Ci sono voluti quarant’anni perché Boris Pahor fosse conosciuto in Italia. Ci sono voluti decine di libri stampati all’estero, una Légion d’honneur, premi negli Stati Uniti, traduzioni in inglese, tedesco, francese, persino esperanto e finlandese. Troppo a lungo non si è saputo che nella città di Trieste c’era un grande scrittore in quella lingua slovena che il fascismo ha invano tentato di cancellare con la forza. Necropoli, dedicato alla prigionia nei Lager nazisti, ha fatto conoscere questo autore ormai novantacinquenne (il libro è del 1967). Giunto all’età di 95 anni, Pahor vede finalmente la sua opera acclamata come capolavoro anche in Italia, il Paese in cui è nato ed è sempre vissuto. Nato nel 1913 a Trieste, studia nei seminari di Capodistria e Gorizia, senza completare gli studi teologici, che abbandona nel 1938. Nel 1940 viene arruolato e mandato in Libia e poi assegnato a un campo di prigionia per ufficiali jugoslavi a Riva del Garda. Tornato a Trieste dopo l’armistizio, aderisce al Fronte di Liberazione Nazionale Sloveno. Viene arrestato e consegnato alla Gestapo, che lo manda a Dachau. Da lì sarà internato nei campi di Natzweiler-Struthof, Hartzungen e Bergen- Belsen, dove riesce a sopravvivere grazie anche ai suoi compiti di infermiere. Nel 1966 torna, con una comitiva di turisti, al lager di Natzweiler-Struthof, nei Vosgi. Quella visita innesca la memoria e ne viene fuori il capolavoro dello scrittore. Attraverso lo sconcerto del ricordo, la narrazione si svolge nel breve ma interminabile tempo della passeggiata che l’autore compie nel “suo” campo, divenuto oggi meta turistica. Pahor si scopre all’improvviso geloso custode di «uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi non potranno mai penetrare nell’abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana». Scrive nel libro: «L’umanità ha sempre un certo numero di propri membri che vanno in pellegrinaggio, che visitano tombe e santuari, e di solito queste persone vengono considerate le migliori, le più nobili; ma nessuno può assicurarci che grazie a queste anime buone la storia dell’uomo possa migliorare. La mia impressione è che i cuori pietosi accompagnino semplicemente lo sviluppo degli eventi, senza provocarli; salici piangenti che si incurvano sul luogo in cui, dopo uno sterminio muto o fragoroso, si è distesa una quiete infinita»(p. 135). La quiete che regna nel lager-museo è appena turbata dalle parole dell’anziana guida: «Magari è solo un pensionato che, con questa occupazione, rimpingua il suo reddito, ma preferisco immaginarlo come uno degli ex abitanti di questa dimora perduta. Così, quando entra con la gente nella baracca, mi pare di essere una spia che si aggiri lì intorno alle mura esterne per sorvegliare, in nome di compagni invisibili, questo signore incaricato di parlare per conto delle lingue ammutolite. La sua voce nell’inferno della prigione è sobria e seria; parla in un modo che non mi ripugna: adagio, senza enfasi ciceronica, con cosciente attenzione affinché le parole aderiscano alle immagini» (p. 135). Ma Necropoli è una riflessione sull’impossibilità di capire quella storia e sulla nostra incapacità di comprendere. Libro intenso e tragicamente poetico, animato dal bisogno di affermare il diritto di ogni essere umano alla sua inalienabile libertà. Una sorta di tentativo di proteggere la memoria del dolore indicibile, ma anche la consapevolezza della necessità che quanto accaduto diventi pubblico, perché il mondo sappia e faccia in modo che non accada più. «Ma perché? Perché l’aureola di eroi per quelli che caddero col fucile in mano o aggrappati alla mitragliatrice, e un ricordo appena accennato, se non il silenzio assoluto, per quelli che furono rosi dalla fame? Perché vi siete sbarazzati in modo così arrogante di un ospite sgradito? Chi nella retroguardia rendeva possibile la battaglia al combattente non era forse eroico quanto il ribelle armato? Non era addirittura più eroico, dal momento che, una volta catturato, poteva confidare soltanto nella propria forza di carattere, mentre l’eroe che adesso è coronato di gloria aveva tra sé e il corpo del nemico un’arma da fuoco con cui sostenere il proprio coraggio? Perché due pesi e due misure? E se è vero che alcuni si comportarono male, e perfino collaborarono con gli sterminatori, perché dovrebbe ricadere un’ombra maligna su tutta la moltitudine dei morti e sui pochi superstiti? Ma colpevoli siamo anche noi, noi reduci, perché non abbiamo reagito. Delusi dal mondo del dopoguerra, ci siamo raggomitolati in noi stessi e allontanati in punta di piedi verso paesi abbandonati dove dalla terra piagata cresceva zizzania. Avremmo dovuto parlare non solo in nome dei compagni diventati cenere e del nostro onore, ma ancor più per sottolineare l’importanza della nostra abnegazione, che appartiene, come e più dell’abnegazione sul campo di battaglia, al tesoro dell’esperienza umana». (pp. 232-233). Con lucidità analitica, spietata e pur poetica, Pahor ci fa vedere le terribili sofferenze per la fame e il freddo, le infinite umiliazioni per le percosse e gli insulti, la pena profondissima per quanti, la maggioranza, non ce l’hanno fatta. Così si snodano le vicende che parlano di un orrore che in nessun modo si riesce a spiegare e che pongono ancora oggi tanti, troppi interrogativi senza risposta di fronte alle responsabilità di un popolo come quello tedesco che tanto ha dato alla cultura e alla musica. «A ogni modo, so per esperienza quanto piaccia ai tedeschi unire il mostruoso alla musica. La fanfara a Dora, l’orchestra sui nostri ripiani morti. Le note agiscono su di loro come un narcotico particolare. Una specie di hashish, che prima suscita visioni fantastiche, poi eccita l’organismo fino al furore e alla pazzia. Si dovrebbe ricercarla davvero l’origine di questa disumanizzazione, perché le spiegazioni economiche e sociologiche non bastano; e neppure la teoria delle razze di Gumplowitz o i libri di Friedrich von Gagern» (p. 244). Tra i nitidi ricordi di rabbia e di dolore che accompagnano la visita al campo di concentramento, nelle baracche trasformate in museo, Pahor rivede anche i tanti episodi di solidarietà tra prigionieri, di una umanità mai del tutto sconfitta, di un desiderio di vivere che non si è mai spento completamente. I racconti si intrecciano coi ricordi di una vita intensa, imprigionata dalle maglie di troppe libertà negate e dal bisogno di affermare il diritto di ogni essere umano alla sua inalienabile libertà. Afferma Pahor in una intervista: «E ancora il dramma della non libertà: in quegli anni Trieste, oltre a Berlino, è il luogo in cui si è giocato con maggiore ferocia lo scontro tra Oriente e Occidente». Convinto sostenitore del dialogo tra le culture, Pahor è da sempre anche un fermo difensore dell’identità dei popoli. Un’identità basata sulla cultura. E questo gli sloveni hanno imparato a farlo sopravvivendo a una storia che da sempre ha cercato di assorbirli e omologarli: prima la germanizzazione dell’Impero Asburgico, poi il Fascismo e l’Italianizzazione forzata e infine gli anni iugoslavi. Nel 1975 Pahor pubblica, assieme all’amico triestino Alojz Rebula, il libro Edvard Kocbek: testimone della nostra epoca, dedicato al dissidente nel regime comunista jugoslavo. Il libro provoca durissime reazioni da parte del governo jugoslavo. Le opere di Pahor vengono proibite nella Repubblica Socialista di Slovenia e a Pahor viene vietato l’ingresso in Jugoslavia. Per Pahor l’Europa è una vecchia stanca che nel dopoguerra si è lasciata applicare occhi di vetro «per non spaventare i bravi cittadini con le sue occhiaie vuote». L’uomo europeo, ogni tanto, prova vergogna per questa sua situazione, ma esso ha già abbondantemente «scialacquato in anticipo il patrimonio di onestà e di giustizia che avrebbe dovuto trasmettere alle nuove generazioni».
Testo di: Claudio Magris, prefazione e Necropoli di Boris Pahor