Se mi sono tanto dilungata su questo film, che costituisce in un certo senso una sorta d’anteprima, è perché il paragone con il seppuku di Mishima stesso ci permette di definire meglio la distanza fra la perfezione dell’arte, che riflette, in una splendente o cupa luce di eternità, l’essenziale, e la vita con le sue assurdità, i suoi colpi a vuoto, i suoi malintesi sconcertanti, indubbiamente dovuti alla nostra incapacità di penetrare, quando lo si dovrebbe, nell’animo degli esseri e nel cuore delle cose, ma anche, e proprio per questo, a quell’incalcolabile estraneità della vita “vera,” e che si potrebbe chiamare, con parola già forse un po’ logora, esistenziale. Come nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini, in cui Giuda, correndo a precipizio verso la sua fine, non è più un uomo ma un turbine, così dagli ultimi momenti della vita di Mishima emana l’odore di ozono dell’energia pura.
Circa due anni prima della fine, si produce per Mishima uno di quegli eventi insperati che sembrano manifestarsi puntualmente non appena la vita acquista una certa precipitazione e un certo ritmo. Un personaggio nuovo fa il suo ingresso, Morita, ventun anni, provinciale educato in un collegio cattolico, bello, un po’ tarchiato, infiammato della stessa passione lealista che arde in colui che egli ben presto chiamerà maestro (Sensei), termine onorifico dato dagli studenti ai loro istruttori. Si è detto che, in Mishima, l’inclinazione verso l’avventura politica è cresciuta in proporzione alla foga del giovane; tuttavia, nel 1969, in occasione di un progetto terroristico, l’abbiamo visto dissuadere il giovane allievo. Si vorrebbe quasi credere che alcuni aspetti sgradevoli del seppuku dei due uomini28 derivassero dalla fantasia del più giovane, dalla testa probabilmente imbottita di film e romanzi violenti, benché Mishima non avesse davvero bisogno, da parte sua, di essere sollecitato in tal senso. Si può al massimo pensare a un ritorno di ardore, da parte dello scrittore, trovando finalmente (Morita fu l’ultimo a iscriversi alla Società dello Scudo) il compagno e forse il fanatico che aveva sempre cercato. Questo giovane ci viene descritto come estremamente risoluto, così spartano da partecipare senz’altro alle esercitazioni del Tatenokai pur avendo una gamba ingessata per un incidente sportivo, e sempre appresso a Mishima, “seguendolo dappertutto come una fidanzata,” frase che assume un preciso valore quando si pensi che la parola fidanzamento indica il fatto di impegnare la propria fedeltà, e non si può impegnarla più indissolubilmente che promettendo di morire. Un biografo che basa la sua interpretazione di Mishima su dati quasi esclusivamente erotici, ha insistito molto sull’aspetto sensuale, d’altronde ipotetico, di questo attaccamento; qualcuno si è servito di questa chiave interpretativa per cercare di fare del seppuku uno shinju, il suicidio a due così frequente nei drammi del Kabuki, compiuto perlopiù sotto forma di annegamento da una fanciulla del quartiere proibito e da un giovane troppo povero per riscattare o mantenere la sua amante.29 Non è pensabile che Mishima, che da sei anni preparava la sua morte rituale, abbia montato tutta quella complicata messinscena di appello all’esercito e di protesta pubblica che precede la morte nella sola intenzione di fornire uno scenario a una dipartita a due. Più semplicemente, e su questo punto si era spiegato nel corso del dibattito con gli studenti comunisti, era arrivato a pensare che l’amore stesso fosse diventato impossibile in un mondo privo di fede. Egli paragonava gli amanti ai due angoli di base di un triangolo, e l’imperatore, che essi venerano, al vertice; sostituite la parola imperatore con la parola causa, o Dio, e arriverete a quel concetto di un sostrato di trascendenza necessario all’amore, di cui una volta ho disputato in altra sede. Col suo lealismo quasi ingenuo, Morita rispondeva a quell’esigenza. E tutto quanto si può dire; resta comunque da osservare che, probabilmente, è del tutto ovvio che due esseri che hanno deciso di morire insieme, e uno per mano dell’altro, vogliano prima, almeno una volta, incontrarsi in un letto, e l’antico spirito samurai non avrebbe certo disapprovato.
Tutto è pronto. Il seppuku è fissato per il 25 novembre 1970, giorno per il quale l’ultimo volume della tetralogia è promesso all’editore. Per quanto intensamente compenetrato dell’evento, Mishima regola ancora la propria vita in base ai suoi impegni di scrittore: si vanta di non aver mai mancato di consegnare un manoscritto alla data stabilita. Tutto è previsto, perfino, estrema cortesia nei confronti dei presenti, o desiderio supremo di conservare al corpo la sua dignità fino all’ultimo, i tamponi di ovatta che serviranno a impedire la fuoruscita degli escrementi durante le convulsioni dell’agonia. Mishima, che il 24 novembre ha cenato al ristorante con i suoi quattro proseliti, si ritira come tutte le sere per lavorare, termina il suo manoscritto o vi appone gli ultimi ritocchi, lo firma, lo infila in una busta che un fattorino dell’editore verrà a ritirare nel corso della mattina seguente. Spuntato il giorno, fa una doccia, si rade con cura, indossa l’uniforme dello Scudo su uno slip di cotone bianco e sulla pelle nuda. Gesti quotidiani, ma che assumono la solennità di ciò che non si ripeterà più. Prima di uscire dallo studio, lascia sulla scrivania un appunto: “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere sempre.” Frase caratteristica di tutti gli esseri tanto ardenti da essere insaziabili. A pensarvi bene, non c’è contraddizione fra il fatto che quelle poche parole siano state scritte all’alba, e il fatto che l’uomo che le ha scritte sarà morto prima della fine della mattinata.
Lascia il manoscritto in evidenza sul tavolino dell’anticamera. I quattro compagni lo aspettano in un’automobile nuova acquistata da Morita; Mishima ha con sé la cartella di cuoio che contiene una preziosa sciabola del XVII secolo, uno dei suoi beni più cari; la borsa contiene anche una daga. Strada facendo, passano davanti alla scuola in cui si trova in quel momento la maggiore dei due figli dello scrittore, una ragazzina di undici anni, Noriko: “È il momento in cui, in un film, si sentirebbe una musica patetica,” ironizza Mishima. Prova d’insensibilità? Forse è il contrario. A volte, è più facile scherzare su ciò che sta a cuore che non parlarne affatto. E certo ride, di quel riso breve e fragoroso che gli si attribuisce, e che è tipico di coloro che non ridono fino in fondo. Poi, i cinque uomini cantano.
Eccoli giunti alla meta, l’edificio del ministero della Difesa. Quest’uomo che entro due ore sarà morto, e che, a ogni modo, si propone di esserlo, ha tuttavia un ultimo desiderio: parlare alle truppe, denunciare davanti a loro lo stato nefasto in cui ritiene sia caduto il paese. Questo scrittore che ha constatato l’insipidezza delle parole crede forse che l’eloquenza avrà maggior potere? Indubbiamente, egli desidera moltiplicare le occasioni di esprimere pubblicamente le ragioni della sua morte, affinché non si cerchi, più tardi, di distorcerle o negarle. Due lettere scritte a dei giornalisti, ai quali chiede di trovarsi sul posto al momento stabilito, senza del resto indicarne le ragioni, mostrano come egli temesse, d’altronde a ragione, quella specie di “maquillage” postumo. E, forse, essendo riuscito a infondere un po’ del suo fervore ai seguaci dello Scudo, crede ancora possibile fare altrettanto con le poche centinaia di uomini colà acquartierati. Ma solo il generale comandante in capo può dargli l’autorizzazione necessaria. Col pretesto di fare ammirare al generale la splendida sciabola firmata da un armaiolo famoso, i cinque hanno ottenuto un appuntamento. Mishima giustifica la presenza dei giovani in uniforme con una riunione di gruppo alla quale egli deve successivamente recarsi. Mentre il generale ammira i fregi delicati, quasi invisibili, che solcano l’acciaio levigato, due degli affiliati lo legano saldamente per le braccia e le gambe alla poltrona. Gli altri due e lo stesso Mishima si precipitano a chiudere a chiave o comunque bloccare le porte. I congiurati parlamentano con l’esterno. Mishima esige l’adunata delle truppe cui intende rivolgersi dal balcone. Se il generale rifiuta di dare l’ordine, sarà giustiziato. Si ritiene più prudente accondiscendere, ma durante un tentativo di resistenza, manifestatosi comunque troppo tardi, Mishima e Morita, che tenevano la porta ancora socchiusa, hanno ferito sette subalterni. Sistemi terroristici, e tanto più detestabili per noi che troppo li abbiamo visti in atto, un po’ ovunque, nei dieci anni che ci separano da quell’evento. Ma Mishima vuole approfittare fino in fondo della sua ultima occasione.
Giù, i soldati si radunano, ottocento uomini circa, pochissimo soddisfatti d’esser distolti dalla loro routine o dal loro riposo per quell’inattesa corvé. Il generale attende paziente. Mishima apre la porta-finestra, esce sul balcone, balza, da buon sportivo, sulla balaustra: “Vediamo il Giappone sprofondare nel più assoluto silenzio dello spirito: la prosperità gli ha dato alla testa… Noi stiamo per restituirgli la sua immagine e moriremo facendolo. È possibile che vi accontentiate di vivere accettando un mondo in cui lo spirito è morto?… L’esercito difende quello stesso trattato30 che gli nega il diritto di esistere… Il 21 ottobre 1969, l’esercito avrebbe dovuto impadronirsi del potere e chiedere la revisione della Costituzione… I nostri valori fondamentali, i nostri valori autenticamente giapponesi, sono minacciati… In Giappone, l’Imperatore non ha più il posto che gli spetta…”
Improperi e parolacce salgono verso di lui. Le ultime fotografie lo mostrano con i pugni contratti e la bocca aperta, brutto di quella bruttezza tipica dell’uomo che urla o sbraita, espressione alterata che denota soprattutto uno sforzo disperato per farsi sentire, ma che ricorda penosamente le immagini di quei dittatori o demagoghi, a qualunque fazione o partito appartengano, che da mezzo secolo circa hanno avvelenato la nostra vita. Alle grida ostili si aggiunge ben presto un tipico rumore del mondo moderno: un elicottero, che è stato subito chiamato sul posto, volteggia sopra il cortile, annichilendo ogni cosa con il suo assordante frullare di eliche.
Con un altro balzo, Mishima riguadagna il balcone; riapre la porta-finestra, seguito da Morita che inalbera uno striscione con le stesse proteste e le stesse rivendicazioni, siede a terra, a un metro di distanza dal generale, e compie punto per punto, con assoluto sangue freddo, i gesti che gli abbiamo visto fare nella parte del luogotenente Takeyama. L’atroce dolore fu quello che aveva previsto, quello che aveva cercato di prefigurarsi quando aveva mimato la morte? Aveva chiesto a Morita di non lasciarlo soffrire troppo a lungo. Il giovane cala la sua spada, ma le lacrime gli velano gli occhi, le mani tremano. Non riesce a infliggere all’agonizzante che due o tre orrende ferite alla nuca e alla spalla. “Da’ qua!” Furu-Koga afferra con sicurezza la spada e, con un solo colpo, fa quel che deve. Nel frattempo, Morita si è seduto a terra a sua volta, ma gli manca la forza di farsi, con la daga che è stata ripresa dalle mani di Mishima, qualcosa di più di un brutto graffio. Nel codice samurai, il caso era previsto: il suicida troppo giovane o troppo vecchio, troppo debole o troppo fuori di sé per portare a termine l’operazione, doveva essere decapitato seduta stante. “Colpisci!” E Furu-Koga esegue. Il generale si china quanto glielo permettono le corde che lo stringono e mormora la preghiera buddista per i morti: “Namu Amida, Butsu!” Questo generale, da cui non ci aspettavamo niente, si comporta con grande dignità davanti all’atroce e imprevisto dramma di cui è testimone. “Non continuate questa carneficina; è inutile.” I tre giovani rispondono a una voce che hanno promesso di non morire. “Piangete a sazietà, ma dominatevi quando si riapriranno le porte.” Riprensione un po’ aspra, ma più opportuna, di fronte a quei singhiozzi, dell’ordine brutale di non piangere. “Coprite pietosamente i corpi.” I giovani ricoprono la parte inferiore dei corpi con la giubba dell’uniforme, e sistemano, sempre piangendo, le due teste mozze. Infine, domanda più che comprensibile da parte di un capo: “Volete che mi faccia vedere dai miei subalterni legato a questo modo?” Il generale viene slegato; si aprono le porte; i giornalisti si precipitano nella stanza in cui aleggia un acre odore di carneficina… Lasciamoli fare il loro lavoro.
Volgiamoci dalla parte del pubblico. “Era pazzo,” dice il primo ministro, interrogato seduta stante. Il padre ha appreso le prime notizie, relative all’arringa alle truppe, ascoltando il comunicato radio di mezzogiorno; la sua reazione è stata quella, tipica, di tutte le famiglie: “Quante seccature mi procurerà questa storia! Bisognerà fare delle scuse alle autorità…” La moglie, Yoko, è stata raggiunta dalla notizia della morte a mezzogiorno e venti, nel tassì che la portava a una colazione. Interrogata più tardi, risponderà che il suicidio del marito non la coglieva di sorpresa, ma che se lo sarebbe aspettato uno o due anni più tardi. (“Yoko non ha fantasia,” aveva detto un giorno Mishima.) Le uniche parole commosse vengono pronunciate dalla madre, quando riceve i visitatori venuti a rendere omaggio. “Non compiangetelo. Per la prima volta in vita sua, ha fatto ciò che desiderava fare.” Esagerava, certo, ma Mishima stesso aveva scritto, nel luglio 1969: “Se rivivo col pensiero gli ultimi venticinque anni, il loro vuoto mi riempie di orrore. Posso appena dire di aver vissuto.” Anche nel corso della vita più eccezionale e gratificante, ciò che si vuole realmente fare di rado viene compiuto, e, dagli abissi o dalle sommità del Vuoto, ciò che è stato, e ciò che non è stato, sembra ugualmente sogno o miraggio.
C’è una fotografia della famiglia seduta su una fila di sedie durante la cerimonia di commemorazione funebre che, nonostante una quasi generale disapprovazione del seppuku, attirò migliaia di persone. (Sembra che quel gesto violento avesse profondamente sconcertato certa gente passivamente uniformata a un mondo che le appariva senza problemi. Prenderlo sul serio, sarebbe stato rinnegare una supina acquiescenza alla sconfitta e al progresso della modernizzazione, così come alla prosperità che era seguita. Meglio non vedere in quel gesto che un misto assurdo ed eroico di letteratura, teatro e bisogno di far parlare di sé.) Azusa, il padre, Shizue, la madre, Yoko, la moglie, avevano certamente ciascuno il proprio giudizio e la propria interpretazione. Li si vede di profilo, la madre con la tésta un po’ china, le mani giunte e un’espressione che il dolore fa sembrare imbronciata; il padre ben dritto, in atteggiamento signorile e composto, probabilmente consapevole d’esser fotografato; Yoko, graziosa e impenetrabile come sempre; e, più vicino a chi guarda, sulla stessa fila, Kawabata, il vecchio romanziere che aveva ricevuto il Nobel l’anno prima, amico e maestro del defunto. Quel volto emaciato di vecchio è di un’estrema purezza; la tristezza vi si legge come sotto un foglio traslucido. Un anno dopo Kawabata si suicidava, senza alcun rito eroico (si accontentò di girare la chiavetta del gas), e qualcuno lo sentì dire, durante l’anno, di aver visto il fantasma di Mishima.
E ora, tenuta in serbo per la fine, l’ultima immagine e la più traumatizzante; così sconvolgente che è stata raramente riprodotta. Due teste sul tappeto sicuramente in acrilico dell’ufficio del generale, messe una accanto all’altra come birilli, così vicine che quasi si toccano. Due teste, due bocce inerti, due cervelli che il sangue più non irrora, due computer bloccati, che non selezionano e non decodificano più il flusso ininterrotto di immagini, impressioni, sollecitazioni e risposte che ogni giorno a milioni investono un essere, formando tutte insieme quella che si chiama la vita dello spirito, e anche quella dei sensi, e motivando e dirigendo i movimenti del resto del corpo. Due teste mozzate, passate ormai in altri mondi in cui regna un’altra legge, e che a guardarle suscitano sbigottimento più che orrore. Ogni giudizio di valore, sia esso morale, politico o estetico, in loro presenza, momentaneamente almeno, è ridotto al silenzio. La nozione che s’impone è più sconcertante e più semplice: fra le miriadi di cose che sono, e che sono state, queste due teste sono state; e sono. Ciò che riempie quegli occhi senza sguardo non è più lo sventolante vessillo della protesta politica, né alcun’altra immagine intellettuale o materiale, e neppure il Vuoto contemplato da Honda, e che appare, improvvisamente, solo come un concetto o un simbolo tutto sommato troppo umano. Due oggetti, relitti già quasi inorganici di annientate strutture, che anch’essi, una volta passati attraverso il fuoco, saranno ridotti a residui minerali e cenere; neppure soggetti di meditazione, perché ci mancano i dati per meditare su di essi. Due relitti, sospinti dal Fiume dell’Azione, e che l’immensa ondata ha lasciato per un attimo in secca sulla sabbia, e poi trascina via.
Tratto da: Marguerite Yourcenar, Mishima o la Visione del Vuoto, Bompiani
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