“I problemi che oggi ci interessano o dovrebbero interessarci maggiormente non sono quelli della fotografia in quanto arte, bensì dell’importanza che l’immagine fotografica ha oggi nel contesto della nostra vita”.
Così scriveva Antonio Arcari nel marzo 1968, prego considerare bene la data. A quell’epoca Arcari, grande e troppo dimenticato studioso, critico e docente della fotografia italiana, insegnava ai corsi dell’Umanitaria, la storica, insolita istituzione milanese nata nel 1893 come filantropia pedagogica socialisteggiante. Una scuola professionale (grafica e mestieri del libro) di qualità, una singolare Bauhaus italiana, in cui la fotografia ebbe via via un ruolo sempre più importante, specialmente dal 1954 quando vennero avviati i primi corsi di comunicazione visiva e fotografia industriale, sotto l’egida di docenti come Michele Provinciali (che aveva studiato proprio alla New Bauhaus di Chicago) e Albe Steiner. Dal ’68 l’Umanitaria uscì travolta e malconcia, ma la sua eredità appartiene oggi al Cfp Bauer (intitolato a Riccardo Bauer, antifascista azionista direttore dela scuola dalla Liberazione), che festeggia i suoi sessant’anni di vita con una mostra retrospettiva che parte proprio da quegli anni e arriva alle attività didattiche di oggi. Il materiale non mancava. Era una consuetudine, all’Umanitaria, la mostra di fine anno degli studenti. Era il momento in cui la particolarità della scuola si vedeva tutta. Arcari nei panni di art director vagliava, sceglieva, bocciava. Gli studenti capicano che la fotografia con cui avevano lavorato non era un bel quadretto narcisista. Era un’altra cosa, un’immagine che nasceva dalla società e dalla società dipendeva.
Era proprio quello che la cultura crociana di quell’epoca le negava risolutamente il permesso di essere. La condanna alla subalternità che Croce aveva calato sulla fotografia era implacabile: “Se la fotografia non è del tutto arte, ciò accade appunto perché l’elemento naturale resta più o meno ineliminabile e insubordinato: e, infatti, innanzi a quale fotografia, anche delle meglio riuscite, proviamo soddisfazione piena?”. Bene, nella scuola milanese si coltivavaper l’appunto, con entusiasmo apertura e curiosità, quell’elemento insubordinato, naturale, sociale, che fa resistenza all’arte. “A volte dalla camera oscura uscivano cose selvagge”, ha ricordato Fabrizio Celentano in un bel libro dedicato dal MuFoCo agli scritti di Arcari. Convinti che sì, è vero, quell’elemento naturale fa resistenza alla volontà creatrice, ma in fondo è la stessa sana resistenza che impone a tutte le nostre azioni “la strumentazione tecnica dell’uomo, cioè l’occhio, la mano, i muscoli”. Per creare qualsiasi cosa, un affresco come un tavolino, noi non lottiamo contro la resistenza dei muscoli, ma collaboriamo con i loro limiti. Con la fotografia è lo stesso: si tratta solo di comprendere i limiti e i punti di rottura, le malleabiulità e i fattori di stress di una cosa che è solo la materia prima di un oggetto visuale, che dovrà essere efficiente, utile, intenzionato.
L’intuizione crociana ne soffriva? Peggio per lei. La fotografia, all’Umanitaria, era materia plastica della relazione umana organizzata in forma. E quindi materia della società, e della vita. Per chi volesse capirlo. La fotografia di una conchiglia, di un vaso, di un paesaggio urbano, non saranno mai semplicemente la messa in forma di un’intuizione. Non è questo che la fotografia fa alle nostre vite e nelle nostre vite. Ad Arcari e ai suoi colleghi non piaceva essere etichettati come “i nemici dell’arte”. Di fatto anche loro pensavano che la fotografia fosse un linguaggio in partenza formalizzato e codificato (cosa che, ormai, abbiamo capito non essere). Ma usavano quel linguaggio per fare cose. Certo, era una scuola professionale. Le cose che insegnava a fare erano, essenzialmente, prodotti. Editoriali, comunicativi. Efficienti utili e funzionali. Il rischio di cadere dalla padella dell’arte per l’arte alla brace della subordinazione alle pure e semplici convenienze del mercato era reale, e io credo avvertito in quel corpo docente fatto di intellettuali impegnati, orientati a sinistra, spesso militanti.
Oggi il Bauer è cosa diversa, e anche la fotografia è cosa diversa. Ma la lezione di quegli anni, in cui pure il rasoio ideologico era a volte troppo affilato, dovremmo un po’ ripulirla e rileggerla. L’idea di fotografia come campo visuale della relazione sociale e non come disciplina artistica. La materialità della fotografia (che il digitale non ha per nulla dissolto). Il laboratorio come pratica di lavoro collaborativo anziché pensatoio del genio. L’immagine come progetto per uno scopo, per un destinatario, oggetto che completa il suo senso solo quando viene appreso e usato. La fotografia come formazione culturale. Ho come l’impressione che alcune di queste cose siano ancora indigeste a un pezzo non piccolo della cultura fotografica attuale.
Testo di Michele Smargiassi
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