Tento di dare un’opinione-pirata. Non ho prove provabili, ma ho il senso del pericolo, in comune con tutti gli animali. Uno di questi è la talpa di un celebre racconto di Kafka. «Si crede di essere in casa propria, in realtà si è nella loro». Esempio strategico pregnante: la linea Maginot aggirata, nel 1940; in quel momento i tedeschi erano già a Parigi. Ebbe inizio una convivenza tragica, finché la talpa si riscoprì uomo.
Un elementare senso del pericolo (territoriale, identitario, genericamente nazionale, e in questo caso anche religioso) dovrebbe suggerire la semplice idea che, quando gli sbarchi sulle coste italiane diventano di migliaia, si pone un problema di difesa militare. Quello che è strano, in questo dramma dell’assurdo, è che si invochino aiuti e scatti di alleanze per prenderne sempre di più, per predisporre modi di accoglienza e non per stabilire e proteggere – umanamente ma fermamente – un confine militarmente invarcabile. Se Israele accogliesse tre o quattromila palestinesi, Gerusalemme, il supremo esito del 1967, sarebbe subito, com’è già in parte, casa loro. Non si danno vuoti disoccupati, né occupazioni innocenti o neutre. Gli stessi Stati Uniti temono e sempre più, inesorabilmente, temeranno, l’occupazione ispanica, che ha messo l’Arizona (immensa Lampedusa) in legittima fibrillazione.
Un senso di inconscio risveglio dell’istinto difensivo mi pare di leggerlo in questa perdurante spontanea esposizione del tricolore. C’è come un grido silenzioso dell’anima profonda. Queste bandiere non celebrano un passato, ma sono talpa che non vuole diventare casa loro e grida aiuto. Ma a chi, se nessuno comprende?
L’orecchio nella pulce è che questa cadenzata partenza tunisina di una flotta da sbarco squisitamente islamica (compresi eritrei e somali), sia stata pianificata, per l’occasione prevista della rivolta tunisina, resa magnifica dalle imprevedibili rivoluzioni che scuotono il Magreb e tutta l’Arabia, e hanno schiodato Israele dal suo ruolo fisso di centro di una «questione mediorientale» stanca di essere diventata uno sgangherato luogo comune.
Pianificata: non si sa da chi, ma abbiamo, credo, dei servizi segreti con antenne riceventi mondo, in grado di saperlo, se le cose stessero così. Il mio non è che un sospetto fondato.
Il popolo che sbarca è di uomini validi, tra i diciotto e i quaranta, che pagano un esoso biglietto. Le donne sono rare ed è facilissimo metterne qualcuna per la commozione, possibilmente incinta, in Paesi dove né le donne né i bambini contano troppo. In qualità di profughi da guerre, lo scenario di guerra è da trovare. Le folle di veri profughi le conosciamo: prevalgono le donne e i bambini, ci sono immagini strazianti di vecchi che si trascinano… Qui l’anomalia è sbadigliante: di vecchi neanche l’ombra, e di aneliti a trovare lavoro non ce n’è spreco. Allora, c’è un plausibile scopo? Portare scompiglio politico e sociale in una Italia afflitta da sgoverno cronico? Saldarsi ad una comunità religiosa islamica preesistente già forte di voce, e da tempo? Azione in vista di un sogno, che potrebbe prendere corpo, di califfato europeo in cui l’europeo autoctono diventerebbe dhimmi (cristiano o ebreo tollerato, pagante tassa)? Italia come prima e più fragile preda?
Insediamenti destinati a fissarsi, di cui una o più mafie sarebbero pronte ad approfittare? Rendere incontrollabile (del resto, già lo è) la spesa assistenziale di uno Stato ad economia sbaraccante? Puoi pensarle tutte. La verità, nelle predicazioni unanimemente buoniste, è certamente impossibile trovarla.
Un pescatore di Lampedusa ha detto, all’inviata di una radio, un lapidario «siamo in guerra» (senza il come) che riassume bene la situazione. I danni alle barche e le aggressioni per rapina non invogliano la gente ad offrire il pane e il sale. E la soluzione del governo, dominato dai vantoni celoduristi della Lega, e promossa dal loro stesso ministro dell’Interno, è sconcertante: lo sparpagliamento lungo tutta la penisola della promettente piena umana in arrivo mediante una flotta di mezzi navali. L’identificazione delle singole persone essendo impossibile e scarso all’estremo il giubilo degli italiani, le isole concentrazionarie previste si possono fin da adesso configurare come disastri di una guerra senza combattimenti, inaudita finora nella storia del Centocinquantenario. Un paragone classicissimo è la faccenda del cavallo di legno che sorprese l’eccessiva credulità dei poveri Troiani, che per metterselo in casa avevano addirittura squarciato le mura.
Difficile, più che mai, capire; ma intelligere è essenziale. E una volta compreso prendere decisioni giuste è difficilissimo. Volerle giuste e umane, e insieme battere un nemico oscuro, un’armata disarmata, che ha per unica micidiale arma il numero, è una canzone di gesta.
Testo di Guido Ceronetti, articolo pubblicato il 05/04/2011 sul quotidiano la Stampa
Join the Discussion