Quanto più riflettiamo sull’esortazione estrema del Buddha: « La morte è inerente a tutte le cose composte. Operate senza tregua per la vostra salvezza», tanto più ci preoccupa l’impossibilità in cui siamo di sentirci aggregato, incontro transitorio, se non fortuito, di elementi. In astratto, non è difficile considerarci così; in concreto, ne abbiamo un rifiuto fisico, come se si trattasse di un’evidenza non assimilabile. Fino a che non avremo trionfato di questa ripugnanza organica, continueremo a subire quel flagello seduttivo che è l’appetito d’esistere.
Che le cose vengano smascherate e stigmatizzate col nome di apparenze, non conta gran che, perché si ammette d’ufficio che esse conservino una particella di essere. Ci aggrappiamo a qualunque pretesto, pur di non doverci sottrarre al sortilegio da cui procedono i nostri atti e la nostra stessa natura, all’abbaglio primordiale che ci impedisce di discernere in tutto la non-realta.
Io sono un « essere» per metafora; se ne fossi uno di fatto, lo resterei per sempre, e la morte, sprovvista di significato, non avrebbe presa su di me. « Operate senza tregua per la vostra salvezza » – cioè, non scordate di essere un insieme fuggevole, un composto i cui ingredienti non aspettano che di disintegrarsi. Effettivamente la salvezza non avrebbe alcun senso, se non fossimo provvisori fino al ridicolo; se in noi vi fosse un minimo principio di durata, da sempre saremmo salvi o perduti: non più ricerca, non più orizzonte. Se la liberazione conta, la nostra irrealtà è una vera e propria fortuna.
Il Funesto Demiurgo. E.M.Cioran