richiamò alla mente altri particolari della sua vita che mettevano in luce la sua indole schiva, laconica e aliena da ogni vanità. Ma la sua collera contro quell’individuo sfacciato e arrogante, che prima gli aveva chiesto la via e poi l’aveva coperto di insulti, andava crescendo ad ogni passo. Dunque non c’è altro modo, si disse: entrò in un portone, si guardò attorno – nessuno l’osservava – e trasse di tasca un taccuino lungo e stretto. Sul frontespizio c’era scritto in lettere alte e spigolose: SCEMPIAGGINI. Il suo sguardo indugiò un poco su quel titolo. Poi sfogliò le pagine; più della metà del taccuino era coperta di appunti. Vi annotava tutto ciò che voleva dimenticare. Cominciava con data, ora e luogo. Seguiva l’avvenimento che doveva illustrare ancora una volta la scempiaggine degli uomini. Un’acconcia citazione, ogni volta diversa, faceva da chiusa. Non leggeva mai le scempiaggini che aveva raccolto: gli bastava uno sguardo al frontespizio. Pensava di pubblicarle, in età più matura, sotto il titolo Passeggiate di un sinologo.
Estrasse una matita ben appuntita e scrisse sulla prima pagina bianca: «23 settembre, ore sette e tre quarti. Nella Mutstrasse ho incontrato un tale che mi ha chiesto dove fosse la Mutstrasse. Per non umiliarlo io non gli ho risposto. Lui non si è dato per inteso e ha ripetuto più volte la sua domanda: il suo modo di fare era cortese. Ad un tratto lo sguardo gli è caduto su una targa stradale e s’è reso conto della sua stupidità. Invece di allontanarsi in gran fretta, come avrei fatto io al suo posto, si è abbandonato a un accesso di collera insultandomi nella maniera più grossolana. Se non l’avessi trattato con riguardo all’inizio, mi sarei risparmiato una scena così penosa. Chi è stato il più stupido?».
Con l’ultima frase mostrava di non arrestarsi nemmeno di fronte a se stesso. Era spietato con tutti. Soddisfatto, mise in tasca il taccuino e scordò l’uomo. Mentre scriveva, i libri erano finiti in una posizione scomoda. Li riassestò. Al primo angolo si tirò da parte di fronte a un cane lupo. L’animale si faceva strada rapido e sicuro, portandosi dietro, all’estremità di un guinzaglio teso, un cieco. L’infermità di costui – anche se non si prestava attenzione al cane – era riconoscibile dal bastone bianco che egli teneva nella destra. Persino i passanti più frettolosi, che non avevano tempo per il cieco, rivolgevano al cane uno sguardo ammirato. L’animale li spingeva da parte con il suo muso paziente, e dato che era bello e robusto tutti sopportavano di buon grado la cosa. Ad un tratto il cieco si tolse il berretto e lo tese verso la gente reggendolo assieme al bastone. «Per il pasto del cane» disse. Le monete cominciarono a piovere. La gente si accalcava intorno ai due, in mezzo alla strada. Il traffico ne fu bloccato; per fortuna a quell’angolo non c’erano poliziotti. Kien osservò da vicino il questuante. Era vestito con povertà ricercata e aveva una faccia da persona colta. Poiché muoveva continuamente i muscoli intorno agli occhi – ammiccava, alzava le sopracciglia e aggrottava la fronte – Kien diffidò di lui e decise di considerarlo un imbroglione. A questo punto comparve un ragazzetto di forse dodici anni, spinse da parte il cane con fare premuroso e lasciò cadere nel berretto un pesante bottone. Il cieco tenne gli occhi fissi davanti a sé e ringraziò, un tantino più calorosamente di quanto non avesse fatto fino a quel momento. Cadendo, il bottone aveva prodotto il suono di una moneta d’oro. Kien sentì una stretta al cuore. Afferrò per il ciuffo il ragazzo e, trovandosi le mani impedite, gli diede una botta in testa con la borsa: «Vergognati!» esclamò. «Ingannare un cieco!». Soltanto dopo si ricordò di ciò che la borsa conteneva: libri. Ne fu scosso, mai aveva fatto un sacrificio tanto grande. Il ragazzo corse via strillando. Per ritornare su un piano abituale, e assai più profondo, quello della compassione, Kien lasciò cadere tutti i suoi spiccioli nel berretto del cieco. Gli astanti manifestarono ad alta voce la loro approvazione, e lui si sentì subito più prudente e più meschino. Qui il cane ricominciò a tirare, e quando, subito dopo, comparve un poliziotto, il cieco e la sua guida erano tornati a camminare alla vecchia andatura.
Kien giurò a se stesso di togliersi la vita non appena l’avesse minacciato la cecità. Ogni volta che s’imbatteva in un cieco, lo riafferrava la medesima angoscia tormentosa. I muti gli piacevano; i sordi, i paralitici e gli storpi in genere gli erano indifferenti; ma i ciechi lo turbavano. Non riusciva a capire come mai non mettessero fine ai loro giorni. Anche se conoscevano alla perfezione la scrittura Braille, le loro possibilità di lettura erano estremamente limitate. Eratostene, il grande bibliotecario di Alessandria, un erudito del terzo secolo avanti Cristo, versato in tutte le discipline e responsabile di oltre mezzo milione di codici, fece all’età di ottant’anni una tremenda scoperta: i suoi occhi cominciavano a rifiutarsi di servirlo. Ci vedeva ancora, ma non era più in grado di leggere. Un altro avrebbe aspettato di diventare completamente cieco. A lui pareva che la forzata lontananza dai libri fosse già cecità sufficiente. Amici e allievi lo supplicarono di restare con loro. Egli sorrise saggiamente, li ringraziò e nel giro di pochi giorni si lasciò morire di fame.
Al momento opportuno, il piccolo Kien, la cui biblioteca contava appena venticinquemila volumi, sarebbe stato pronto a seguire questo grande esempio.
Percorse a passo più svelto il tratto di strada che gli restava per giungere a casa. Di certo erano già le otto, e alle otto cominciava il lavoro: la mancanza di puntualità gli dava la nausea. Ogni tanto si portava furtivamente la mano agli occhi. Funzionavano bene, sotto le dita sembravano freschi e sani.
La sua biblioteca si trovava nella Ehrlichstrasse, al quarto e ultimo piano della casa contrassegnata con il numero 24. La porta dell’appartamento era dotata, per sicurezza, di tre complicate serrature. L’aprì, attraversò l’anticamera nella quale c’era soltanto un attaccapanni, ed entrò nel suo studio. Posò con ogni cautela la borsa su una poltrona, poi percorse un paio di volte in su e in giù la fuga dei quattro locali alti e spaziosi che formavano la sua biblioteca. Tutte le pareti erano tappezzate di libri fino al soffitto. Vi fece scorrere sopra lo sguardo lentamente. Nel soffitto si aprivano dei lucernari. Era orgoglioso di quella sua luce che pioveva dall’alto. Le finestre erano state murate parecchi anni prima, dopo una dura battaglia con il padrone di casa. In tal modo egli aveva guadagnato in ogni stanza una quarta parete, il che significava più posto per i libri. Inoltre, una luce che illuminasse dall’alto, uniformemente, tutti gli scaffali, gli sembrava più equa e più consona ai suoi rapporti con i libri. E con le finestre era scomparsa pure la tentazione di osservare il viavai della strada: una cattiva abitudine, evidentemente innata, che serve solo a far perdere tempo. Ogni giorno, prima di mettersi allo scrittoio, benediceva quell’idea e la costanza con cui l’aveva perseguita, perché ad essa doveva la realizzazione del suo maggior desiderio: possedere una biblioteca ricca, ben ordinata e chiusa da tutti i lati, nella quale nessun mobile superfluo, nessuna persona superflua lo distogliesse dai suoi gravi pensieri.
Il primo ambiente serviva da studio. Un vecchio, imponente scrittoio, una poltrona dietro ad esso, una seconda poltrona nell’angolo opposto costituivano tutto il mobilio. S’aggiungeva un divano che faceva del suo meglio per non farsi notare e che Kien preferiva ignorare dal momento che gli serviva soltanto per dormirci. Alla parete era appesa una scala scorrevole. Essa era più importante del divano e nel corso della giornata passava da un locale all’altro. Il vuoto delle altre tre stanze non era infatti turbato neppure da una sedia. In nessun punto un tavolo, un armadio, una stufa che rompesse la variopinta uniformità degli scaffali. I tappeti folti che coprivano per intero il pavimento rendevano più calda la severa penombra che, grazie alle porte spalancate, faceva di tutti e quattro i locali un unico, ampio salone.
Kien aveva un passo rigido e vigoroso. Sui tappeti poi camminava con un’andatura particolarmente pesante; lo rallegrava il fatto che passi simili non producessero la minima eco. Nella sua biblioteca nemmeno un elefante avrebbe avuto la possibilità di far rintronare il pavimento. Per questo teneva in gran conto i tappeti. Si sincerò che tutti i libri fossero nello stesso ordine in cui si trovavano un’ora prima, quando aveva dovuto lasciarli. Poi cominciò a vuotare la borsa del suo contenuto. Entrando era solito posarla sulla sedia dietro lo scrittoio. Diversamente poteva accadere che si scordasse di riporla prima di mettersi al lavoro; alle otto sentiva più forte che mai l’impulso d’iniziare. Con l’aiuto della scala rimise i volumi al loro posto. Nonostante la sua cautela, l’ultimo – essendo ormai a questo punto lui si muoveva ancora più in fretta – cadde a terra dal terzo scaffale, a cui egli arrivava senza neppure l’aiuto della scala. Era proprio quel Mong Tse che amava più di ogni altro. «Stupido!» gridò a se stesso. «Barbaro! Analfabeta!». Lo raccolse con delicatezza e si diresse rapido alla porta. Ma in quel tratto gli venne in mente una cosa importante. Tornò indietro e, più silenziosamente che poté, accostò al luogo dell’incidente la scala che era appesa alla parete di fronte. Depose con tutte e due le mani il Mong Tse sul tappeto ai piedi della scala. Ora poteva andare alla porta. L’aprì e gridò:
«Per favore, un panno per la polvere, il migliore che ci sia!».
Poco dopo la governante bussò alla porta, che era soltanto accostata. Lui non rispose. Lei infilò con fare discreto la testa nella fessura e domandò:
«È successo qualcosa?».
«Niente, dia qua».
Nella sua risposta la donna colse un’involontaria nota di lamento. Era troppo curiosa per lasciare le cose a quel punto. «Ma la prego, professore!» disse con aria di rimprovero, entrò nella stanza e capì al primo sguardo ciò che era accaduto. Scivolò svelta fino al libro. Sotto la gonna blu inamidata, che giungeva a sfiorare il tappeto, i piedi non si vedevano. La testa era storta e le orecchie erano tutte e due ampie, piatte e sporgenti. Ma poiché la destra sfiorava la spalla e ne restava in parte coperta, la sinistra sembrava ancora più grande. Camminando e parlando tentennava il capo, e le spalle facevano a turno l’accompagnamento. Si chinò, raccolse il libro e vi passò sopra coscienziosamente lo strofinaccio una dozzina di volte. Kien non cercò di prevenirla. La cortesia gli era odiosa. Stette in disparte, badando che lei eseguisse a dovere il suo lavoro.
«Oh, è facile che capiti, mi scusi, quando si sta in cima a una scala!».
Poi gli porse il libro come un piatto senza traccia di polvere. Le sarebbe piaciuto immensamente attaccare discorso con il professore. Ma non le riuscì. Egli disse in fretta «grazie» e le girò le spalle. Lei capì e se n’andò. Aveva già le dita sulla maniglia quando lui si voltò improvvisamente e chiese con finta cordialità: «E infatti a lei è capitato diverse volte, non è vero?».
Lei intuì ciò che l’altro pensava e ne fu francamente indignata: «Ma, mi scusi, professore». Quel «mi scusi» risaltò pungente come una spina in mezzo alla sua parlata untuosa. Finisce che si licenzia, pensò lui, e per rabbonirla spiegò:
«Dicevo per dire. Lei sa che tesori ci sono in questa biblioteca!».
Lei non si aspettava una frase tanto affabile. Non seppe che cosa rispondere e si allontanò soddisfatta. Quando fu uscita, lui rimproverò a se stesso di aver parlato dei suoi libri come il più sporco dei mercanti. Ma in quale altro modo avrebbe potuto indurre una persona di quella fatta a trattare i libri con riguardo? Il loro vero valore non poteva capirlo, e doveva credere che lui, con la biblioteca, facesse delle speculazioni. Così era la gente! Così era la gente!
Dopo un involontario inchino rivolto ai manoscritti giapponesi che stavano sopra di lui, sedette finalmente allo scrittoio.
Tratto da: Elias Canetti, Auto da fè, Adelphi eBook