L’ultimo articolo di Guido Piovene, uscito postumo («Il Giornale», 17 novembre 1974) era dedicato alle fiabe di Perrault. L’edizione einaudiana di cui parla Piovene, curata da Calvino, non l’ho vista, ma dei Contes di Perrault ho una elegante e un po’ fredda edizione di Skira, e li avevo ripercorsi prima di tentare, con mani profane, di costruire anch’io una fiaba, a più piani, circa due anni fa. Ci ritorno adesso, per qualche corta riflessione, che dedico all’ombra scettica e curiosa, di scrutatore dell’al di qua che attiravano i nessi invisibili, di Guido Piovene.
Cenerentola è la storia da lui esaminata più da vicino, con l’attenzione concentrata di un proprio presentimento di morte, a colpi di luce sbieca: «Il mondo in cui Cenerentola vive rivela un retroscena orrendo, che non butta fuori soltanto gioielli, fiori e scarpine di vetro, ma anche animali ripugnanti; tra poco chissà quale mano li annegherà nell’acqua bollente». È vero, ma il retroscena orrendo è una regola, nelle fiabe. E una loro caratteristica parallela è il retroscena splendido: dietro la Testa d’Asino c’è un’adorabile principessa, dietro la Bestia un principe degno della Bella. Il rapporto s’inverte di continuo, e quale sia la vera realtà non è rivelato, perché la rivelazione fiabesca consiste essenzialmente nell’incessante negazione di una realtà in favore di un’altra che la rovescia; «nella vittoria» dice Cristina Campo «sulla legge di necessità».
L’utilità suprema delle fiabe, nell’età infantile, è in questo: insegnare agli esseri sensibili a dubitare di quello che vedono e toccano, dell’identità delle persone, della solidità di una casa, dell’impossibilità di una metamorfosi. Allontanare i bambini dal visibile, facendogli sperare che sia falso, è la cosa migliore che possiamo fare per loro, dopo il male che gli abbiamo fatto chiamandoli in questo mondo. Per gli adulti, che adoperano la fiaba come aggiunta culturale, sovrapponendo ai pesi del razionale che già gli tocca sollevare anche un irrazionale svuotato e riempito d’altro, niente da fare.
Poiché le fiabe hanno sovente più versioni, e vengono di lontano, è utile confrontarle. Cenerentola e Cappuccetto Rosso sono notevolmente diverse, in Perrault e nei Grimm. La metamorfosi magica di Cenerentola è molto scarna nei Grimm: la derelitta riceve abiti e scarpine da un uccellino bianco, che ascolta i suoi pianti vicino alla tomba di sua madre, e torna a casa affrettatamente, però ad un’ora imprecisata. Il retroscena orrendo non manca neanche lì, solo c’è un modo meno nitido di collocarlo e farlo sentire. Perché il padre butta giù i nascondigli sospetti di Cenerentola, la colombaia, il pero, dove non c’è nessuno? Il finale di Perrault, artista ispirato e crudele, è edificante, con le due perfide sorelle perdonate e maritate «a due grandi signori della corte», mentre i buoni Grimm ne tramandano uno feroce: le due sorelle rese cieche dalle beccate simmetriche delle colombe amiche di Cenerentola, «mentre gli sposi andavano in chiesa».
Dei due Cappuccetti, il perraultiano splende per l’olimpica crudezza della sua chiusa: «Il malvagio lupo si gettò sulla piccola Cappuccetto Rosso e la mangiò». I Grimm aprono la pancia del lupo, ne escono Cappuccetto e la nonna, il lupo crepa. C’è anche uno strascico: poco tempo dopo un altro lupo insidia Cappuccetto, e finisce male come il primo.
Il significato erotico della storia, nelle intenzioni di Perrault, sembra indubitabile. Cappuccetto è un’ingenua Justine della cui virtù fa scempio un lupo che, sotto la pelle lupesca, cela imparruccata pedofilia. Una volta preso il posto della nonna, invita Cappuccetto a coricarsi vicino a lui. Qui Cappuccetto ha l’immediata rivelazione di certe stranezze che la nonnina nasconde sotto la camicia da notte. Lo stupore per le braccia e le gambe troppo grandi viene dopo quel primo, e massimo, stupore. Subito dopo finisce mangiata, sgranocchiamento sul quale la Morale in versi fornisce chiarimenti sicuri, raccomandando alle jeunes demoiselles di stare attente, perché ci sono in giro troppi lupi con l’idea fissa di divorarle.
Nei testi si trova a volte et la croqua, a volte mangea. Perrault ha sicuramente usato croquer, più salace e preciso, perché si diceva croquer une fille per indicare la cosa nella sua cannibalica brutalità. L’onomatopea fa sentire il possesso fino all’osso, il dannato penetrare et abire in corpus corpore toto.
Questo lupo perraultiano ha un’interessante somiglianza col celebre abate Choisy, che sua madre nell’infanzia vestiva da femmina perché piacesse al duca di Orléans, e cresciuto adorava travestirsi da donna, otteneva come gran dama la fiducia delle famiglie e invitava a passare una notte innocente sotto il suo baldacchino i Cappuccetti più mangiabili e qui le mangiava così bene che le povere vittime chiedevano, quasi sempre, di essere mangiate di nuovo. Forse Perrault ha avuto in mente l’abate, suo contemporaneo, lupo e nonna.
La versione dei Grimm è meno aristocratica e perversa, anche se il substrato tenebroso è piuttosto evidente nell’episodio del secondo lupo, che medita di seguire Cappuccetto per la strada, di sera, «per mangiarsela al buio». Si direbbe Peter Kürten che conduce per mano la piccola Maria Hahn nel bosco di Pappendelle… La scena al letto della nonna è casta. Il cacciatore, in apparenza espediente per un fine lieto, mi sembra un personaggio-chiave per aprire l’enigma di Cappuccetto Rosso.
Una pura essenza luminosa, divorata con astuzia da potenze tenebrose, viaggia penosamente attraverso la materia, invocando un liberatore dall’alto che la tiri fuori dall’orrore di quella notte peristaltica, per ricondurla integra al suo soggiorno primitivo. Il Signore della Luce ascolta il suo lamento e manda una parte di sé, incarnata in un Messaggero potente, a liberarla. Questo mito segreto, riconoscibile sotto travestimenti senza numero, è il perno rotante della gnosi ellenistica e manichea.
La parabola di Cappuccetto Rosso ci sta dentro perfettamente. Cappuccetto appartiene al mondo della Luce; il Lupo, tenebroso arconte, Zodiaco malefico, abita nel bosco, nella «selva oscura» dove si è perduto, nel Trecento, anche un Cappuccetto Rosso coi capelli neri e crespi che rimava in toscano: una lonza piena di schianze, un leone e una lupa lo riempiono di paura, ma un messaggero celeste, travestito da Virgilio, sarà il suo cacciatore tagliapance-di-lupo. Perciò il vero finale della storia è l’uscita grimmiana dalla pancia del lupo, dall’inferno della materia. Il puro divoramento, ribaltato in chiave metafisica, rivelerebbe un pessimismo assoluto, il trionfo della Tenebra, che mangia e digerisce τó ϕῶς.
Il Lupo è anche un antichissimo simbolo del Tempo e ogni demone maligno è lupo. «Liberaci dal lupo…». Il coltello del Cacciatore libera dal Tempo e dai demoni. La nonna potrebbe significare un’antica saggezza che la Tenebra ha inviscerato per fingere una somiglianza con la Luce e attirarne altri frammenti nella sua pancia. Le Temps mange la Vie… Il Tempo è così lupo perché, forse, il lupo è il Tempo, tutto gola, voracità, rapina. Per il mio caro Dizionario Idio-etimologico dell’abate Latouche, che fa derivare dalle semitiche un mucchio di parole greche, il lupo greco verrebbe dalla stessa radice semitica di balà, azione di divorare, assorbire, distruggere, sterminare. Il lupo fa ammutolire (lupus in fabula) perché il Tempo ingoia tutte le nostre voci. Zeus Liceo è un semiticissimo divoratore di bambini, dopo avere trasformato in lupo il primo uomo che gliene ha offerto uno, e il suo simbolo è una pietra bruta, come quella su cui Giacobbe, in Genesi 28, ha la visione della scala. I «lupi della sera» in Zefania e Abakuk sono più demoni del deserto, divoratori senza fame, che lupi d’ululato. Il lupo della favola è così poco un animale che può assumere quando e come vuole la forma umana: è un Dio che s’incarna, ominizzandosi e lupizzandosi. Una delle cose più strane nella storia del lupo mannaro in Petronio sono gli abiti del soldato-versipellis che si trasformano in pietre, come il segno del Dio semita. Ma come hominarius il lupo è l’immagine dello spavento assoluto, la sua ambiguità ne spinge all’eccesso la pericolosità e la ferocia; e ancora l’ominarietà lupina è la mescolanza di Luce e Tenebra che forma propriamente la natura umana.
Per le fiabe più radicate, dove c’è un impianto ricorrente, consiglierei un mazzo di almeno cinque chiavi: una greco-misterica, una gnosticomanichea, una bramanica, una druidica, una eddica. Un unico anello sapienziale originario le tiene insieme. A chi rifiuta la dottrina della trasmigrazione delle anime la fiaba è muta.
Si è versato, là sopra, molto vetriolo geloso, un rigido coprifuoco è stato imposto nelle libere città del mito. Dei lampi di verità strane e paradossali che ci hanno nutriti, come una scienza di antipodi, soltanto rare schegge corrose, perle dei maghi cadute nella storia dei popoli e congelate come tradizioni popolari, parabole incontrate per caso o destino da scrittori semplici o maliziosi, hanno passato il muro. Guardo con commozione alle fiabe perraultiane, che sono poche e misteriosamente scelte tra quelle dov’è più forte il segno del dualismo manicheo; hanno l’aria di scampati alla crociata di Simone di Montfort e ai roghi dei Califfi, di naufraghi crostosi, scoperti e magicamente rivestiti d’oro e d’argento, come Cenerentola, per una festa nei giardini di Versailles.
I miti manichei, che abbiamo in frantumi, dall’Occitania alla Cina, potrebbero comporre un dagherrotipo credibile del padre vero di Cappuccetto Rosso, di Barbablù, di Cenerentola, di Testa d’Asino… Le contrapposizioni violente di Bene e Male, nella fiaba, corrispondono drammaticamente ai Due Principii della metafisica dualista più refrattaria; il «retroscena orrendo» di Piovene è la consueta pittura gnostico-manichea della Materia e del suo Signore. Le donne scannate di Barbablù sono anime prigioniere nel castello maledetto del Princeps Tenebrarum, prima che il Messaggero la liberi con un bacio Psiche dorme in un bosco e in un regno pietrificati, le traversie di Griselda e di Testa d’Asino sono prove di viaggio dell’anima espiante e trasmigrante. Pollicino, altro smarrito della «selva oscura», altro cercatore della «via», ha invece una origine bramanica: l’Uomo alto un pollice è l’Abitatore del corpo, l’Atman-Brahman, lo Spirito Assoluto. Nella Fatina Azzurra di Pinocchio, Elémire Zolla ha riconosciuto i tratti della Vergine di Luce, la Sapienza salvatrice.
La ricerca dei simboli sessuali è sempre interessante: i topi vivi che la trappola non uccide, e che diventano (specialmente uno «barbuto», che farà da cocchiere) servi di Cenerentola «per un tempo limitato», la scarpina di vetro che il «piede» dovrà infilare alla perfezione, l’anello di smeraldo di Testa d’Asino fatto per un solo dito, meritano riguardi. Un misterioso segnale erotico (che non esclude il senso esoterico di caduta nella materia) viene dal «fuso» la cui punta ferisce la Bella Addormentata. La mano perforata da questo fuso molto simile a Priapo e a Baal-Peor è la via aperta al sonno mortale dell’anima nel ciclo delle nascite e delle morti, che l’Inviato celeste scardinerà. Il seguito della storia è forse un’antichissima contaminazione: la madre-orchessa che vuole divorare i figli della Bella risvegliata e poi la nuora stessa è probabilmente un’altra figura del Lupo-Tempo divoratore o del Principe delle Tenebre, la cui fame è senza fine. All’interno della fiaba la contesa fra il Tremendo Rischio e il Mistero della Salvezza è perpetua. Anche questo nega risolutamente l’umiltà delle sue origini. La fiaba viene dall’alto.
Tratto da: Guido Ceronetti, La carta è stanca
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