Cominciò ad uscire, nel febbraio 1991, una mia rubrichina, su «La Stampa», che il direttore di allora Paolo Mieli, con cui era stata preparata e concordata, chiamò OGGI. Titolo fortunato, sottilmente ingannevole, che attualizzava, per poterlo ammettere in prima pagina, l’inattuale che era nelle nostre intenzioni. Si creò così una piccola finestra dove si affacciavano pensieri di ogni autore e tempo, e anche di anonimi (graffiti), di corrispondenti privati non nominati; una fessura sull’altrove nella ferrigna compatta violenza concentrazionaria dei titoli e degli articoli di ogni giorno, dalla quale è aggredito l’indifeso compratore quando entra in contatto con l’ordigno-giornale, pronto ad esplodergli in testa.
Là dove domina il pensiero trionfante si trattava di deporre qualche traccia di sperduto, di pensiero assassinato; di seminare qualche dubbio sull’uomo e sul razionalismo scientifico o teologico sterminatore. Lettrici e lettori intuirono il dono: là c’era un umile chiarore di candela per guidarli «nella valle dell’ombra», e una goccia di attivo contravveleno, almeno per quel giorno. L’inizio coincise con la guerra del Kuwait, e il bisogno di refrigerio, tra quei pozzi di petrolio che ardevano fino ai confini della terra, indicibilmente forte. Nel momento in cui licenzio questa nota, OGGI si pubblica ancora, sia pure con diminuita frequenza (il drago si è esteso, contende anche quel barlume di spazio) ed entra nel suo quarto anno.
Per sollecitazione di Roberto Calasso, ho raccolto un buon numero di quei pensieri, inframmettendone dei nuovi, così sta nascendo questo libretto, che comprende per lo più testi apparsi nel 1991 e 1992, i quali sulla pagina unificatrice perderanno del tutto l’origine e la connotazione giornalistica. Qui li troverai nudi, spogliata la camicia di Nesso della prima pagina. Non è certo una novità che si facciano raccolte di pensieri di vari autori (di uno solo è però più frequente), tuttavia «guarda, questo è nuovo» (Eccl., 1, 10). Eccoli manifestarsi come Pneuma. Il frammento, in verità, è sempre nuovo.
Il frammento è un viaggio nel nucleo atomico, nell’àcaro pascaliano, nel dedalo del protozoo. Più frammenti pensanti insieme formano delle nuove aggregazioni, delle vegetazioni da grotta, dove si colgono altre rivelazioni. Sappiamo la potenza d’urto sulla mente del verso isolato, la forza persuasiva del versetto preso a caso nei testi sacri, la dilatazione infinita delle combinazioni dell’I-Ching, la pregnanza dei ciottoli lasciati dal naufragio dei presocratici, l’indipendenza speculativa del cane semiaffogato ai margini delle Pitture Nere di Goya. Tutto è dispersione, lacerazione, separazione, rotolare di ruote senza carro, e questo ha nome esilio, o anche mondo.
La presupposizione e la conferma di unità come Assenza, che viene dal lacerato, che esala dallo scomposto, nel momento in cui ne udiamo il gemito o il rantolo, è un incantamento della ragione filosofica (teologica sempre) che a queste infinite, indecifrabili lacrymae rerum della natura e della storia vuole forzatamente attribuire degli occhi, una testa, necessari ma lontani o trascendenti, per non precludersi una via d’uscita dalla disperazione.
Ma l’unità presupposta, talvolta addirittura intravista, è paurosa e fredda, l’unità è l’ignoto, il grande Buco Nero in cui la mente è inghiottita (col solito piacere di sottomissione al più forte) come da uno squalo accorso all’esca metafisica. Nel linguaggio dei miei Deliri disarmati, l’unità è l’Estuario delle Dondone.
L’unità non è un luogo; il frammento è un luogo, è tutti i luoghi, e l’unica unità possibile. E dalla disumana separazione che costituisce la totalità della vita, lo smisurato fiume delle parole scritte non è separabile: basta ad ogni frammento il suo male. In questa visione non esiste la letteratura, cronologica e patrimoniale; il termine corpus, figura dell’organizzazione del vivente, profilo dei suoi abissi, significa meglio il ribollimento (che l’interprete conosce incessante) di quanto fin qui fu lasciato scritto. Se prendo da un’opera compiuta (lo è mai davvero? se fosse tale non sarebbe respinta da noi esuli di Babilonia?) dieci o quindici righe, o una sola, uno stico, che mi abbiano illuminato e che possano illuminare, l’opera restante, le altre dieci-quindicimila righe, come la rosa tagliata urleranno di dolore?
In questo atto del recidere si connettono due gratitudini, e nello stesso momento due forme di calma s’innalzano dal tumulto come una solitaria palma. Ecco creata, dall’atto stesso di lacerare lacerazione, la novità di un luogo diverso, che si nascondeva nel coacervo d’inconoscibili dell’unità apparente.
Se di una molteplicità di questi luoghi (qui sono circa quattrocento: pur emanando da alcuni una luce debole, da altri molto forte, l’effetto illuminante cambia mutando il bersaglio vivente che incontrano) compongo una distesa, un pelago, un sistema di braccia determinate all’affetto, ne risulterà qualcosa cui sarà difficile dare un nome, facilissimo invece attribuire un’anima.
Sarà per caso un essere umano artificiale? Sarà piuttosto la scoperta, di cui mai saranno tutti i gradi percorsi, dell’incalcolabile capacità generativa delle lacerazioni che il pensiero esprime nella sua condizione di esilio. Che tu generi figli o libri o figure o pentagrammi non avrai generato che frammenti, collages, grida rotte e lacrime senza testa. Ma dappertutto, dappertutto è l’anima che combatte per farsi anima tua (un verso di Seferis di cui ho constatato mille volte la verità).
Posso chiamare ancora raccolta un insieme di luoghi-pensiero dove c’è un’anima che combatte per farsi anima mia, o tua? Sono quasi certo che, dopo un anno o anche meno di uso (spero vorrai usarla, prendendo e riponendo), questa raccolta come tale non sarà più vista. Se all’acquisto dopo sfogliata ti appariva come dell’eterogeneo insalivato dal caso, un mantello di toppe e sbrindelli, dopo un certo tempo la vedrai come una donna dipinta da Vermeer, che cuce ad una finestra, da cui si vede tra la bruma Atlantide. È strano come tutto mi si configuri e distenda come uno spazio-corpo di figura umana… Oggi sento che fu un limite soffocatore essermi sempre e così tanto occupato di uomo e destino umano. Perché non di altro, Dio mio – di formiche, di piante medicinali, di funghi? No, uomo sempre, così anche il mio repertorio di metafore è un essere antropoide, che incessantemente mendica altre fami, che respira e muore. Come miei simili nanificati, come parti di una testa mi appaiono l’autore, il titolo, l’anno di ciascuno di questi evocati nel nome augurale di Ermete. Quale errore dare i nomi così: T.S. Eliot, T.E.A. Hoffmann, H.G. Wells, F.M. Dostoevskij, J.F. Kennedy! (Per alcuni sarebbe mutilazione impensabile; mai vidi un H. Bosch, un F. Goya, un M.L. King, un C.G. Cesare – e allora perché scrivere C.G. Jung, A. Toynbee ecc.?). Il frammento cosmico che è un nome non va mutilato, fosse anche il più oscuro dell’universo…
Non è per puro scrupolo di esattezza che dispiego il ventaglio del nome, è diligenza uterina; e la data accanto al titolo (potendo darla con buona approssimazione preferisco quella di composizione) è là perché nella frattura temporale il corpo-nome dell’autore ha l’habitat, il suo terrestre paesaggio ideale. Una piccola offerta ai Mani di Spinoza è anticipare di due anni la data di uscita dell’Ethica. Certo, venne stampata, lui morto, nel 1677: ma nel 1675, Spinoza si adoperò e sofferse per pubblicarla – inutilmente. Per lui quello doveva essere l’anno dell’Ethica; e anche per noi, qui, lo sia.
Pronunciare, scrivere: secolo XI o XIX, VI avanti o dopo Cristo, non è per me storicizzare, ma dilatare l’evento, premere il pedale della visione. Avviluppandone il frammento che pensa se ne libera altra energia latente. Le date valgono per far rivolare le farfalle morte, non come spilli che dicano «mai più volerà». Spesso, le date più remote cui ci affidiamo costringono a madornali improbabilità (secolo… dinastia… con Cristo ricrocifisso a spartire, dal Golgotha, epoche), a far fluttuare un vivente lungo cento e più anni; la loro utilità, in questi casi, sarebbe dubbia, se non valessero a circondare dell’indeterminatezza di un sogno aggiunto postumo al sogno che ne fu la vita, l’autore. Vorrei tu usassi a questo modo quel che ti fornisco; non è questo, evidentemente, il luogo per ricevere o cercare delle informazioni.
Ogni volta che m’imbatto in lingue di cui abbia qualche conoscenza, rivedo o rifaccio del tutto le traduzioni che ho sotto mano, oppure traduco direttamente. Spesso l’italiano dei traduttori (sebbene, oggi, scaltrissimi) contrasta coi miei modi linguistici: allora mi attengo a questi, non saprei evitarlo. Ogni appropriazione comporta espropri; altrimenti si resta sull’orlo della Terra Promessa. Puoi far girare il volume come un caleidoscopio, creare combinazioni e fare raffronti. Non fu affatto voluto, e tuttavia ci sono gruppi di pensieri, pescabili, con identità metafisica (non tematica) comune. Mi hanno scelto perché queste animule in esilio volevano comunicare qualcosa di specifico, di a loro specialmente caro, e finora rimasto oscuro, adoperandomi come mezzo. La tavola dei nomi e dei riferimenti serve per operare di questi congiungimenti fugaci, un Oriente e un Occidente estremi, un avanti Cristo e un quasi Duemila, un pensatore integrale e uno provvisorio e casuale, un poema e un proverbio, una cartolina.
Non fare a questo libellus il torto di una lettura passiva. Il risultato desiderabile è sempre uno – l’unico che valga e consoli, che salvi, in questo mondo accecato dove inguardabili grugni in transito e ambigue maschere millenarie che arma una conoscenza disperata conquistano sempre più vaste porzioni di potere visibile e invisibile – uno solo: illuminazione.
Febbraio 1994
Tratto da: Guido Ceronetti, Tre pensieri, Adelphi