Alla mensa della pensione Charlotte la mamma godeva di una certa considerazione, ma non aveva un ruolo dominante. Anche quando si opponeva a Vienna, ne conservava l’impronta. Di Spengler sapeva soltanto ciò che poteva dirle il titolo della sua opera. Della pittura non le era mai importato gran che, perciò quando van Gogh, con l’uscita del Vincent di Meier-Graefe, divenne l’argomento più nobile delle conversazioni a tavola, lei non era in grado d’intervenire, e una volta che si lasciò trascinare a dire la sua non fece una gran bella figura. I girasoli non hanno profumo, disse, la cosa migliore sono ancora i semi, che almeno si possono sgranocchiare. Seguì alle sue parole un silenzio imbarazzato, antesignana la signorina Kündig, che era la persona più competente, in quella tavolata, nel campo dell’attualità culturale e che, in effetti, si appassionava a molti degli argomenti trattati sulle pagine della «Frankfurter Zeitung». Proprio allora stava cominciando a diffondersi la religione di van Gogh; una volta la signorina Kündig disse che solo da quando aveva conosciuto la vita di van Gogh le si erano finalmente aperti gli occhi sul vero significato del Cristo. Il signor Bemberg protestò energicamente contro una simile affermazione; il signor Schutt la trovò esagerata; il signor Schimmel sorrise; la signorina Rebhuhn piagnucolò: «Però non ha niente di musicale!» (si riferiva a van Gogh) e, avvedendosi che nessuno aveva capito la sua frase, aggiunse senza scomporsi: «Vi immaginate van Gogh che dipinge il Concerto campestre?».
A quel tempo di van Gogh non sapevo nulla, perciò quando salimmo in camera nostra chiesi delucidazioni alla mamma. Ma ne sapeva talmente poco che mi vergognai per lei. Disse addirittura (prima non l’avrebbe mai fatto): «È un pazzo, che ha dipinto sedie di paglia e girasoli, sempre tutto giallo, non poteva soffrire nessun altro colore, finché gli ha proprio dato di volta il cervello e si è sparato una pallottola in testa». Queste informazioni mi lasciarono molto insoddisfatto, sentivo che la follia che la mamma gli attribuiva era un’accusa rivolta a me. Da qualche tempo la mamma condannava ogni forma di esaltazione, un artista su due per lei era un «pazzo», ma si riferiva solo ai moderni (e in particolare ai viventi), gli altri, gli artisti del passato con i quali era cresciuta, li lasciava stare. A nessuno, poi, permetteva di toccare il suo Shakespeare, e se a pranzo il signor Bemberg o qualche altro incauto si permetteva di dire quanto avesse trovato noioso questo o quel dramma di Shakespeare – era proprio ora di finirla, bisognava al più presto sostituire Shakespeare con qualche autore più moderno – la mamma viveva i suoi grandi momenti, gli unici che ancora le fossero concessi al tavolo della pensione.
Allora, finalmente, tornava a essere quella di una volta, suscitando in me l’antica ammirazione. Con poche frasi folgoranti annientava il povero signor Bemberg, che si guardava pietosamente intorno sperando in un aiuto che nessuno era disposto a dargli. Quando era in gioco Shakespeare, la mamma non si curava più di nulla, non aveva riguardi per nessuno, non le importava più niente di quello che gli altri pensavano di lei, e quando una volta concluse dicendo che per gli uomini scialbi di quei tempi d’inflazione, uomini che pensavano soltanto al denaro, Shakespeare non era davvero l’autore adatto, i cuori più diversi fremettero per lei: dalla signorina Kündig, che ammirava il suo slancio e il suo temperamento, al signor Schutt, vera incarnazione del tragico, anche se non avrebbe mai usato questa parola, fino alla signorina Parandowski, che era sempre dalla parte della fierezza e in Shakespeare immaginava qualcosa di estremamente fiero. Perfino il sorriso del signor Schimmel ebbe un che di arcano quando, fra lo stupore generale, fece il nome di Ofelia, e poi, temendo di averlo pronunciato male, lo ripeté un’altra volta più lentamente. «Il nostro cavalleggero è stato all’Amleto,» disse la signorina Kündig «chi l’avrebbe mai detto» – ma fu subito interrotta dal signor Schutt: «Si può benissimo pronunciare il nome di Ofelia senza aver mai visto l’Amleto». Risultò che il signor Schimmel non sapeva affatto chi fosse Amleto, e la cosa suscitò una grande ilarità. Mai più osò spingersi tanto innanzi. L’attacco del signor Bemberg a Shakespeare, ad ogni modo, era stato rintuzzato; persino sua moglie assicurò che le piacevano tanto le attrici che recitavano Shakespeare in abiti maschili, erano così chic.
Allora il nome di Stinnes compariva spesso sui giornali. Era il periodo dell’inflazione, ma io mi rifiutavo di capire alcunché di economia; dietro a tutto ciò che aveva attinenza con questioni economiche fiutavo una trappola dello zio di Manchester, che voleva attirarmi nei suoi affari. Il suo attacco in grande stile da Sprüngli a Zurigo (erano passati due anni appena) me lo sentivo ancora nelle ossa. Il suo effetto era stato ulteriormente rafforzato dalla tremenda discussione con la mamma. Tutto ciò che sentivo come una minaccia, lo riconducevo immancabilmente all’influsso dello zio di Manchester. Era naturale che per me lui e Stinnes quasi si identificassero. Dal modo con cui a tavola si parlava di Stinnes – l’invidia che sentivo nella voce del signor Bemberg quando pronunciava il suo nome, il disprezzo tagliente del signor Schutt («Tutti diventano più poveri e lui diventa sempre più ricco»), l’unanime simpatia delle donne della pensione (la signora Kupfer: «Lui sì che se lo può permettere»; la signorina Rahm, che gli dedicava la frase più lunga del suo repertorio: «Che cosa si può mai sapere di un uomo così!»; la signorina Rebhuhn: «Per la musica non ha tempo di sicuro»; la signorina Bunzel: «A me fa pena. Nessuno lo capisce»; la signorina Kündig: «Vorrei leggere le lettere dei suoi postulanti»; la signorina Parandowski avrebbe lavorato volentieri per lui, «perché si saprebbe dove si va a finire»; la signora Bemberg pensava volentieri a sua moglie: «Per un uomo così bisogna vestirsi in maniera molto chic») – insomma io sapevo che quando si cominciava a parlare di Stinnes, la cosa andava avanti per un pezzo. Solo mia madre taceva. Per una volta il signor Rebhuhn era d’accordo con il signor Schutt, un giorno gli scappò persino una parola dura, «parassita» disse, anzi, più precisamente: «È un parassita della nazione». Il signor Schimmel, con il suo mitissimo sorriso, diede all’osservazione della signorina Parandowski una piega inaspettata: «Forse ci ha già comprati tutti. Chi può saperlo?». Se domandavo alla mamma come mai se ne stesse così zitta, rispondeva che era meglio per lei, come straniera, non immischiarsi in faccende strettamente tedesche. Era chiaro però che pensava a un’altra cosa, qualcosa che non voleva tirar fuori.
Poi, un giorno, ci disse tenendo una lettera in mano: «Ragazzi, dopodomani avremo una visita. Il signor Hungerbach viene a prendere il tè da noi». Risultò che aveva conosciuto il signor Hungerbach nel sanatorio di Arosa. Era un po’ imbarazzante, disse, che venisse a farci visita nella pensione, era un uomo abituato a tutt’altro genere di vita, ma lei non sarebbe riuscita a trovare un pretesto per disdire l’incontro, e poi ormai era troppo tardi, lui era in viaggio, non avrebbe saputo dove raggiungerlo. Ogni volta che udivo la parola ‘viaggio’, immaginavo un esploratore che viaggiava a scopo di studio, perciò volli sapere in quale continente viaggiasse. «È in viaggio per affari, naturalmente» rispose la mamma. «È un industriale». Ora capivo perché a tavola era rimasta in silenzio. «È meglio non parlarne nella pensione. Tanto sono sicura che quando arriva nessuno lo riconoscerà».
Naturalmente, ero prevenuto; anche senza contare i discorsi sentiti a tavola, era un uomo che apparteneva alla sfera dello zio orco, e poi che cosa voleva da noi? Sentivo nella mamma una certa insicurezza, e pensavo di doverla proteggere da lui. Ma che fosse una cosa seria lo capii soltanto quando la mamma disse: «Non uscire dalla stanza quando sarà qui, ragazzo mio, vorrei che tu lo ascoltassi dal principio alla fine. Lui sì che conosce il mondo. Ad Arosa mi ha promesso di prendersi un po’ cura di voi, quando fossimo giunti in Germania. È un uomo occupatissimo. Eppure vedo che mantiene la parola».
Ero curioso di incontrare il signor Hungerbach. Mi aspettavo uno scontro duro e ci tenevo a trovare in lui un avversario capace di darmi del filo da torcere. Desideravo esserne impressionato, per potergli tener testa ancora meglio. La mamma, che aveva un ottimo fiuto per quelli che chiamava i miei «pregiudizi giovanili», mi disse di non pensare che il signor Hungerbach fosse diventato un uomo importante perché era il rampollo coccolato e vezzeggiato di una famiglia ricca. Al contrario, era figlio di un minatore, la sua era stata una vita difficile, era salito così in alto, passo dopo passo, grazie al proprio lavoro. Un giorno, ad Arosa, le aveva raccontato la storia della sua vita, e solo allora lei aveva capito che cosa significa cominciare dal nulla. Alla fine aveva detto al signor Hungerbach: «Ho paura che il mio ragazzo se la sia sempre passata troppo bene». Lui si era informato sul mio conto e alla fine aveva dichiarato che non è mai troppo tardi. Sapeva benissimo, lui, quel che va fatto in simili casi: «Gettare il ragazzo in mare e lasciare che annaspi. Di colpo si metterà a nuotare».
Il signor Hungerbach si comportava esattamente così. Bussò alla porta e ‘di colpo’ fu nella stanza. Strinse con forza la mano di mia madre ma, invece di guardare lei, mi fissò negli occhi e si mise ad abbaiare. Non era possibile fraintendere le sue frasi brevissime e spezzate; ma non parlava, abbaiava. Dal momento del suo ingresso fino a quello del congedo – si trattenne un’ora intera – non smise un attimo di abbaiare. Non faceva domande e non si aspettava risposte. Neppure una volta domandò alla mamma, che dopo tutto ad Arosa era stata in cura insieme a lui, come stesse in salute. Non mi chiese il mio nome. In compenso potei riascoltare da cima a fondo tutto ciò che un anno prima mi aveva tanto inorridito nel corso del mio violento colloquio con la mamma. Una dura disciplina il più presto possibile, ecco la cosa migliore. Niente università. I libri buttarli via, dimenticare quell’inutile ciarpame. Nei libri ci son solo sciocchezze, conta solo la vita, l’esperienza e il lavorar sodo. Lavorare finché fan male le ossa. Tutto il resto non è lavoro. Chi non ce la fa, chi è troppo debole, che vada pure a fondo, non merita altro. Non è il caso di starci a piangere sopra. Di uomini al mondo ce ne sono anche troppi. I buoni a nulla devono soccombere. Ma forse, non si poteva escludere, sarei ancora riuscito a combinare qualcosa. Malgrado gli inizi completamente sbagliati. In primo luogo, però, dovevo dimenticare tutte quelle sciocchezze che non avevano niente a che fare con la vita, la vita com’è davvero. La vita è lotta, lotta senza quartiere, ed è un bene che sia così. L’umanità, altrimenti, non potrebbe progredire. Una razza di deboli si sarebbe estinta da un pezzo, senza lasciare traccia. Niente si dà per niente. Ci vuole un uomo per educare un uomo, le donne sono troppo sentimentali, pensano soltanto a lustrare il loro principino e a tenerlo lontano dallo sporco. Il lavoro, invece, è prima di tutto sporcizia. Definizione del lavoro: una cosa che ti stanca e ti sporca, ma che non devi mollare. – Mi sembra una grave falsificazione convertire in espressioni intelligibili i latrati del signor Hungerbach. Più di una volta una parola o una frase mi sfuggiva, ma il senso di ogni singola direttiva era fin troppo chiaro: egli sembrava aspettarsi che balzassi in piedi, e lì, sull’istante, mi mettessi a lavorare sodo – altrimenti che lavoro sarebbe.
Intanto gli offrivamo il tè, eravamo seduti intorno a un tavolino basso e rotondo, l’ospite portava la tazza alla bocca, ma prima di essere riuscito a berne un sorso gli veniva in mente un’altra direttiva, troppo impellente per attendere la durata di un intero sorso. La tazza veniva posata bruscamente sul piattino e la bocca si apriva a nuove frasi brevissime, dalle quali una cosa traspariva comunque: la totale mancanza di dubbi. Anche gli adulti si sarebbero trovati in difficoltà a replicare, figuriamoci le donne e i bambini. Il signor Hungerbach faceva colpo e se ne compiaceva. Era tutto vestito di blu, il colore dei suoi occhi, l’abito era irreprensibile, non una macchiolina, non un solo granellino di polvere. Mi venivano in mente una quantità di cose, e le avrei dette volentieri, ma quella che mi veniva in mente più spesso, anzi, di continuo, era la parola ‘minatore’ e mi domandavo se quell’uomo, il più pulito, il più sicuro di sé, il più duro di tutti, davvero avesse mai lavorato da giovane in una miniera, come sosteneva la mamma.
Non aprii bocca una sola volta (quando mai avrei potuto? Non mi lasciò il minimo spiraglio), perciò, vuotato il sacco, il signor Hungerbach aggiunse a mo’ di conclusione (questa volta suonò come una direttiva a se stesso) che non aveva più tempo da perdere e subito se ne andò. Alla mamma strinse ancora la mano, a me non diede più neppure un’occhiata, mi aveva troppo annichilito, pensava, per ritenermi degno di un saluto d’addio. Proibì alla mamma di accompagnarlo giù a pianterreno, conosceva la strada, e ricusò, furono le sue ultime parole, ogni ringraziamento. Prima la mamma doveva aspettare l’effetto del suo intervento, poi avrebbe ringraziato. «Operazione riuscita, paziente morto» aggiunse. Era una battuta intesa a mitigare la serietà del discorso precedente. Un attimo dopo non c’era già più.
«È molto cambiato, ad Arosa era diverso» disse la mamma, piena d’imbarazzo e di vergogna. Aveva capito benissimo che difficilmente avrebbe potuto scegliersi un alleato peggiore per i suoi nuovi progetti educativi. A me, già mentre il signor Hungerbach parlava, era venuto un sospetto tremendo, un’idea tormentosa che mi fece ammutolire. Per un bel pezzo non fui in grado di manifestarlo apertamente. Intanto la mamma mi dava informazioni d’ogni genere sul signor Hungerbach, su com’era prima, solo un anno prima. Con mio stupore sottolineò – per la prima volta – che era credente. Le aveva confidato più volte che la fede significava molto per lui. Per la sua fede doveva ringraziare sua madre, aveva detto, e da allora quella fede non aveva mai vacillato, neppure nei periodi più difficili. Tutto sarebbe finito bene, l’aveva sempre saputo, ed era stato proprio così: non aveva mai vacillato, ecco perché era arrivato così lontano.
«Ma tutto questo cosa c’entra con la sua fede?» domandai. «Mi ha raccontato che in Germania le cose si mettono molto male» disse la mamma «e che, inevitabilmente, andranno sempre peggio; poi ricominceranno a migliorare. Bisogna tirarsi fuori dal pantano con le proprie forze, non c’è altro modo, non c’è posto per i deboli e i cocchi di mamma in simili frangenti».
«Parlava in questo modo anche allora?» domandai.
«Che vuoi dire?».
«Voglio dire come se abbaiasse in continuazione, e senza guardarti in faccia».
«No, di questo sono rimasta stupita anch’io. Era veramente diverso, allora. Si informava della mia salute e mi domandava se avevo tue notizie. Era colpito dal fatto che parlassi spesso di te e mi stava persino ad ascoltare. Una volta, lo ricordo benissimo, ha detto sospirando – pensa un po’, un uomo simile che sospira – che quando lui era giovane tutto era diverso, sua madre non avrebbe certo avuto tempo per le nostre sottigliezze, con i suoi quindici o sedici figli, non mi ricordo più il numero esatto. Volevo fargli leggere il tuo dramma, lui lo ha preso in mano, ha letto il titolo e ha detto: “Giunio Bruto – mica male come titolo, dai Romani c’è sempre da imparare qualcosa”». «Ma sapeva chi era Bruto?». «Certo, figurati che mi disse: “Era quello che ha condannato a morte i suoi figli”». «Dev’essere l’unica cosa che sa di tutta la storia. Quel particolare gli è certo piaciuto, è degno di lui. Ma il dramma lo ha poi letto?». «No, naturalmente no, non aveva tempo per la letteratura. Passava le sue giornate a studiare le pagine economiche dei quotidiani e mi consigliava sempre di trasferirmi in Germania: “Là potrà vivere spendendo poco, gentile signora, pochissimo, sempre meno!”».
«E per questo abbiamo lasciato Zurigo e siamo venuti in Germania?». Pronunciai queste parole con una tale amarezza che io stesso ne rimasi spaventato. La realtà era dunque più orribile dei miei sospetti. Che la mamma avesse potuto lasciare il luogo che io amavo più di ogni altro al mondo per spendere meno da qualche altra parte, mi diede un senso di profondissima mortificazione. Lei si accorse subito di essere andata troppo oltre, e fece marcia indietro: «No, questo no. No davvero. Può darsi che quest’idea abbia avuto una parte nelle mie riflessioni, ma non è stata l’elemento decisivo». «E qual è stato, allora, l’elemento decisivo?». La mamma si sentiva costretta in una posizione difensiva e, dato che l’impressione di quella, orribile visita non si era ancora dileguata, le faceva bene parlare con me e rispondere alle mie domande, serviva anche a lei per chiarirsi le idee.
Tuttavia mi appariva incerta, era come se procedesse per tentativi, in cerca di risposte che anziché fluire rapide dalla sua bocca facevano resistenza dentro di lei. «Voleva sempre parlare con me. Credo che mi volesse bene. Comunque era molto rispettoso e invece di scherzare, come facevano altri pazienti, era sempre serio e mi parlava di sua madre. Anche questo mi piaceva. Le donne, sai, di solito non sono contente se uno le paragona alla propria madre, perché questo le invecchia. A me invece piaceva, perché sentivo che mi prendeva sul serio». «Ma tu fai colpo su tutti, bella e intelligente come sei!». Lo pensavo davvero, se no in quel momento non l’avrei detto, non ero certo in vena di gentilezze, al contrario, sentivo dentro di me un odio terribile, finalmente stavo cominciando a capire le ragioni di quella che dal tempo della morte di mio padre era stata per me la perdita più dolorosa: il distacco da Zurigo.
«Continuava a ripetermi che ero un’irresponsabile, perché, essendo donna, ti avevo educato da sola. Avevi bisogno di sentire la mano forte di un uomo, diceva. Ma ormai è così, gli rispondevo io, dove potevo prendere un padre se non rubandolo? Proprio per dedicarmi completamente a voi non mi ero mai risposata, e ora mi toccava sentire che avevo fatto il vostro danno: il mio sacrificio si sarebbe risolto per voi in un disastro. Questo mi spaventava, mi spaventava molto. Adesso sono convinta che quell’uomo volesse spaventarmi per fare colpo su di me, sai, intellettualmente non era molto interessante, ripeteva sempre le stesse cose, ma parlandomi di te mi spaventò, e poi, subito dopo, mi offrì il suo aiuto. “Venga in Germania, gentile signora,” diceva “io sono occupatissimo, non ho mai tempo, non ho un minuto libero, ma troverò il modo di aver cura di suo figlio, venga per esempio a Francoforte, le farò visita e parlerò seriamente a quel ragazzo, che ancora non sa come va il mondo. Da noi aprirà gli occhi. Gli darò una lezioncina come si deve, e poi lei lo getterà nella vita! Ha studiato a sufficienza, basta coi libril Non diventerà mai un uomo! Vuole che suo figlio diventi una donnetta?”».
Tratto da: Elias Canetti, Il frutto del fuoco, Adelphi