… l’oiseau de paradis funèbre des Locomotives…
LÉON-PAUL FARGUE
1
Nel 1602 il treno nacque a Newcastle sulla Tyne. Lungo una strada ferrata in pendio scivolavano dolcemente al fiume i carrelli pieni. Nel secolo XVIII c’erano già intorno a Newcastle una ventina di piccole linee ferroviarie che portavano il carbone ai velieri e ai barconi.
Una miniera di carbone è una culla triste: un fiocco nero, grandi veli di polvere nera, un uomo annerito che scava scava. La storia di quelle che chiamano oggi le fonti energetiche è lugubre e sporca. Non dobbiamo dimenticare che quel che esce dal sottosuolo ha un rapporto di sangue con le potenze, tradizionalmente non buone, del sottosuolo. La loro faccia si vede di rado, ma il veleno dell’energia è una testimonianza visibile che fa riflettere. Un giorno la locomotiva correrà sulla strada ferrata; la guiderà l’onesto e geniale George Stephenson, un uomo vissuto nell’unico e monotono pensiero della locomotiva. Ma chi vide mai il vero fuochista? Chi si nascondeva nell’anima del carbone che la macchina sovranamente bruciava, scriteriata amante, correndo a venti chilometri l’ora da Stockton a Darlington, da un mucchio di carbone a un altro mucchio di carbone, preceduta da un battistrada a cavallo, il 27 settembre 1825?
La macchina aveva un christian name simpatizzante con la propria funzione, Locomotion, e fu salutata alla partenza da ventun colpi di cannone; il percorso (40 km) fu coperto in tre ore. Una lapide, a Stockton, ricorda il primo biglietto ferroviario venduto a un passeggero, marking an epoch in the history of mankind. Ma storia dell’Umanità è una sonorità preoccupante. Hanno la mania di fare storia, di segnare tappe fondamentali, ogni giorno ne segnano due o tre… E la Storia del Mondo cambiò all’improvviso… Non negherò che un biglietto ferroviario basti a metterne il corso su binari completamente nuovi, ma che cos’è una storia che cambia per un biglietto ferroviario?
I bruchi carboniferi generano altre farfalle nere. La Honesdale-Carbondale, in Pennsylvania, è la prima linea americana a vapore (1829). Qui Locomotion si chiamava il Leone di Stourbridge e fu il primo e unico leone che, dopo diecimila Eoni, videro i boschi della Pennsylvania. Nella valle della Loira cominciano a circolare, nel 1827, convogli a cavalli su strada ferrata, tra Pont-del’Ane e Andrezieux, nel bacino della grande tristezza mineraria di Saint-Étienne. In Italia, non potendo la ferrovia essere generata dal carbone, ne fu padre l’istinto marziale dei napoletani: Ferdinando II fece la Napoli-Portici per collegare l’arsenale di Castellammare con le truppe costiere. I piemontesi inaugurarono il primo tronco della Torino-Genova, tra Porta Nuova e Trofarello, il 24 settembre 1848; e anche in questi piani Vulcano riceveva da Marte le commissioni.
Il primo impiego militare delle ferrovie fu infatti dovuto al Piemonte. Il corrispondente del «Times» sui fronti di guerra del 1859 scriveva da Pavia: «Dalle alture di Montebello gli austriaci rilevarono una novità nell’arte della guerra. Uno dopo l’altro arrivavano i treni per ferrovia da Voghera e ogni treno scaricava soldati che si affrettavano a prendere posizione sulla linea di combattimento».
Pio IX inaugura il 14 luglio 1856 (il suo 14 luglio!) la Roma-Frascati, in un vagone costruito apposta per lui, con inginocchiatoio di prima classe. Nello stesso anno incominciano i lavori per gli ottanta chilometri della Roma-Civitavecchia, che non sapeva di andare un giorno a copulare con i tronchi che i piemontesi avrebbero fatto scendere da Genova. Il papa vedeva nelle ferrovie sopratutto un incremento dei pellegrinaggi, la principale industria del suo Stato di acquitrini.
Sui primi treni i viaggiatori erano chiusi a chiave nelle carrozze. Nel 1842, a Meudon, ci fu un deragliamento e i vagoni presero fuoco. Per fortuna, tra i numerosi arsi vivi, prigionieri di quella bellissima trovata, c’era anche un ammiraglio. Per timore di perdere altri illustri personaggi, la piombatura dei vagoni fu dappertutto abolita, e limitata ai bagagli, o ai treni per Treblinka.
Raccogliamoci un momento: nel dicembre 1836 si sente per la prima volta il treno nel cuore di Londra; andava da Greenwich a Southwark, a spegnere le fiere che restano accese, incantato inferno, nella pittura di Hogarth. Era l’inizio di un iperbolico sconvolgimento, l’annuncio di un sigillo che saltava… Nascono negli stessi anni le prime linee tedesche e russe: Norimberga-Fürth, 1835, Lipsia-Dresda, 1837, Pietroburgo-Tsarkoieselò, 1838. Nel 1854, bucato il Semmering da Carlo Ghega, sotto una pioggia di quarantasei milioni di corone, Vienna era già abbracciata per ferrovia al suo porto triestino. (Il veneziano Ghega morì a Vienna sei anni dopo il traforo – suicida). Meraviglioso, alla fine di Mio Carso di Slataper, il suo poema a Trieste: «E domani le locomotive rintroneranno il ponte di ferro sulla Moldava e si cacceranno con l’Elba dentro la Germania». Le locomotive del Semmering, che portavano i nomi di Wiener-Neustadt, Bavaria, Seraing, Vindobona, erano baroccheggianti behemòt che riempivano di potenza e di grido le gallerie.
Fu un ingegnere americano, George Whistler, padre del pittore, il Whistler di Mallarmé, a costruire in Russia, insieme a un altro americano, nel 1851, con uno scartamento xenofobo di cinque piedi (più largo dell’europeo), la linea Mosca-Pietroburgo, la più vecchia di fama, la più letteraria di tutte. La Mosca-Vladivostok, 8156 chilometri, la Transiberiana, fu invece cominciata nel 1891 e terminata nel 1903. La fece un esercito di galeotti per collegare meglio tra loro le intramontabili galere dell’impero russo, e perché la sua sonnacchiosa potenza potesse in un paio di settimane di viaggio prendere l’aria e il colore dell’Estremo Oriente. La guerra russo-giapponese, grazie alla Transiberiana appena finita, ebbe luogo nel 1904.
Non solo in Siberia: anche in Africa settentrionale e nelle Indie olandesi le ferrovie furono costruite da mano d’opera forzata. In Problemi del dopoguerra (Tripoli, 1919) il dottor Ugo Torri raccomandava l’impiego di detenuti di colore per la costruzione delle ferrovie tripoline: «preferendo quelli condannati a lunghe pene, i quali così meglio possono acquistare una capacità professionale ed essere ancora utilizzati per un successivo lungo periodo di tempo. Oltre all’economia nei lavori e alla continuità delle prestazioni si provvederebbe, mediante i proventi del lavoro degli stessi detenuti, al mantenimento dei penitenziari». (Il solo carcere di Tripoli avrebbe potuto fornirne cinquemila). La manodopera sia italiana che indigena è turbolenta e costosa: «L’impiego dei detenuti consente invece la massima disciplina nell’organizzazione ed esecuzione di lavori grandiosi, perché permette l’adozione di mezzi energici per costringere i riluttanti».
Ai cinesi di cent’anni fa la locomotiva non piacque troppo. Desiderosi di introdurli nella civiltà, gli inglesi costruirono nel 1876 i primi diciassette chilometri di ferrovia del Celeste Impero, tra Wu-sung e Shanghai, ma i cinesi temevano che lo strepito delle locomotive disturbasse il riposo degli antenati e guardavano diffidenti. Ci fu un suicidio sulle rotaie. Dopo averla sopportata per un anno, la popolazione distrusse la ferrovia come portatrice di spiriti maligni. Per molti anni non si riparlò di ferrovia in Cina… Oggi i cinesi comprano dall’Europa il folle becco supersonico del Concorde e fanno gli esperimenti nucleari come qualunque demente occidentale. È il cattivo spirito della locomotiva di Wu-sung che ha vinto.
Barbara Stanwyck in piedi su un’autentica U.P. 119 (locomotiva del West) in Union Pacific di Cecil B. De Mille incarna meravigliosamente gli spiriti sotterranei della macchina ferroviaria. La Stanwyck, veleno di freccia indiana, ha spremuto sullo schermo cinematografico tutto quel che possiede di magico e di funesto uno charme femminile di altissima potenza; un farfadetto, un anofele di Azazil! E il trionfo della Union e della Central Pacific non fu l’opera di angeli buoni… Oh memorabile abbraccio delle due locomotive a Promontory Point nell’Utah, il 10 maggio 1869! Ma la canaglia del mondo, che prima strisciava nel West con pesante sforzo, si precipitò a vagonate nei territori di frontiera. Non ci fu più speranza per gli indiani delle pianure, quando apparvero i draghi della Union Pacific. Dai treni, linguate di fuoco abbattevano le mandrie dei bisonti. Quando la ferrovia fu finita, non restava all’indiano che piegare le ginocchia e morire a Wounded Knee, e il bisonte, animale biblico, era quasi sparito dall’America.
«Mentre la Francia si limita a discutere le proprie linee ferroviarie militari, la Germania sta fortunatamente costruendo le proprie». Così, parecchi anni prima della guerra franco-prussiana, Moltke. E nel 1870 le linee tedesche erano pronte per il magnifico esperimento. Fu una riuscita eccezionale. Duemiladuecentocinque treni, su nove linee, trasportarono in undici giorni di mobilitazione 356 mila uomini, 8700 cavalli, 8400 pezzi di artiglieria. Parigi assediata prese tanto gusto alla carne equina, che dopo la guerra e la Comune la trazione a vapore dovette sostituire in fretta le ultime diligenze. Non capisco perché un poeta così critico e pessimista, come Emilio Praga, avesse chiamato arca novella di pace la ferrovia e previsto, in conseguenza, non più stragi di popoli in guerra! Proprio allora Moltke stava preparando i suoi piani.
Dal momento che, nel 1914, le ferrovie erano in ordine dappertutto, bisognava che due arciduchi morissero a Sarajevo in un attentato. L’Austria-Ungheria poteva trasportare velocemente truppe dalla Moldava e dalla Galizia a Trieste e a Zagabria. Nel Veneto, molti anni prima, aveva costruito le ferrovie che gli italiani avrebbero usato per prendere Trieste. La grande guerra europea fu un colossale scontro tra linee ferroviarie nemiche, con assalti frontali alla rotaia, grovigli di semafori e di scambi, fuochi di sbarramento di passaggi a livello, cariche di squadroni di locomotive.
Tra il 2 e il 19 agosto 1914, 168 mila vagoni francesi scaricarono ai fronti quarantadue corpi d’armata, ciascuno su ottanta treni. La sola battaglia della Somme mobilitò 6800 treni. E circa mezzo milione di treni circolarono sulle linee militari francesi tra il 1914 e il 1918. Eppure, per la Marna, Gallieni dovette mobilitare e spedire al fronte la straordinaria carovana dei quattromila taxi di Parigi.
Intanto un celebre vagone piombato – in realtà un treno speciale, attentamente sorvegliato – portava a Pietroburgo, attraverso la Germania, qualcosa di molto più temibile di un corpo d’armata, un messia rivoluzionario che viaggiava senza biglietto, Lenin. La resa della Germania all’Intesa fu firmata dai plenipotenziari, a Compiègne, in un vagone ferroviario. Il biglietto venduto a Stockton nel 1825 continua a rimescolare, rotaia dopo rotaia, la storia umana.
2
Il 28 dicembre 1879 alle quattro e un quarto del pomeriggio, un treno partì da Edimburgo per Dundee con trecento passeggeri. Alle sette e un quarto attraversava il ponte di ferro sopra l’estuario della Tay, lungo più di tre chilometri, meraviglia faraonica della North British che l’aveva costruito pochi anni prima. Quando il treno era a metà della gettata, la pressione di un tremendo uragano sul fianco mentre il peso del treno ne esercitava una verticale sulle traverse provocò vibrazioni e scompensi che in pochi attimi, per una lunghezza di mille metri, squarciarono il ponte. Lo steamboat che al buio, chiamato dai telegrafi, perlustrava la baia, credette di vedere qualcuno agitarsi al di qua e al di là dell’enorme squarcio, ma quei naufraghi erano soltanto pezzi di cavo spenzolanti. Si pensava che i palombari avrebbero trovato i trecento passeggeri nei loro scompartimenti, come cani, nutrici, amanti di Pompei gonfiati e galleggianti, invece neppure il macchinista e il fuochista erano nella locomotiva sommersa. Furono invece recuperati tutti i sacchi della posta: a Dundee, un po’ stinte dall’acqua, le lettere, qualche giorno dopo, arrivarono.
Il ponte sulla Tay era – dicevano gli ingegneri della compagnia – più forte di tutti gli uragani. Anche il Titanic era più forte delle montagne di ghiaccio. Anche le centrali nucleari… Ma non è tanto il solito filosofema della Nemesis qui, a brillare, quanto la metamorfosi di un brutale disastro in un filosofico sogno. Su «La Nature», Rivista delle Scienze che pubblicava settimanalmente Masson, il racconto del disastro, in uno dei fascicoli del 1880, è illustrato da due incisioni, di cui una, il lunghissimo ponte, apparentemente rettilineo, che unisce le due rive, con un punto avvolto nel vapore, il treno, è più féerique delle illustrazioni di Carroll e di Verne. Il mare muto, con velieri e vapori, e il cielo occidentale innevato da un monte Fuji di nuvole bianche stanno aspettando che l’Adamo irrequieto e fumante, il puntino sul ponte, precipiti nell’infinito Niente da cui è emerso per caso e dei passeggeri del treno, risucchiati dall’Oceano attraverso i vetri infranti, si dica non sono mai partiti. «Oh! Degli uomini!» gridano dallo steamer, ma sono cavi spezzati che sui piloni giocano alle morgane umane. È mai passato il treno di Edimburgo alle sette e un quarto? C’è mai stato un ponte sulla Tay?
La grande pace che dà la piccola incisione – avrà detto il lettore dell’ebdomadario: che capolavoro dell’ingegneria umana! – è certo dovuta alla sua congiunzione con la cronaca del disastro, già allora in parte evaporato con tutto il suo coro di stupori, di disperazioni e di congetture, oggi a tutti sconosciuto; all’apprendimento di quel mistero di sparizione integrale della vita, di annientamento delle nostre potenti macchine e ingegnerie in un attimo, qualunque ne sia il peso in ferro e in cemento e il costo in denaro e manodopera, di confusione di tutti i nostri calcoli, di impercettibile discesa sul fondo degli estuari di tutti i vagoni che portano i preziosi fazzoletti postali, i bagagli pieni di visceri ripiegati, le apparenze sedute che si scambiano voci e bonbons dei passeggeri umani del treno che corre soltanto di notte e non è mai partito e non arriverà mai; perché rievocando ripetutamente il repentino vuoto il miracoloso craac sotto la forza dell’uragano, la paura che il treno seguiti a correre all’infinito, come l’ansia per l’arrivo a Dundee e di quel che succederà di noi dopo arrivati, cessa. Senza lacrime guardiamo in faccia quelli che amiamo: «Il treno su cui siamo saliti non passerà la metà del ponte, si perderà in fondo all’estuario». Questa pena senza misura intorno a noi, questo sforzo furioso di distruzione e di conservazione dentro il nostro brulicamento infernale di dolori, tutto questo è il ponte sulla Tay un po’ prima delle sette e un quarto del 28 dicembre 1879, e non ne vedremo che qualche ombra tra lo spessore dell’uragano. Spariremo lasciando qualche sacco postale, e il mare, le rive, il cielo ci dimenticheranno.
Altro sogno, che non dà la pace, forse perché è monotono disastro in atto che persevera nel suo sforzo, ma è di straordinario contagio poetico, l’incisione Over London – By Rail nel Pilgrimage di Gustave Doré e Blanchard Jerrold. La ferrovia non ha, forse, ispirato niente di più poeticamente cupo a un artista figurativo. È bello e denso, è terrificante di calore fantastico e umano come il vivente casamento di rue de la Goutte d’Or dell’Assommoir. Il treno passa su un viadotto all’altezza dei camini degli slums, rovesciando fumo di carbone su una curva falange contratta di terrazzini cellulari uniformi, formicolanti di brandelli umani vivi, una moltiplicazione di figli d’uomo canditi in un loro oscuro e ronzante abbrutimento senza riposo.
Orribile treno, che non sarà ingoiato da nessun estuario, treno-coltello che si è scavato la via attraverso la carne dell’uomo. Credo di avere individuato il posto, grazie al capitolo sull’avvento della ferrovia a Londra in Landlords to London di Simon Jenkins: dovrebbe essere la linea Londra-Southampton che dalla stazione di Nine Elms, diretta a Waterloo, passava sopra gli slums di Lambeth. Ma questa non è che una precisazione trascurabile, una curiosità marginale: è un treno che passa su visceri umani che sentono e stridono, come quelli di Giobbe e di Geremia.
Tratto da: Guido Ceronetti, La carta è stanca
Join the Discussion