Pensando a Guido Ceronetti, ho sempre immaginato un profeta del tardo ebraismo, che viveva in una Gerusalemme di furie ebraiche e di sofie greche, avida d’ inaudito, mai stanca di visioni. Ormai la gloria di Israele era passata: l’ Esodo dall’ Egitto era una leggenda: la ferita della cattività babilonese era stata cicatrizzata; e del regno di Davide e di Salomone che si ricordava più, in questa epoca di piccoli prepotenti rissosi e di remoti potenti stranieri? Israele stava fecondando il mondo; e fra poco la caduta del Tempio avrebbe scagliato i suoi figli nelle più gelide contrade d’ Europa, nelle più infime oasi d’ Africa. Intorno non c’ era che attesa, furia, scetticismo, vuota disperazione, sottigliezza, infinito amore per le lettere del Libro perduto e ritrovato. Tutti sembravano attendere il Messia o un nuovo profeta: eppure la vera vocazione religiosa bruciava soltanto sotto la cenere. In questo tempo senza più veri profeti, con tutta la passione dell’ anima Guido Ceronetti sogna di essere il nuovo profeta. Come un oscuro Giovanni Battista, si nutre di miele e di locuste: si ferisce con le proprie mani; e vuole essere soltanto un animale ferito, per impugnare la parola come uno strumento affilato e micidiale. Ma quale strano profeta. Non ha né messaggi né rivelazioni né annunci da portare agli uomini. Non disegna il futuro. Non coltiva nessuna utopia. Non nomina il messia. Persino la parola futuro gli è odiosa, perché gli sembra la sorgente di tutti i mali possibili. Tra le figure del passato, ne accoglie una.
Come la sentinella di Isaia, misura l’ estendersi della notte: annuncia sino a che punto è arrivata la tenebra; e intanto, durante questa appassionata auscultazione del male, esplora le scintille di sacro che hanno illuminato la storia del mondo, e quelle che lo illuminano ancora. Non c’ è altro che lo affascini: tutta l’ agitazione, il tumulto, il dolore, la follia, la fantasia, l’ intelligenza, il genio, tutta la vita che crediamo di vivere serve soltanto a far scoccare qualche scintilla di sacro. Per chi proviene dalla cultura greca, sembra difficile credere nel sacro senza una metafisica, o senza aprire l’ anima al lieve, inavvertito battito dell’ eterno. Eppure Guido Ceronetti è proprio questo: un cultore del sacro senza metafisica, senza un vero presentimento o desiderio o alone di eternità. Come l’ ultimo, tragico erede dei grandi profeti ebraici, Ceronetti lo avverte nel presente e nel rimbombo del tempo una immensa minaccia che incombe su ogni atto della vita e della scrittura. Nessuna distanza ci tiene lontano da lui: nessuno sguardo ci permette di contemplare, lassù in alto, le luminose idee platoniche. Il sacro sta qui, intorno a noi: contamina le mani: possiede lo sguardo; e come Giobbe nessuno potrà mai dire se il fuoco ardentissimo di Dio bruci di odio o di amore, e se l’ Amato da Dio non sia anche l’ Odiato. Certo la natura quell’ albero che consola, quel fiume che ci rinfresca, quell’ uccello che ci risveglia nel cuore della notte non porta in questi libri nessun segno del sacro. Il più grande paradosso di Ceronetti, il quale detesta gli uomini, è che il divino si rivela nell’ uomo: nel corpo dell’ uomo. Le verità dell’ intelligenza lo interessano poco. Il divino abita nel corpo: nel corpo malato e insidiato dal dolore di Filottete e di Giobbe; e nelle cloache dell’ anima, nelle taverne impure dove scendono gli angeli decaduti. Ceronetti non ha mai dimenticato di esprimere la sua riconoscenza all’ Antico Testamento, di cui ha tradotto e commentato in vent’ anni I Salmi e Giobbe, Isaia, Il Cantico dei Cantici (Adelphi) e l’ Ecclessiaste (Einaudi). Egli deve dutto alla Bibbia: la grandezza, l’ ispirazione, la melanconia, il furore, il molto tremendo e la pochissima luce, la disperata concretezza e asprezza dell’ espressione.
Ho imparato il grido, il frammento, il coccio nel deserto: il fuoco chiuso nella pietra, il fuoco che consuma. Ma, dopo i lunghi anni di dedizione e di consacrazione quasi assoluta, egli ha avvertito la Bibbia come un peso e un carcere. Sopra di sé e in tutto ciò che scriveva ha sentito il sordo rumore delle catene delle Scritture. Con qualche ingiustizia, si è lamentato che esse l’ hanno fatto veggente in uno o due punti e reso per tutto il resto un semicieco. Senza di loro sarei stato più elastico, più penetrante, più disponibile e più libero. Come un profeta abbandonato dal suo Signore, come la sentinella stanca di esplorare la tenebra e i bagliori di luce, ha sperato che Dio si allontanasse da lui. Non voleva più né Bibbie né Corani. C’ era tutto il resto del mondo da conoscere e da vedere. Lui non desiderava molto. Gli bastava qualcosa di molto leggero. Così, nel suo libro forse più bello e amabile (Il silenzio del corpo, Adelphi), Ceronetti cerca di radunare attorno a sé le delizie mentali di Oriente e di Occidente: il Tao, le vesti bianche di Confucio, Epicuro, la poesia latina, Montaigne, e quella strana oasi nel cuore della Bibbia che è l’ Eccelesiaste. In certo senso, la sua violenza si è acuminata, e tocca una ferocia nichilistica. Nella vita tutto è male. Forse tutto è male e nulla persino in quel Dio che gli ha dominato così a lungo il cuore e la mente. Ma scrive con una frase che Guicciardini e Montaigne avrebbero amato quando si conosce che tutto è male, allora comincia la vera scienza dei beni particolari: un epicureismo doloroso e ironico, con improvvisi e struggenti slanci di dolcezza. Ora Ceronetti ama Orazio: la sua misura, la sua chiusura, la sua limitatezza, la sua accettazione di un mondo dominato dalla morte, le sue rose e i suoi gigli. Se una volta aveva protestato contro i limiti della conoscenza umana, ora è uno che si guarda intorno: uno che considera, pensa, riflette, voltando le spalle a quell’ Alto, da cui tutti i suoi libri avevano preso ispirazione. Come Qohélet, Epicuro e Montaigne, questo Filottete nichilista è divenuto un asceta epicureo, che insegue i pochi, deliziosi e fugaci piaceri che la vita ci offre. Un profumo, l’ ombra che avvolge una donna, una carezza, il colore del miele, il gusto di una mela renetta, l’ aroma di un té venuto dalle lontane contrade dell’ Oriente, così piene del sapore di Dio da sembrare prive di Dio.
Nei suoi ardenti e disperati profeti, Ceronetti aveva sempre avvertito una mancanza: quella del mondo femminile e amoroso, che egli adora come Baudelaire. Questo mondo emerge soltanto in un testo biblico: Il Cantico dei Cantici, al quale ha dedicato uno dei suoi saggi più belli. Se è un teologo che protesta contro ogni teologia, Ceronetti è e ama essere un eccellente scrittore erotico. I canali, l’ umidità e i profumi del grande corpo femminile disteso, che sembra occupare l’ Oriente: l’ amore fisico, quando i baci si bevono come si beve il vino e il corpo si mangia come il frutto del melo selvatico: l’ amore-passione, la forza cieca del Desiderio, ingordo come lo Sheol, insaziabile come la morte: l’ Amato che insegue nell’ Amata, e l’ Amata che cerca nell’ Amato, la propria parte spezzata o perduta; tutto questo gli ispira le sue pagine più ricche e liquide, dove la felicità amorosa è sempre insidiata dalla nostalgia e dalla disperazione. Ma questo amore non vive sotto il segno di Orazio, delle vesti bianche e delle tazze del té cinese. Anche l’ eros è sacro, come la parola di Isaia: forse è sacro più di ogni altro aspetto del mondo visibile. Con i suoi occhi di colomba e la pelle bruciata dal sole e le umidità profumate, presto la donna del Cantico brucia. Non è più che l’ ombra di un desiderio concepito per un eone luminoso, un’ inafferrabile essenza senza corpo, una Beatrice, una Sapienza. Tutto ciò che è reale si raddoppia e si dissolve in una vertigine. Lo scettico epicureo, che Ceronetti aveva cercato di diventare, ritorna il profeta del Dio ignoto che parla senza parole. Non ci si può ribellare o allontanare dal Libro dei Libri, dove sono contenute tutte le cose visibili e invisibili, le loro ombre, e anche il contrario di esse. Fuori dal regno del sacro, si estende un deserto desolato, che Ceronetti rappresenta in una serie di libri, l’ ultimo dei quali è appena uscito (La pazienza dell’ arrostito, Adelphi, pagg. 354, lire 30.000).
In questo deserto desacralizzato c’ è la morte che finge di essere vita: nessun eros, nessun fascino, nessuna gioia: polvere e cenere; cessi, latrine e orinatoi, sparsi in ogni angolo della terra. Non c’ è niente altro da vedere e da udire. Una volta, al tempo della Difesa della luna, Ceronetti rappresentava questo paesaggio contemporaneo con bile e bizzarria ipocondriaca: ora in lui le invettive sono quasi finite, le passioni quasi spente, le furie grottesche spossate, e la sostanziale mancanza di interesse si vela di orrore. Credo che sia il destino fatale di ogni descrizione esclusiva del negativo. Nessuno può rappresentare soltanto la notte. Mentre misura con angoscia a che punto è la notte, la sentinella di Isaia la vera controfigura di Ceronetti intravede le rare luci che interrompono le tenebre e danno loro il giusto profilo: si attarda con tenerezza a cogliere queste deboli epifanie; o comprende che dietro la tenebra immensa si estende una luce egualmente immensa, che si rovescia in tenebra. Non ho bisogno di ricordare queste cose a Ceronetti. Lui che è un artista della contraddizione, le conosce molto meglio di me. Uscito dalle Scritture, dal fuoco e dalle catene delle Scritture, forse si è smarrito nel deserto dove crede di vivere. Amo molto il rapporto tra Ceronetti e la letteratura.
Da un lato, non c’ è nessuno che veneri più di lui i grandi scrittori, i suoi Phares, come diceva Baudelaire: quei pochissimi, Catullo, Villon, Pascal, Baudelaire, Kafka, nei quali intravede qualcosa di quei fuochi antichissimi e ormai quasi spenti, di quelle parole appena udibili, di quel grido ripetuto da mille sentinelle, di quell’ ordine rinviato da mille voci, dell’ appello dei cacciatori perduti nei grandi boschi. Egli coltiva la religione della letteratura e della sua grandezza. Ma, a volte, sembra preferire la letteratura degradata: i giornaletti popolari, i calendari, le ricette di cucina, il teatro delle periferie, i deliri delle veggenti e delle astrologhe, tutti quei fogli così cari a Rimbaud, che egli cerca con passione dai bouquinistes come se gli dei della letteratura, simili a quelli gnostici, scegliessero di frequentare le taverne malfamate. Come ama le parole: come le interroga, le ascolta, le martella, mentre traduce le Scritture. Ma le parole non gli bastano. Non colgono ciò che egli vorrebbe: il sacro che nessuna parola spiega e contiene. Ed egli va oltre e sopra le parole in quel luogo d’ ascolto e d’ attesa, dove forse le parole rivelano il loro segreto. Non saprei come definire Ceronetti: un interprete, un saggista, un poeta, un veggente, un traduttore, un critico letterario? Ha molto del rabdomante: è sempre lì con la sua piccola verga di castagno (le verghe d’ oro non rivelano niente), che interroga i testi, i tempi, il giorno e la notte. Ad un tratto la sua verga trema, si sfrena, indica un punto. Come un cane da caccia, Ceronetti segue quel punto: sa che lì s’ annida il mistero; e la precisa immaginazione filologica viene soccorsa dal suo dono visionario di deformazione. Nella letteratura, egli odia le qualità che hanno un rapporto con la bellezza: la fluidità dello stile e della narrazione, l’ armonia della frase, la felicità espressiva, la compiutezza, l’ eleganza dell’ ironia, la quiete mentale di chi si identifica con un testo e un argomento, e dentro di esso riposa.
Gli sembra che il sacro (o come vogliamo chiamare l’ Inattingibile, che cerca di raggiungere) non sappia che farsene di questi ben costruiti e levigati nidi umani. Certo il sacro è anche bellezza, suprema quiete. Ma, se noi vogliamo coglierlo, dobbiamo ferirci le mani che impugnano la penna, ferire chi ci legge: portare la tensione ad una violenza quasi intollerabile, rompere le superfici della prosa. Scrivere è un’ arte della frattura e della dissonanza. Ceronetti è uno scrittore squisito di aforismi: ma predilige la variazione, la digressione intorno a molti temi che si intrecciano, si contrappongono e si scavalcano come in una satura antica. Nulla gli piace più che infilare un’ invettiva contro l’ eccessivo uso del sale, che oggi fanno gli uomini, nel cuore di un’ analisi filologica. Immagina che le superfici chiare e lisce della prosa allontanino il riflesso del remoto fuoco nascosto: non vuol essere inteso completamente dai suoi lettori; e spesso le sue pagine sono così ricche di allusioni, di salti di tono, di corti circuiti, di baleni e di tenebre, che il loro significato si perde nell’ ombra. Ama il detrito: detesta la prosa pura e compatta: qui è artificioso: là insinua nella sua sintassi schegge di ferro, carboni accesi, ustioni di lontani incendi, come se soltanto la mescolanza del troppo lavorato e del grezzo esprimesse la sua ispirazione. E’ veloce, sarcastico, fantastico, estatico, contorto. Tutto, all’ improvviso, si raddensa in un grumo: poi una furia estrosa e stranamente allegra lo porta verso il luogo dove il finito si congiunge con l’ infinito.
Testo di: Pietro Citati, La Repubblica, 27 gennaio 1991
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