Ah, mio bel Castello

Ci sono al mondo castelli-ninfe, adagiati con aria indolente sulla riva di un fiume dalle acque impetuose; e ci sono castelli-Narciso che si contemplano nell’acqua immobile dei fossati, prigionieri dei riflessi che creano alla base delle loro mura di pietra una liquida e tremula muraglia. Chenonceaux partecipa delle due nature. Più piccolo della maggior parte dei castelli reali della Loira, dolcemente racchiuso nel paesaggio idillico di un angolo di Turenna, non evoca, come Amboise o Blois, i suoi grandi vicini, il ricordo di momenti decisivi della storia di Francia. Non è nemmeno, come Chambord, un immenso padiglione di caccia nato dal capriccio dispendioso di un re. Il suo fascino quasi discreto è quello di una dimora privata, e il caso ha voluto che fosse soprattutto una dimora di donne. Infine, una sorte più malinconica ha fatto sì che le padrone di casa che vi si sono succedute fossero quasi sempre delle vedove.

Una vedova ha presieduto alla sua costruzione; un’altra l’ha permeato della sua leggenda; questo gioiello di pietra ha suscitato o inasprito gelosie di vedove. Castello d’amore, dice una certa letteratura da guida turistica: sarebbe meglio dire castello del calcolo mondano e della macchinazione finanziaria, e anche delle loro sconfitte, magione del lutto angustiato o della vecchiaia isolata, bersaglio delle controversie che fanno seguito ai fallimenti o alla fine dei regni, gravata di debiti almeno quanto ricca di ricordi, eppure illuminata per sempre dallo sfavillio di qualche festa data tra l’incertezza della vigilia e quella dell’indomani. Sotto questo punto di vista, almeno, Chenonceaux è un caso tipico: fu sempre la disdetta delle belle dimore l’essere nello stesso tempo, e quasi per definizione, dimore di lusso, e come tali particolarmente soggette ai poteri instabili del denaro che non sempre riconosciamo sotto le parvenze più nobili o più pittoresche che avevano un tempo. Prendiamo a pretesto la loro giustapposizione in uno stesso luogo per esaminare quei quattro o cinque padroni, o soprattutto padrone di casa, che rappresentano singolarmente il momento d’oro di una società o di un gruppo, o la sua ultima tappa prima del declino; cerchiamo di riunire quanto sappiamo di autentico su quegli uomini o quelle donne. Tutto è stato detto: non arricchiremo di alcun fatto nuovo la storia del loro castello o la loro. Osiamo tuttavia riesumare fatti noti, che spesso lo sono meno di quanto si creda. “Diane de Poitiers, — esclamava l’altro giorno un giovane romanziere francese che ha del talento e anche una certa cultura, — ma si, l’amante di Francesco I che si bagnava nuda nello Cher, al cospetto di tutti, alla luce delle fiaccole…”. Lasciamo queste immagini ad un film in technicolor; cerchiamo di non cadere nell’errore dell’ingenuo che si lascia turbare dai massacri e dalla pratica della tortura e si rallegra di vivere nel XX secolo; né in quello del divoratore di romanzi storici che gode senza rischio dei bei delitti e dei begli scandali dei tempi andati; soprattutto non invidiamo la stabilità del passato. Eliminiamo anche il gioco delle proiezioni che aureolano i muri e i tetti delle vecchie dimore di una poesia che non è priva di bellezza, ma che è soltanto il riflesso dell’oggi posato sullo ieri, e conferisce alle cose una luce che non ebbero. Nel corso di questa passeggiata senza effetti sonori e senza giochi di luce, forse riusciremo a conoscere meglio quegli esseri collocati lontano nel tempo, ed anche questo luogo, così spesso oggetto delle passioni o posta di intrighi machiavellici, e che oggi per il turista è solo una nobile testimonianza degli splendori passati, una tappa, una meta di escursioni, un luogo dove ci si va a sgranchire le gambe e a sognare.

Dopo una serie ingloriosa di spartizioni familiari, di anni magri, e di espedienti finanziari che andrà ripetendosi con una nera monotonia nel corso di tutta la storia di questa bella proprietà, nel 1512 un gentiluomo rovinato vendette la terra avita di Chenonceaux a uno dei suoi creditori, il ricco borghese Thomas Bohier che, grazie a contratti abilmente elaborati e a sequestri sul filo della legalità, si preparava da lunga pezza a far cadere nelle sue mani quel bel frutto ben maturo. A quell’epoca la tenuta consisteva in una distesa considerevole di campi e di boschi, in una torre di guardia, solo resto di un maniero caduto in rovina, e in un mulino in riva al fiume.

Thomas Bohier e la moglie Catherine, che proveniva anch’essa da una famiglia di ricchi banchieri della Turenna, appartenevano entrambi al gruppetto compatto dei generali delle finanze, che furono i fermieri generali del XVI secolo, e i cui membri si spartivano la torta della tesoreria del regno. Catherine era nipote, secondo il costume bretone, del grande Semblancay, che finì impiccato a Montfaucon per malversazioni, e il cui nome è noto agli appassionati di poesia per un epigramma di Marot che celebra il suo coraggio davanti alla forca. Questo potente personaggio spalleggiò Thomas nei suoi sforzi per impadronirsi di Chenonceaux. Thomas, da parte sua, era intendente di finanza della Normandia; aveva accompagnato due re di Francia nelle loro campagne d’Italia in veste di maestro dei conti e di tesoriere generale della guerra; questo scaltro banchiere era nelle grazie della corte, poiché si poteva ricorrere proficuamente a lui in tempi difficili.

Catherine condivideva senza dubbio il gusto del marito per il lusso e l’arte alla moda, che nel XVI secolo era quella italiana. Divenuti padroni dei luoghi, i Bohier cominciarono intanto col rinnovare la torretta di guardia usando quegli stilemi medievali rifluiti nel grazioso pseudo-gotico del Rinascimento: finestre a racemi, finti camminamenti di ronda e piombatoi decorativi. Fra il 1515 e il 1522, durante le lunghe assenze del consorte trattenuto presso il re a Parigi dalle sue funzioni o impegnato in operazioni belliche, Catherine Bohier diresse i lavori per la costruzione del castello propriamente detto. Si ignora il nome del capomastro probabilmente locale, di cui essa si servì per questa impresa, ma si può senza dubbio immaginare questa donna, che era stata giovane ai tempi di Anna di Bretagna e indossava forse ancora le cuffie inamidate dell’antica corte, mentre percorreva sulla sua mula o sulla sua giumenta ingualdrappata le sei leghe buone che separano Tours da Chenonceaux per sorvegliare gli sterramenti e l’innalzarsi dell’edificio.

Nel 1521, Thomas andò a raggiungere per la quarta volta le armate del re in Italia. Se trovò il tempo di recarsi a gettare un’occhiata al suo castello ancora nascosto dalle impalcature, quanto vide non differiva nell’essenziale da ciò che si ha sotto gli occhi ora: un corpo quadrato con torrette d’angolo e fossati ancora tutti medievali, ancorato nelle acque del fiume a cui era rivolta la facciata meridionale. La nuova costruzione era stata ingegnosamente poggiata sui piloni dell’antico mulino da cui si sarebbero ricavati locali destinati a cucine, cantine, macelli, darsene e allo svolgimento delle ripugnanti mansioni riservate ai domestici, da cui il padrone non può neppure lasciarsi sfiorare. I bei piani, con le finestre generosamente aperte all’aria e al sole, le teorie di stanze i cui pavimenti di legno e di pietra dovevano essere ancora posti in opera, la scala diritta, di origine italiana, in sostituzione delle scale spiraliformi del Medio Evo, testimoniavano l’amenità introdotta nei costumi dal Rinascimento. Dimostravano anche che Thomas Bohier non aveva per nulla visto le belle ville della pianura lombarda. Il generale delle finanze si proponeva senz’altro di riportare quella volta dall’Italia dei mobili e delle tappezzerie.

Thomas non rivide mai Chenonceaux. Morì meno di tre anni dopo nel villaggio piemontese di Vegelli, alla retroguardia delle truppe francesi in rotta. Il museo napoletano di Capodimonte possiede una serie di arazzi ordinati dagli Asburgo per celebrare la loro vittoria di Pavia, che l’anno seguente mise fine al ripetersi di spedizioni disastrose che avevano entusiasmato e fatto impazzire tre generazioni di Francesi. Vi si trova un’immagine realistica dei disastri della guerra in mezzo ai quali Thomas Bohier chiuse gli occhi per sempre: contadini indifferenti alle sorti degli eserciti ma tremanti per il loro bestiame, solda-tacci intenti a far man bassa del bottino o a depredare gli abitanti del paese, domestici e sgualdrine in fuga verso il nemico, nobili signori disarcionati e trascinanti nel fango, i berretti piumati, le stravaganti brachette e i budrieri ricamati. Catherine rimasta dunque vedova, si sistemò nel castello finalmente terminato; sopravvisse al marito poco più di due anni.

“Bisogna pensare alla propria fortuna quando si è trentenni, — dice La Bruyère; — non si fa a cinquant’anni; se si costruisce nella vecchiaia, si muore quando si è ai pittori e ai vetrai”. È pressappoco la storia dei Bohier. Per la signora dell’alta borghesia che per due anni trascinò un’esistenza vedovile entro quei muri nuovi, la tenuta, che era stata piuttosto mal acquisita, fu senza dubbio soltanto un sogno irrealizzato. Eppure è a questa moglie di finanziere che il castello, dove hanno vissuto o soggiornato sei regine, deve l’aspetto che ha conservato fino ai giorni nostri. Il ponte che essa progettava di gettare attraverso lo Cher non venne costruito che da Caterina de’ Medici; la decorazione interna fu in gran parte rinnovata sotto Enrico II, poi più o meno rifatta e alterata dai restauratori del XIX secolo, ma, nell’insieme, Chenonceaux resta come l’ha creato Catherine Bohier.

Diane de Poitiers aveva quarantotto anni quando il re Enrico II, nel 1547, l’anno stesso del suo avvento al trono, le regalò Chenonceaux. Con questo atto di munificenza, egli donava ciò che non apparteneva a lui, bensì alla Corona, dato che Chenonceaux, nel frattempo, era divenuto una proprietà dello stato. Infatti, il figlio di Thomas e cu Catherine, Antoine Bohier, e la moglie Anne Poncher, dovettero ben presto rinunciare a questa casa dove soggiornarono, se mai lo fecero, pieni di smarrimento e di paura. Già nel 1527, il padre di Anne, il tesoriere Poncher, era salito con Semblancay sul patibolo di Montfaucon, e Antoine Bohier, implicato in quello che fu uno dei più grandi scandali finanziari del Rinascimento, decise di cedere la sua tenuta in pagamento di un’enorme ammenda. Ma l’accorta Diane era fermamente intenzionata a far credere di aver acquistato Chenonceaux da un privato, temendo che il castello le venisse ripreso un giorno perché illegalmente acquisito ai danni dello stato, se per disgrazia le fosse venuto a mancare l’appoggio di Enrico. Fece in modo dunque di fare annullare come fraudolenta la cessione di Chenonceaux alla Corona, registrata già da dodici anni, con il pretesto di un’avvenuta irregolarità nell’inventario della proprietà, e di ricomprare poi a basso prezzo il castello che era stato restituito ad Antoine Bohier solo per essere più facilmente sequestrato e messo all’asta. Sotto la rinnovata minaccia di dover saldare allo stato il suo vecchio debito che aveva creduto estinto con la consegna di Chenonceaux, Bohier figlio fuggì a Venezia, portando seco i titoli di proprietà della troppo bella tenuta di cui la favorita era appena entrata in possesso con poca spesa. Il re sostenne Diane de Poitiers nel corso di un’iniqua commedia giudiziaria che si protrasse per sette anni; Diane infine trionfò, e rimase le-galmente padrona di uno Chenonceaux che non le costava nulla, poiché Enrico le aveva fornito i denari necessari per ricomprarlo a bassissimo prezzo. Vale la pena di rammentarsi di questa squallida storia quando si contemplano nei musei i mirabili ritratti che Clouet o Jean Goujon ci hanno lasciati di questa dea del Rinascimento. La fredda Diane aveva astuzie da notaio disonesto e un temperamento da avaro.

Diane de Poitiers è una delle rare donne divenute e rimaste celebri per la loro sola bellezza, una bellezza così assoluta, così inalterabile, da ricacciare nell’ombra la personalità stessa di colei che ne fu dotata. La fantasia popolare ha tentato invano di animare questo bel marmo: le è stata attribuita una melodrammatica avventura con Francesco I al quale ella si sarebbe offerta giovanissima per salvare il padre condannato a morte. La storiella si trova in Brantôme, dove Diane resta anonima, ma dove l’aneddotista riporta o piuttosto inventa le affermazioni abbastanza scandalose del padre felicissimo di essersela cavata così a buon mercato; affermazioni che Hugo trasformò in una lunga tirata, indignata e virtuosa, all’inizio del Re si diverte.

Ma è solo una leggenda, e nell’atto di devozione filiale è presente una sorta di generosità di cui Diane sembra fosse incapace. Quanto sappiamo di lei è meno drammatico e più singolare. Di famiglia ragguardevolissima, sposata in giovane età ad un vecchio signore, moglie irreprensibile e madre di due bambini, aveva trentasette anni ed era già vedova quando incontrò ad un ballo il futuro Enrico II, diciassettenne. Questa bizzarra passione per una donna di vent’anni più vecchia costituì la sola follia di questo principe avveduto e cupo che fu, tutto sommato, un sovrano per bene. Una volta re, donò alla vedova i gioielli della Corona; la fece duchessa e prodigò per lei i denari dello stato. Si è già visto a qual disprezzo della giustizia l’amore per Diane l’avesse trascinato nell’affare di Chenonceaux.

Enrico era sposato ad una piccola italiana di diciassette anni, dalla carnagione olivastra e dai begli occhi, quella Caterina de’ Medici che più tardi avrebbe ricoperto il ruolo di regina madre posseduta dal genio dell’intrigo, pronta a tutto quando si trattava di difendere il patrimonio dei suoi figli. Ma, quando entrò in scena Diane, Caterina era ancora soltanto una starnerà isolata alla corte di Francia, e follemente innamorata del suo giovane marito. Saggiamente, non importunò con le sue querimonie Enrico, che continuava ad assolvere fedelmente i suoi obblighi di sposo (o piuttosto vi fu indotto molto probabilmente proprio dagli oculati consigli di Diane), cosicché dopo nove lunghi anni di sterilità Caterina ebbe da lui dieci bambini. La regina fece in modo di avere la corte più brillante, le damigelle d’onore più belle; il suo gusto raffinato e il suo realistico senso degli affari facevano onore alla Firenze da cui proveniva. Ma accanto alla bianca Diane, Caterina non era che una donna troppo bruna per la moda del tempo, cui le numerose gravidanze e la passione per la buona cucina avevano appesantito la linea. La regina e la duchessa presiedevano insieme tutte le feste; Diane curava Caterina e i bambini durante le loro malattie; i loro rapporti erano improntati a quel fare riguardoso e a quella buona grazia epidermica, ma non necessariamente insincera, che si accompagna, più spesso di quanto si creda, all’ostilità e al rancore in due donne costrette a dividersi lo stesso uomo. È noto che il monogramma di Enrico, ripetuto dovunque a Fontaine-bleau, al Louvre, a Chenonceaux e altrove, era formato da un’attraversata da due C: la C di Caterina. Ma le due C erano a forma di mezzaluna, il simbolo di Diana cacciatrice, e intersecandosi con le aste dell’H formavano due D: l’iniziale del nome di Diane. Sottile accomodamento che doveva certamente piacere al re e all’amante, e segretamente anche riuscire assai poco gradito alla sposa.

Alcuni storici ben pensanti si sono chiesti se quest’amore singolare che durava ancora al momento della morte del re, già quarantenne, quando la duchessa aveva superato i sessanta, non fosse solamente un culto platonico reso alla bellezza. Sarebbe l’unico esempio di una passione platonica costata così cara allo stato. I cronisti del tempo non hanno immaginato nulla di simile; comunque, non era certo l’opinione della regina. Neppure gli splendidi ritratti che Diane ha fatto fare o lasciato fare della propria nudità agli scultori e ai pittori suoi contemporanei danno l’idea di una pudibonda. Sembra piuttosto di avere a che fare con una donna come se ne vedono tante, più vanitosa che passionale, senza scrupoli, ma intensamente attaccata alle convenzioni del suo ambiente e del suo tempo, e avara anche in amore. Per quanto Enrico l’abbia amata appassionatamente, Diane amava se stessa in maggior misura; e un simile fervore escludeva gli altri. Ella si impose la più dura disciplina per conservare intatta la sua bellezza perfetta; si costringeva a bagni freddi quotidiani; distillava con arte lozioni e unguenti; sarebbe la patrona ideale delle moderne estetiste. Riuscì a realizzare la sua duplice ambizione: un corpo e un viso sempre giovani; e una solida fortuna che le permetteva di mantenere e adornare un simile capolavoro. Il più bello dei suoi presunti ritratti1, attribuito a Clouet, e ora al museo di Worcester negli Stati Uniti, ce la mostra nuda nel diafano “deshabillé” dell’epoca, con il busto diritto, i capelli intrecciati con cura e adorni di perle, intenta a contemplare con occhi chiari e freddi la sua collezione di gioielli sparsa sul tavolo. Uno specchio prezioso, posto vicinissimo a lei, riflette il profilo di questo Narciso in versione femminile. Sullo sfondo, una cameriera estrae una veste da una cassapanca. I contemporanei hanno osservato che Diane indossò per tutta la vita l’abito vedovile, certo non per deferenza nei riguardi del vecchio marito la cui morte aveva preceduto la sua gloria di amante reale, ma forse per una sorte di caratteristico conformismo nei confronti del galateo, e soprattutto perché i colori del lutto le si addicevano. Quel nero e quel bianco accentuavano in ogni caso l’algido fulgore della sua bellezza lunare.

Chenonceaux non fu mai il suo castello favorito; gli preferiva la tenuta di famiglia ad Anet, che aveva trasformato in una residenza principesca con l’aiuto di Enrico IL Ma visitò con frequenza la bella dimora della Turenna; una volta, vi ricevette la regina e la corte; il re vi ci si recò spesso. Enrico e la sua amante sessantenne condividevano il gusto per la caccia e l’odio per l’eresia; il viso perfetto della signora di Valentinois dovette restare impassibile al resoconto della morte avvenuta nel 1557 in Place de Grève di un’altra bella vedova, la signora Philippe de Luns, che, dopo aver subito l’amputazione della lingua, fu arsa viva in compagnia di altri correligionari: è con siffatte misure che si difendono la vera fede e l’ordine nello stato. Ma la ragion di stato la interessava meno dell’oculata gestione della sua fortuna. Questa padrona di casa incomparabile seppe unire a Chenonceaux l’utile al dilettevole; aumentò l’estensione delle sue terre e riuscì a triplicare la rendita della tenuta; fece piantare dei gelsi, dato che la seta era di gran moda e alimentava la nuova grande industria del XVI secolo. Si entusiasmò alla bellezza dei giardini. Creò delle terrazze e fece disegnare delle aiuole; inserì nel verde un gioco della pallacorda e una giostra all’anello, in cui eccelleva; vi fece costruire uno di quei labirinti che ricordano nei loro meandri intricati, in termini di bosso e di quinconce, i complessi poemi a schema fisso del Rinascimento; inventò anche una fontana. I suoi giardinieri trapiantarono a Chenonceaux novemila cespi di fragole selvatiche e di violette, presi dalle foreste ancora intatte dell’epoca, i cui alberi maestosi avevano visto passare gli uomini del Medio Evo. La lista dei rosai e dei bulbi di giglio che ella fece piantare eguaglia in grazia floreale un sonetto di Ronsard o di Remy Belleau. Enrico II firmò nel 1559 l’umiliante trattato di Cateau-Cambrésis, che confermava la supremazia degli Asburgo in Europa. Filippo II ci guadagnava il Piemonte, il Milanese, il Monferrato, la Corsica, la Bresse e parecchie piazzeforti del nord-est francese. Rimasto vedovo di recente di Maria Tu-dor, il monarca spagnolo ci guadagnava pure una moglie: la giovane Elisabetta di Francia che doveva morire nella sua nuova patria pochi anni dopo, vittima, si sostenne, della gelosia del suo cupo sposo. Fra le feste date per celebrare questo brillante matrimonio, il re fece organizzare al Fau-bourg Saint-Antoine uno di quei tornei che erano, già per il Rinascimento, una maniera di far rivivere un Medio Evo di leggende, di duelli simulati valorizzati dallo splendore dei costumi, delle bardature, delle armature, e ingentiliti dalla presenza di un pubblico femminile. Eccellente cavaliere, abile giostratore, Enrico annunciò come al solito la sua intenzione di scendere in lizza. Alla fine del secondo giorno, il 30 giugno 1559, insistette per spezzare ancora una lancia con il capitano della sua guardia scozzese, un certo conte di Montgomery. Una scheggia della lancia rotta attraversò la visiera d’oro dell’elmo ed entrò nell’occhio del re. Lo si ricondusse svenuto al Louvre. Caterina disperata si sovvenne allora che gli astrologi avevano predetto che il re sarebbe morto in duello, il che era apparso ridicolo dato che le teste coronate non avevano l’abitudine di affrontare di persona scontri all’ultimo sangue, né di misurarsi con i loro sudditi. Ella si ricordò anche che, tre anni prima, un medico provenzale, l’ebreo battezzato Michel de Notre-Dame, aveva descritto in misteriose quartine profetiche la morte crudele di un leone, e i suoi occhi trafitti in una gabbia d’oro.

Poiché la morte del re era solo una questione di ore, Caterina intimò immediatamente a Diane di restituire i gioielli della Corona e la tenuta di Chenonceaux. La duchessa rifiutò: mentre era ancora vivo il re, non avrebbe rinunciato a nulla senza un ordine espresso venuto da lui.

Ma undici giorni dopo, Enrico morì, e Diane dovette rendere le gioie. Tenne duro per quanto riguardava Chenonceaux, che era legalmente libera di conservare, avendolo ricomprato dall’antico proprietario con i mezzi che sappiamo, ma Caterina si accanì contro Diane quanto quest’ultima si era accanita contro Antoine Bohier. La regina non dimenticava le spiacevoli emozioni provate durante la visita, forse obbligata, in ogni caso umiliante, alla favorita nella sua proprietà di Chenonceaux; si ricordava anche della bellezza della casa e dei giardini. Mentre alcuni cortigiani proponevano seriamente “di far tagliare il naso alla bella duchessa”, Caterina si accontentò furbescamente di far decidere al parlamento che Diane dovesse restituire le somme che aveva ricevuto dal re. Toccata nel vivo in quanto aveva di più caro, la sua fortuna, Diane comprese che bisognava scendere a patti con la regina. Ma restava una donna calcolatrice. Contando sulla bramosia nutrita da Caterina per Chenonceaux, glielo offrì in cambio della proprietà di Chaumont, che da un punto di vista strettamente finanziario valeva di più. Caterina accettò. Chenonceaux fu, fino all’ultimo, un buon affare per Diane.

Diane de Poitiers si ritirò infine nel suo palazzo di Anet, sulla cui soglia Jean Goujon l’aveva rappresentata sdraiata nella sua slanciata nudità di dea dalle lunghe gambe, così curiosamente vicina al canone plastico delle indossatrici dei grandi sarti del XX secolo, con un braccio al collo di un grande cervo divino quasi quanto lei, in una strana commistione dell’ideale classico e della poesia medievale delle lande e dei boschi. Si sogna in una sala del Louvre davanti a questo gruppo che traspone la realtà in poesia: il cervo delle foreste ha sempre rappresentato per la signora di Valenti-nois soltanto la bestia ancora ansante di cui riceveva in omaggio la zampa sanguinante al momento del pasto dei cani, poi l’arrosto fumante che non poteva mancare nel menu dei suoi banchetti. Solo nel mondo dell’arte esso è per la bella un buon compagno; solo nel mondo dell’arte questa nudità, celata quasi agli occhi di tutti sotto i velluti e gli orpelli, si mostra con innocenza alla luce del sole; solo nel mondo dell’arte un’amante cinquantenne di re è un’immortale. 

La Diane reale continuò a risplendere nel suo ritiro quasi regale. Gli amici di un tempo, è vero, abbandonavano l’attempata favorita; ma ella restava ricca; era ancora bella; i suoi sentimenti religiosi la rendevano rispettabile e il suo odio per i protestanti la rese fino alla fine cara al partito dell’ordine. Morì settantenne in seguito ad una caduta da cavallo. “Ho visto la signora duchessa di Valentinois all’età di settantanni, — racconta Brantôme, — bella di viso, fresca e amabile come all’età di trenta… La sua bellezza, la sua leggiadria, la sua maestà, il suo incantevole aspetto erano del tutto simili a quelli che aveva sempre avuto, e soprattutto ella era di un biancore straordinario… Credo che se questa dama fosse vissuta cent’anni, non sarebbe invecchiata mai… E un peccato che la terra debba ricoprire questi bei corpi!”.

Caterina aveva preso immediato possesso di Chenonceaux. Le sue sistemazioni, come quelle di Diane, furono al tempo stesso ornamentali e pratiche; ingrandì le proficue piantagioni di gelsi e impiantò nel villaggio una bachicoltura ed una filanda; fece collocare nei giardini alcune voliere di uccelli rari e fece acclimatare degli ulivi della natia Toscana, che vi prosperarono; creò una biblioteca, composta, si dice, dei libri preziosi che aveva comprati dal suo compatriota il maresciallo Strozzi, il Pietro Strozzi del Lorenzaccio di Alfred de Musset. Soprattutto ella vi condusse il turbolento gregge dei figli che voleva dominare e distrarre al tempo stesso; il figlio maggiore, il piccolo re Francesco II, destinato a morire a diciassette anni di un’otite acuta; Charles, il secondogenito, rapito a ventitré anni da una tisi galoppante, che sputa per sempre nella storia il sangue della notte di San Bartolomeo; il terzogenito, Henri, duca di Anjou, il solo che avesse ereditato l’intelligenza e la finezza materne; il figlio cadetto, il duca di Alençon, fanciullo litigioso e infingardo che sarebbe divenuto in seguito un insopportabile principe; le sue due nuore, adolescenti infagottate nelle loro vesti di broccato e nelle loro lattughe pieghettate: Maria Stuarda, moglie-bambina del re-bambino Francesco II, destinata alla sventura, al delitto, a venticinque anni di prigionia che si sarebbero conclusi sul patibolo di Fotheringay; Elisabetta d’Austria, moglie di Carlo IX, su cui incombevano il crespo vedovile e la morte dopo alcuni anni di pratiche pie in un convento di Vienna; la figlia infine, Margot, presto maritata al protestante Enrico di Navarra, e le cui feste nuziali si sarebbero concluse in un massacro, ma galante, ridente, soltanto sfiorata dalla tragedia della sua famiglia, e che nella leggenda come nella storia fa la figura di una bella ragazza di facili costumi.

Chenonceaux avrebbe potuto, a rigore, ospitare questa famiglia numerosa, ma bisognava anche alloggiare la corte. La regina decise di aggiungere al castello il ponte coperto previsto anche dall’architetto di Catherine Bohier e da quello di Diane, e destinato a servire da sala per le feste, ma soprattutto a collegare l’edificio esistente a un annesso futuro, posto simmetricamente sull’altra riva del fiume, e che non venne mai costruito soltanto per mancanza di fondi. Il piano superiore fu suddiviso in camerette assegnate ai domestici, e, senza dubbio, in mancanza di meglio, ambite e contese anche dai cortigiani.

Le feste che Caterina diede a Chenonceaux ebbero certo un fine politico, confessato o segreto, ma è soprattutto per temperamento che questa donna oberata di impegni creava attorno a sé l’animazione, la gaiezza, i divertimenti splendidi e facili. Tutte queste feste, tranne l’ultima, che merita una menzione a parte, rientrano nel genere allegorico e mitologico allora di moda: si ebbero dei balletti, delle serenate sull’erba e sull’acqua, degli scenari dipinti dal Primaticcio, delle cacce al cinghiale regolate come intermezzi teatrali, terminanti con tutta comodità nei giardini stessi del castello, perché il giovane re, disceso dalla sua camera, potesse, senza troppa fatica, assestare il colpo di grazia ad una femmina già straziata dai suoi cani e trafitta dai suoi gentiluomini. Si videro affascinanti fanciulle, travestite da divinità classiche, arringare interminabilmente la famiglia reale, e, piacere nuovissimo che veniva dall’Italia, dei fuochi d’artificio che illuminavano a giorno le acque e i boschi. La prima di queste feste si svolse pochi giorni dopo le esecuzioni sommarie seguite al colpo di mano protestante noto sotto il nome di tumulto di Amboise. Le condanne a morte di vario genere avevano dapprima divertito la corte come una sorta di cruenta commedia. Ma ci si stanca di tutto: voltando le spalle ai cadaveri degli insorti, appesi come tordi ai graziosi balconi di Amboise, Caterina si recò a Chenonceaux per far riposare in mezzo al verde il suo seguito e i figli.

Caterina de’ Medici, o piuttosto suo figlio Enrico III, diede nel maggio del 1577 nei giardini di Chenonceaux una di quelle feste di cui in seguito si impadronisce la leggenda per farne il fantastico e quasi scandaloso simbolo di un’epoca, di un mondo, di una certa maniera di godere e di sognare.

Il 15 maggio, a Plessis-lez-Tours, Enrico aveva riservato accoglienze magnifiche al fratello cadetto, lo sgradevole duca di Alençon e ai signori che avevano riportato con lui la vittoria di La Charité e avrebbero riportato, alcuni giorni dopo, quella di Issoire, seguita dai consueti massacri. Nella vecchia residenza reale di Plessis-lez-Tours, quel festino dato sullo sfondo di una guerra civile sembra essere stato un tipico Maggio nella tradizione delle feste primaverili del Medio Evo, riviste ed abbellite da un discepolo del Primaticcio: ci erano voluti sessantamila franchi di drappo di seta verde per trasformare le dame e i cortigiani in driadi e in satiri. Subito dopo, Caterina accolse tutta questa gente a Chenonceaux.

In questo ambiente più tipicamente rinascimentale, la festa offerta dalla vecchia regina italiana fu, sembra, ancor più sfrenata e sontuosa, più in armonia forse con lo sfondo delle vigne romane o delle ville fiorentine che con quello di un parco francese. Il re, ventiseienne, vi prese parte tutto agghindato ed imbellettato come al solito; non è del resto provato affatto che quella sera abbia indossato, come è stato detto, l’abito semifemminile, dalla scollatura ornata da tre fili di perle, che aveva portato durante le mascherate di carnevale dello stesso anno. Le dame e le damigelle d’onore incaricate di servire a tavola, sfoggiavano il costume attillato e variopinto dei paggi, o addirittura, travestite da ninfe della scuola di Fontainebleau, si mostravano con le gambe e il seno nudi ed i capelli sparsi. Ma se la voluttà regnava al festino, la fiducia non vi regnava certo: il re detestava il fratello. A dire il vero, si possiedono pochi particolari su questa festa che ha infiammato l’immaginazione degli storici moderni; si sa però che costò così cara che la regina madre, già finanziariamente agli sgoccioli, dovette ricorrere una volta di più ai suoi uomini d’affari italiani, che si rifecero immediatamente sul popolo. Ma è facile evocare sotto le fustaie ancora giovani l’apparato consueto delle delizie del XVI secolo: i piatti d’oro, le tovaglie di seta, il suono squisito delle ribeche e delle viole d’amore, com’è facile immaginare le coppie che si perdevano sotto gli alberi o si ricongiungevano nei solai del nuovo ponte coperto, le cui gallerie illuminate si riflettevano nell’acqua.

A questa orgia, se ce ne fu una, Caterina, enorme nei suoi abiti vedovili, assistette al fianco di Louise di Lorena, la giovane e pia sposa di Enrico III. Alcuni storici dei nostri giorni hanno ipotizzato che la regina madre contasse su quelle belle ninfe e quegli incantevoli falsi paggi per accrescere l’inclinazione verso le donne in un giovane re relativamente misogino: i mezzi adottati sarebbero stati piuttosto discutibili, più adatti ad incoraggiarlo nelle sue passioni che a indurlo ad un quarto d’ora di intimità con la regina. Più che di Caterina, la folle serata porta il marchio di Enrico stesso, delle sue predilezioni, delle sue chimere. Enrico era una di quelle creature per cui un costume, un balletto, le eccentricità di una notte senza precedenti e senza domani sono poemi viventi e meritano cure e sforzi quanto capolavori più durevoli. Nel corso di questa festa imprudente, poco politica in ogni caso, il giovane non introduceva alcuna innovazione: realizzava al contrario le segrete aspirazioni di un Rinascimento languente, il suo gusto per l’equivoco, il suo senso voluttuoso della metamorfosi e del travestimento. Quella sera, egli si offriva l’equivalente “ante litteram” delle commedie di Shakespeare o degli spettacoli di “féerie” mitologica che il Gaveston di Marlowe offre al suo Edoardo II.

Louise di Lorena era destinata a errare sotto quegli stessi alberi, ombra desolata vestita del lutto bianco delle regine, durante gli ultimi dodici anni di vita. Questa patetica Louise apparteneva all’illustre casata di Lorena da cui sono uscite anche, dal lato materno, Maria Stuarda, e da quello paterno Maria Antonietta. Ma Louise era di un ramo povero e relativamente oscuro di questa grande famiglia; suo padre era conte di Vaudémont. Attraverso la madre, Marguerite d’Egmont, era imparentata con l’aristocrazia dei Paesi Bassi, essendo la nipote del grande Egmont, fatto decapitare dal duca d’Alba su un patibolo di Bruxelles. Ma questo ricordo che oggi ci commuove, senza dubbio lasciava fredde le corti e le cancellerie del XVI secolo. La signorina di Vaudémont aveva vent’anni quando, nel 1573, Enrico attraversò Nancy, diretto alla volta della Polonia, tempestoso regno di cui era stato eletto sovrano dalla Dieta polacca. Ma questo re di ventidue anni vide Louise con lo spirito pervaso da una romantica passione per la bella e buona Marie de Clèves, incantevole sposa di un principe protestante che, tormentato dai morsi della gelosia, la teneva lontana dalla corte. Enrico, creatura complessa i cui rari capricci femminili erano sembrati fino a quel momento semplici curiosità sensuali, e anche concessioni all’uso, sognava di far annullare dalla corte pontificia il matrimonio di Marie; ne era, a quanto sembra, castamente riamato. Louise, intravista appena, gli piacque forse per un’indefinita rassomiglianza con quella Marie da cui si era appena separato con lacrime, sonetti appassionati e promesse di amore eterno.

Un anno dopo, nel suo palazzo di Cracovia, Enrico apprendeva la morte del fratello Carlo IX, che lasciava dietro di sé soltanto una figlia in tenera età. Seguito esclusivamente dagli otto o nove giovani francesi della sua cerchia intima, il giovane re ingannò la sorveglianza delle sentinelle e galoppò a spron battuto verso la frontiera, incalzato dai suoi nobili polacchi dai baffi spioventi e dalle lunghe vesti orientali che gli gridavano in latino di ritornare indietro. Enrico non riprese fiato che a Vienna, dove il suo cavallo si abbatté sotto di lui, vittima di quella fuga più romanzesca che regale. A Venezia, dove gli avevano preparato splendidi ricevimenti, pubblici e privati, indugiò con piacere; la tradizione vuole che vi abbia contratto da una cortigiana il male del secolo, la comune infezione luetica che, sommandosi in lui alla tisi ereditaria, spiega forse in parte lo squilibrio nervoso di questo principe, insieme tragico, frivolo e lucido.

A Lione, il re ritrovò la madre e la corte, e con loro i due partiti egualmente accaniti, i cattolici da una parte, i protestanti dall’altra, che si contendevano la Francia. Fu immediatamente messo di fronte alla questione matrimonio, la più pressante di tutte in quella famiglia che vedeva morire i propri figli in giovane età. Enrico aveva appena appreso con immenso dolore che non avrebbe mai più rivisto Marie de Clèves; la poverina era morta di parto a vent’anni, tristemente fedele fino all’ultimo a quel marito che ella stessa descriveva come il più generoso, ma il più geloso dei principi; la morte di Marie sembrava lasciare il campo libero ad una grande unione politica vantaggiosa per il paese.

Caterina aveva da poco proposto il figlio prediletto alla matura Elisabetta d’Inghilterra, ma Sua Altezza Reale aveva respinto il progetto che, del resto, non sorrideva affatto al giovanotto; quasi lo rimpiangiamo: sarebbe stato curioso vedere l’unione in uno stesso letto dei due esseri più singolari e più appariscenti del loro secolo. Caterina pensava ora ad un’unione svedese, che sarebbe stata una maniera per riavvicinare l’Europa cattolica a quella protestante; raccomandava vivamente una bellezza del nord, la figlia di Gustavo Vasa. Ma il re non era più il docile figlio della regina madre. Non era più neppure il giovane generalissimo acclamato poco tempo prima per aver fatto un’implacabile strage nei ranghi protestanti alla battaglia di Moncontour. In politica, pretendeva di adottare una linea moderata, che gli veniva tutto sommato da Caterina, ma che intendeva seguire a modo suo. Bisogna del resto vedere in tale moderazione un mezzo abile per neutralizzare due fazioni mettendole l’una contro l’altra, piuttosto che la preoccupazione di far regnare nel paese la tolleranza o la giustizia, alle quali non pensava nessuno.

Anche fisicamente Enrico era mutato. I suoi primi ritratti opera di Clouet, ci mostrano un ragazzino fiero e fine, di una bellezza voluttuosa quasi italiana, e questo aspetto spiega forse certi elementi della sua storia. Molto presto, tuttavia, questo fiore di adolescente si era sfogliato, e l’artista sembra essersi trovato di fronte ad un uomo dai lineamenti guasti, dalla barba rada, dalla fronte ossuta e nuda, cui solo il sorriso e lo sguardo conferivano un’innegabile grazia. In fatto di vita privata, Enrico aveva acquistato in Polonia il gusto per una pompa quasi orientale, che si accompagnava bizzarramente in lui ad un imprudente comportamento disinvolto, che pagò col proprio sangue. Si circondava sempre più esclusivamente di un gruppo di giovanotti arroganti e fascinosi, quasi tutti di bassi natali, e dotati di un notevole appetito di denaro e di onori, ingombranti favoriti molti dei quali, del resto, servirono con ardimento il loro principe. Infine, il nuovo re si opponeva fermamente ai piani matrimoniali della madre. Enrico, costretto a convolare a nozze, acconsentiva a sposarsi soltanto con l’oscura signorina di Vaudémont intravista a Nancy un anno prima.

Questa unione, che non aveva nulla di politico, scandalizzò Caterina. Oltre a ciò, ella poteva temere che tale connubio accrescesse ulteriormente in Francia l’importanza della casa di Lorena, i cui principi, che dirigevano quel che si potrebbe chiamare la destra cattolica, erano già anche troppo pericolosamente potenti. Enrico tenne duro contro tutti. Senza frapporre indugi, inviò uno dei suoi favoriti a sposare per lui Louise, secondo la consuetudine delle corti. La fanciulla aveva condotto fino a quel momento un’esistenza grigia sotto l’occhio delle due matrigne datele successivamente dal padre; credette ad uno scherzo crudele quando vide la sua matrigna Catherine d’Aumale entrarle in camera di buon mattino e farle una rispettosa riverenza, prima di annunciarle che sarebbe divenuta regina di Francia.

Enrico e Louise furono incoronati insieme a Reims, e si dovette ritardare la cerimonia di parecchie ore poiché il re non la finiva di vestire e agghindare personalmente la piccola regina che i testi del tempo concordemente dichiarano incantevole. Lo era veramente? Meno adulatore, un ritratto del Louvre ci mostra una giovane donna dal volto un po’ ovino, dai grandi occhi sognanti, dall’espressione dolce e abbastanza cocciuta.

I due, congiunti forse da un matrimonio quasi bianco, furono per quindici anni una coppia unita. Louise continuava a dedicarsi alle opere di misericordia, come aveva fatto a Nancy: curava i malati degli ospedali, li lavava, seppelliva i morti con le sue mani. Queste pie occupazioni non le impedivano di seguire il re nella maggior parte dei suoi incessanti spostamenti a Blois, a Chenonceaux, a Plessis-lez-Tours, a Amboise, a Olinville, accanto alla regina madre e ai favoriti coperti d’oro, bei ragazzi battaglieri che si decimavano in duello, e di cui Enrico piangeva la morte come aveva pianto quella di Marie de Clèves. Uno di loro ricevette in sposa proprio la sorella di Louise; la sera delle nozze, che furono splendide, la piccola regina osò persino offrire al re un balletto di sua invenzione; ella vi comparve travestita da ninfa e adorna di perle e di drappi argentei, spirante un’aura di dolcezza e gravità celestiali, come afferma un cronista dell’epoca.

Il Journal di Pierre de l’Estoile ci informa che Louise partecipava pure a cerimonie più sinistre: assistette con il re e la regina madre allo squartamento del traditore Salcève, in una loggetta del municipio appositamente sistemata ed addobbata per le loro maestà, e dove, presumibilmente, non mancavano raffinatezze e comodità. Dopo che i cavalli ebbero fornito per due volte lo sforzo che si esigeva da loro, lo sventurato fu, per grazia speciale, strangolato. Il costume regola a tal punto i nostri sentimenti che la caritatevole creatura trovò senza dubbio del tutto naturale la scena d’orrore: la forza degli animali innocenti utilizzata per straziare un corpo vivo, le potenti bestie frustate o eccitate a furia di bestemmie, le urla della vittima, e anche il feroce piacere della folla. Ci si chiede che cosa pensasse di distrazioni meno cruente, delle uscite notturne del re e dei suoi compagni che insultavano o molestavano i passanti, o ancora degli accessi di lirismo religioso, di cui si ritroverebbe l’equivalente odierno forse soltanto durante la settimana santa a Siviglia, durante i quali Enrico e i suoi amici, nel tradizionale costume dei flagellanti, con il petto nudo ed il capo cosparso di cenere, esibivano improvvisamente sulle pubbliche piazze le grida e i pianti della penitenza.

Una costante ossessione li univa l’uno all’altra: la preoccupazione di riuscire ad avere quel figlio che si credeva, a torto o a ragione, avrebbe consolidato la dinastia. Qui si esita, e il re e la piccola regina hanno conservato i loro poveri segreti di alcova. L’anno stesso della folle festa sotto gli alberi, il re ritorna a Chenonceaux, poi ad Amboise, a cercare Louise che si nascondeva in Tu-renna, malata di dispiacere, irragionevolmente timorosa di venir ripudiata per sterilità. L’opinione pubblica, dal canto suo, attribuiva l’assenza di progenitura a quanto si credeva di sapere sulle malattie e sui piaceri del re. Comunque fosse, Enrico e Louise non smisero fino alla fine di sperare in un miracolo; moltiplicarono le donazioni alle chiese; compirono faticosi pellegrinaggi, talvolta a piedi; riportarono piamente da Chartres camicie da notte benedette. Un bel giorno, una dama di compagnia suggerì alla regina di procurare un erede al trono con il sistema più umano dell’adulterio; Louise privò del proprio favore la cattiva consigliera.

Nonostante i suoi accessi di drammatica devozione, il re, buon cattolico, non aveva nulla di settario: aveva saputo opporre un rifiuto categorico alla pressione esercitata su di lui per introdurre l’Inquisizione in Francia. Da giovane, aveva anche avuto la sua bella crisi di evangelismo e portato con sé un salterio, certo più per moda che per convinzione. Ma le due religioni in conflitto, come succede quasi sempre alle ideologie rivali, erano ormai soltanto il pretesto o il mascheramento dei violenti e degli ambiziosi, un mezzo per eccitare l’isteria delle masse, un modo per santificare agli occhi degli stolti le mire degli astuti. I principi protestanti pensavano alle loro prerogative e alla loro fetta di potere; i capi della Lega avevano scopi peggiori. Destreggiandosi per tutta la vita tra le due fazioni quasi parimenti fatali alla monarchia, non è sorprendente che Enrico desse sia a destra che a sinistra stangate disperate.

Tutti conoscono o credono di conoscere il succedersi degli avvenimenti, sebbene se ne abbia un resoconto che è stato spesso falsato dallo spirito di parte o reso melodrammatico dalla storia popolare. Nel maggio del 1588, il re dovette fuggire da Parigi, in preda ai tumulti della Lega, pressappoco come era fuggito un tempo da Cracovia, ma quest’uomo prematuramente esausto non era più lo spensierato cavaliere del passato. In agosto, con il suo editto di Alençon, Enrico, disorientato, spinto alle concessioni dalla madre, diede delle garanzie a quella stessa destra cattolica e ai suoi inquietanti animatori, il duca di Guisa e suo fratello, il cardinale, che giocavano ai dittatori e ai demagoghi nello stesso tempo. In dicembre, guardato a vista dai Guisa nel suo castello di Blois, mal assecondato dal disordine degli Stati Generali, il re rifiutò di firmare l’atto che allontanava dal trono il cugino, il protestante Enrico di Navarra, decisione che avrebbe permesso al Guisa di far man bassa della corona di Francia.

Gli appassionati di grandi scene storiche, attenti al melodramma di Blois, dimenticano troppo che proprio nell’estate del 1588 l’Invincibile Armata aveva finalmente preso il mare; le agitazioni così francesi e così parigine della Lega costituivano in realtà una delle punte del grande movimento di accerchiamento dell’Europa occidentale previsto da Filippo IL Sembra davvero che il durissimo colpo inferto alla Spagna dall’enorme naufragio della sua flotta abbia avuto per effetto l’irrigidimento di Enrico nella sua resistenza contro i capifila di un partito prezzolato dall’oro spagnolo. In un certo senso, il vento e la pioggia che sferzavano selvaggiamente in quei giorni la Tu-renna erano la coda delle tempeste che qualche settimana prima avevano inghiottito gli ultimi resti della temibile flotta. Enrico si era ripreso. Con astuzia e accortezze da prigioniero, questo principe, che secondo i suoi nemici sarebbe stato pronto ad abdicare senza opporre resistenza, si preparò ad abbattere l’agitatore con l’assassinio, il solo mezzo che gli rimanesse.

La notte che precedette il delitto, Enrico, determinato ma roso dall’inquietudine, andò a cercare un po’ di pace dalla regina, alla quale nascose senza dubbio le ragioni della propria insonnia. Aveva imparato da lunga pezza a diffidare di tutti, e persino di sua madre, che in quel momento del resto era soltanto una vecchia signora malata, sonnecchiante tra due pozioni, eppure vagamente allarmata nella sua camera situata a piano terra dai minimi rumori insoliti di quella notte di vigilia. Il re aveva qualche ragione di diffidare anche della moglie, imparentata con quegli stessi principi lorenesi che aveva deciso di mettere a morte. Il seguito degli avvenimenti dimostrò la totale lealtà di Louise, ma è probabile che ella non sapesse, quel mattino, perché Enrico si facesse chiamare e vestire prima dell’alba. Tutto si svolse secondo il piano stabilito. L’assassinio di Guisa commosse appena l’opinione pubblica europea: “Il re di Spagna ha perduto ancora una volta uno dei suoi capitani”, mormorò Sisto V. Un biglietto trovato in una delle tasche di Guisa, su cui era annotato che il finanziamento della guerra civile in Francia costava mensilmente duecentomila scudi, provava al re che non si era ingannato sulla fonte del male.

Ma Parigi ribolliva come un calderone di streghe. Pochi giorni dopo, quando la morte della vecchia regina faceva di Louise l’unica figura femminile del seguito del re, un piccolo informatore parigino portò delle notizie dalla grande città. Con l’imprudente familiarità manifestata nei confronti di tutti fino alla fine, Enrico lo fece entrare di buon mattino nella camera dove dormiva con Louise e gli domandò se fosse vero che quei bravi rivoltosi lo chiamassero ormai solo Enrico di Valois. L’uomo assentì. “Ebbene, — riprese allegramente Enrico, — puoi dire loro di aver visto Enrico di Valois a letto con la regina.” Si può immaginare il rossore pudico di Louise, e il suo sorriso, e la dolcezza di sentire in tempi così calamitosi una simile battuta scherzosa che sembrava incoronarla per una seconda volta.

E a Chinon che Louise fu lasciata dal re in una relativa sicurezza, allorché questi partì alla riconquista di Parigi con l’aiuto di Enrico di Navarra. Quando, un mattino di luglio del 1589, a Saint-Cloud, poche ore prima del momento previsto per l’entrata nella capitale, Enrico fu pugnalato nel suo guardaroba da un monaco parigino cui aveva imprudentemente acconsentito di dare udienza, uno dei suoi primi pensieri di moribondo fu per la regina. Ignorando ancora che la sua ferita fosse mortale, o forse volendo ad ogni costo evitare alla giovane donna un viaggio pericoloso e stancante, le scrisse per dissuaderla dal raggiungerlo: “Amica mia, pregate per me, e non muovetevi di là.” Poi, dopo aver una volta di più riconosciuto Enrico di Navarra come suo erede, ed avergli raccomandato quei favoriti di cui ancora si fidava, Enrico spirò, all’età di trentasette anni. Se dobbiamo prestar fede a Brantôme, un giovane gentiluomo del suo seguito, L’Isle-Marivaut, si fece subito uccidere in duello per non sopravvivere al suo sovrano.

Enrico III è stato così vilipeso dalla storia tradizionale, che ha preso alla lettera gli insulti rovesciati su di lui dai suoi contemporanei di entrambe le parti, poi difeso con tanto ardore da certi storici del XX secolo, che è difficile giudicare equamente questa complessa figura di principe. Moderato da un buon senso innato che resisteva in lui a tutti gli eccessi, ma anche per effetto della sua intrinseca debolezza, pacifista per necessità in un’epoca in cui ognuno puntava sulla guerra, politico più che uomo di stato, mal servito dai suoi nervi e dal suoi capricci, ma sostenuto dalla consapevolezza al tempo stesso angusta e profonda della sua funzione regale, questo monarca instabile aveva bene o male tenuto duro per quattordici anni di crisi e trasmetteva morendo la sua corona all’uomo designato dalle leggi di successione del regno. Era poco, ed era molto. Sono presenti nella storia figure di principi più mediocri o più ignobili.

Louise stava per lasciare Chinon, dove era appena scoppiata la peste, allorché vi giunsero con lo stesso messaggero l’ultima lettera del re e la notizia della sua morte. I suoi intimi le nascosero sia l’una che l’altra. Fecero in modo di non dirle nulla prima di averla ricondotta a Chenonceaux che era certo meno al riparo da eventuali colpi di mano dell’enorme fortezza sulle rive della Loira, ma più confortevole, più ameno, più fresco senza dubbio in quei mesi estivi e forse meno esposto all’epidemia. Fecero bene. “Amica mia, pregate per me, e non muovetevi di là…” Interpretando alla lettera ciò che era soltanto una raccomandazione di un ferito, e non la volontà di un morto, Louise decise di non lasciare più la dimora dove per caso aveva dissuggellato l’ultimo messaggio di Enrico. E la spiegazione romantica. Un’altra, più prosaica, è che Chenonceaux, lasciato direttamente a Louise dalla regina madre era ormai la sola tenuta che rimaneva alla giovane vedova. Comunque fosse, e per dodici anni, questo luogo di delizie sarebbe servito da camera ardente a un ricordo.

Il Rinascimento è l’epoca dei grandi lutti vedovili: Giovanna la Pazza sulle vie della Spagna, Margherita d’Austria a Brou, Vittoria Colonna nel suo chiostro di Roma e, forse meno sinceramente, Caterina de’ Medici al Louvre. Ma nessuno di questi lutti è patetico quanto quello di questa piccola regina legata fino alla fine ad un sovrano insultato dagli uni e dimenticato dagli altri. Louise fece tappezzare di nero il pianterreno di Chenonceaux. La cappella, ornata con un’immagine di Cristo agonizzante, fu perpetuamente apprestata per una messa funebre. Ella fece dipingere sui soffitti i macabri emblemi funerari che furono di moda nel Rinascimento: crani, ossa, zappe da becchini, e soprattutto, a migliaia, lacrime. Un cassettone decorato in tal modo si vede ancora sul soffitto della grande galleria, testimonianza un po’ sbiadita di questo straordinario dolore. Guardandolo, ci si rende conto una volta di più che quel secolo, che amò freneticamente la vita, seppe distillare anche dalla morte quanto essa possiede di poetico, di splendido, di presago d’eternità. L’epoca in cui la fragile Louise finiva la propria esistenza nel ritiro e nel lutto è anche quella in cui Shakespeare scrisse i monologhi di Amleto e la conversazione con il becchino.

Mihi, sed in sepulchro. Mio, ma nella tomba. Questo motto, adottato da Louise, traduce esattamente la realtà della sua esistenza di vedova. In un certo qual modo, la pudica sposa di un tempo si affermava a Chenonceaux nel suo ruolo di amante: ella prendeva pieno possesso di quel marito che tante diversioni voluttuose o tragiche le avevano incessantemente sottratto. Mai Enrico senza dubbio le era stato più vicino; mai ella si era creduta cosi necessaria. Poteva infine ripagarlo per averla scelta ed averle conservato fino alla fine un posto nel suo cuore. Descrivendo quegli anni assorti nel ricordo di un morto come un romantico e sterile incubo, si rischia di dimenticare la pia fiducia della regina nell’efficacia della preghiera, il suo costante sforzo per soccorrere Enrico nell’aldi là e per consolarlo. Inginocchiata nella sua cappella, anchilosata dall’umidità che sale dal fiume, Louise, a Chenonceaux, dava prova verso quel morto della stessa devozione semplicissima di una donna che cura ed assiste fino allo sfinimento un infermo amato. Non era ad un poetico fantasma che Louise consacrava la propria vita, ma ad un’anima.

La si immagina in quel lutto bianco che l’usanza riservava alle regine che non erano, come lo era stata Caterina, regine madri, nella sua cerchia ristretta di gentiluomini e di dame d’onore. Il tenore di vita della casa era modestissimo; Louise era povera. Erano passati più di sei anni dalla morte del diletto sposo e la guerra civile continuava ad imperversare; i prezzi salivano; la tenuta, trascurata, fruttava poco. Ma Louise aveva avuto sempre abitudini parsimoniose; più di una volta Enrico aveva diminuito la pensione della moglie per pagare le spese di una festa o per avvantaggiare un favorito. Un tempo, ci si era burlati dei rega-lucci modesti con cui ella ricambiava gli splendidi presenti delle cognate. Assisa accanto al grande camino dove ardevano miseri ciocchi, Louise, protetta da un parafuoco ricamato di lacrime, teneva forse sulle ginocchia uno di quei piccoli spaniel per cui Enrico aveva avuto una passione, da lei condivisa. Oppure, retaggio vecchiotto dei capricci del passato, ella aveva presso di sé una scimmia o una cocorita. Le vesti delle persone del seguito erano tagliate, come le sue, sul modello superato degli abiti della vecchia corte. Si parlava dei fatterelli della campagna, del tempo, che era sempre meno buono di quanto si sperasse per i raccolti, dell’ultimo sermone tenuto nella cappella e del modo in cui la messa per l’anniversario del defunto re era stata cantata; si discuteva dei cibi per il prossimo pasto; ci si chiedeva se convenisse detrarre dal magro bilancio il prezzo di alcuni boccali di vino per un convalescente o la spesa di un corredino per una puerpera. Il signor Adam, l’intendente del castello, recriminava contro Enrico di Navarra che aveva permesso ad uno dei suoi colonnelli di acquartierare il reggimento sulle terre di Chenonceaux, abbattendo gli alberi e molestando i fattori. Il castello restava gravato di tutti i debiti della regina madre; l’esigua rendita delle fattorie non bastava a placare i creditori di Caterina. Eppure, si sarebbe dovuto rinnovare il parquet della camera della regina; gli altri impiantiti avrebbero potuto attendere. Fra le persone chiuse nel castello sullo Cher, come all’interno di una nave, nascevano le piccole rivalità; i piccoli rancori tipici di coloro che sono costretti a vivere a lungo fianco a fianco; tra le dame d’onore si dicevano sciocchezze. La contessa Fieschi, che era italiana, sceglieva forse per una lettura ad alta voce il volume del Petrarca confuso sui ripiani tra le numerose opere di devozione, e leggeva una poesia sulla fedeltà oltre la morte. Oppure, con mano tremante, Louise sfogliava una raccolta di versi di Desportes, che era stato il poeta aulico di Enrico III, e rileggeva lo strano sonetto dove si parla di fantasmi disperati vaganti attorno alla tomba dove una morte violenta li ha fatti finire. La regina, dopo aver preso congedo, si alzava per raggiungere il suo oratorio o la sua camera; le persone del seguito si preparavano ad andare a letto pensando che non si stava poi così male a Chenonceaux in quei tempi difficili.

La camera della regina, situata in una suite in aggetto sovrastante il fiume ed eliminata in seguito durante un restauro del castello, oggi dunque non esiste più; il luogo delle sue fantasticherie notturne è ormai l’aria impalpabile. Ma si possiede l’inventario dei suoi mobili a Chenonceaux; la si può immaginare intenta ad aprire uno dei suoi begli scrigni dai complicati ferramenti, a leggere forse ancora una volta il messaggio del re: “Amica mia… non muovetevi di là…” Il re non le aveva mai scritto col sangue, come a Marie de Clèves, ma l’ultimo biglietto era stato per lei.

Ci si domanda se i libelli osceni, che un tempo avevano offerto al pubblico una visione distorta dei vizi e delle debolezze di Enrico, fossero mai capitati sotto gli occhi di questa patetica vedovella; li aveva sprezzati, confidando fino all’ultimo nel re su questo punto come su tutti gli altri; era vissuta in una sorta di vaga inconsapevolezza in mezzo a quella corte vibrante di scandali, o invece, sapendo come stavano le cose circa le trasgressioni di Enrico, vi vedeva una ragione supplementare per passare le notti in preghiera?

In piedi davanti alla finestra, guardava distrattamente la massa scura degli alberi sotto cui l’uomo che i poeti paragonavano un tempo ad Achille alla corte di Licomede aveva dato, una sera di maggio, la festa in maschera. Quasi tutti i giovani signori coperti di perle e di pietre preziose erano scomparsi; Quélus, Livarot, Maugiron, in duello; Saint-Mégrin, Du Guast, che l’aveva cercata a Nancy per conto di Enrico, assassinati; Anne de Joyeuse, suo cognato, ucciso durante uno degli scontri della guerra civile, forse proprio poco prima che decidesse di passare al partito della Lega… Enrico stesso dormiva, male, senza dubbio, nella sua tomba provvisoria. Un ambasciatore veneziano osservava una volta che durante i ricevimenti del Louvre lo sguardo della regina restava continuamente posato sul re, per tenerezza senza dubbio, forse anche a causa del costante timore di un attentato che finì per avvenire, ma in sua assenza. Quegli occhi fedeli avevano dovuto registrare innumerevoli immagini di Enrico. Ella rivedeva il re il giorno del loro primo incontro, in Lorena, specchio di eleganze, modello quasi stereotipato di principe rinascimentale; poi la creatura bizzarra, agghindata, imbellettata, scintillante apparizione nel chiasso e nell’atmosfera soffocante delle feste notturne; o ancora l’uomo stravolto in preda ad insanabili angosce, come il mattino in cui, terrorizzato da un sogno nel quale si era visto straziare da alcune fiere, aveva fatto selvaggiamente uccidere a colpi di archibugio i leoni dei fossati del Louvre, crimine sicuramente più atroce della inevitabile eliminazione dei Guisa. E infine l’Enrico prematuramente invecchiato, con le malattie che aveva curate, la tosse, le otiti, la fistola lacrimale, l’ascesso al braccio sinistro, l’erisipela. Sei, otto, undici anni già… L’edificio sullo Cher sembrava navigare sul tempo. Louise si addormentava cullata dal mormorio dell’acqua. A parte la preoccupazione per la salvezza eterna di Enrico, due altri crucci ossessionavano la regina bianca: far punire gli assassini del re e dare al suo corpo sepoltura definitiva a Saint-Denis, tra i suoi antenati. Certo, Jacques Clément, il monaco omicida, afferrato per la gola dallo stesso re, era caduto sotto le picche delle guardie, ma Jacques non era che un esecutore; mani più sapienti avevano diretto il colpo, che veniva da quello stesso casato di Lorena da cui proveniva Louise e da cui erano usciti anche i peggiori nemici di Enrico. La regal vedova subissava di suppliche Enrico di Navarra, finalmente salito al trono, perché perseguitasse i veri responsabili, di qualunque rango fossero o da qualunque titolo fossero protetti. Ma Enrico IV, occupato a pacificare il regno come meglio poteva, preferiva non richiamare l’attenzione sui vecchi delitti. Louise non era neppur destinata a veder realizzato il suo secondo desiderio: c’era troppa scarsità di denaro perché ci si curasse di fare finalmente dei funerali sontuosi a quel re con cui si era estinta una dinastia. Ma nuovi intrighi si stavano tessendo attorno al ritiro di Louise. L’amante di Enrico IV bramava Chenonceaux come in passato l’aveva bramato Diane de Poitiers, e il Borbone incoronato di recente non era meno arrendevole di Enrico II nei riguardi della sua bella. Gabrielle d’Estrées si abboccò con i creditori di Caterina, che continuavano ad assillare la disgraziata piccola regina: il loro portavoce, un certo Du Tillet, si impegnò, in cambio della somma di ventiduemila scudi, a farle aggiudicare Chenonceaux. Un usciere venuto da Parigi intimò a Louise di saldare senza indugio gli enormi debiti della vecchia regina; dei fogli annunciarti la vendita furono affissi alle porte del castello da cui Louise fu pregata di sloggiare senza troppe cerimonie; il Parlamento di Parigi confermò la procedura di sequestro e respinse un appello della vedova di Enrico III.

Nelle intenzioni di Gabrielle e del suo regale amante, questa serie di noie giudiziarie sembra esser stata l’equivalente del bombardamento d’artiglieria che precede l’offensiva poiché, nel febbraio del 1598, lo scaltro Bearnese e la sua amica comparvero di persona a Chenonceaux, dove venivano affabilmente a far visita alla regina. Si sarebbe fatto in modo di calmare i creditori di Caterina a patto tuttavia che il bastardo del re, Cesar de Vendôme, che aveva allora quattro anni, ereditasse la tenuta dopo il suo matrimonio con una nipote di Louise. Si può immaginare cosa dovette essere, in un mattino di bruma o di gelo, tale visita che infondeva finalmente un po’ di vita nel monotono tran-tran del castello e costringeva anche la sua povera occupante a prodigi di ingegnosità per ricevere degnamente i suoi ospiti. In quei giorni, Louise rivide al collo della signora d’Estrées i gioielli della corona, che aveva portati a suo tempo, e ci si può figurare che l’affascinante Gabrielle, forte della propria giovinezza, della propria bellezza e di una nuova gravidanza reale, dovette ostentare più o meno volontariamente una certa aria di degnazione nei suoi inchini a quel fantasma antiquato che era la regina vedova. Il Vert Galant, molto sbrigativo negli affari, assai facile alle osservazioni garbate e ai complimenti per le dame, ebbe facilmente ragione delle ultime esitazioni di una donna sfinita; in maggio, poco tempo prima della nascita di un secondo bastardo dal nome glorioso di Alexandre de Vendôme, la coppia ritornò a Chenonceaux per mettere a punto i dettagli del progetto: è probabile che la trionfante fecondità della signora d’Estrées abbia fatto fare a Louise amare riflessioni sulla sterilità che era stata la sua disgrazia di donna e la sua peggior sfortuna di regina.

In linea di massima, tale accordo un po’ avvilente lasciava a Louise l’usufrutto della tenuta, ma Du Tillet non aveva potuto farsi garante che di una parte dei creditori, eventualità su cui forse avevano fatto assegnamento gli organizzatori della manovra. Nonostante gli accordi così laboriosamente conclusi, si lasciò dunque che il resto dei fornitori di Caterina continuasse a tormentare la sventurata, che fu costretta a vendere delle perle per far fronte ai problemi più pressanti. Si può supporre che l’usufrutto lasciato a Louise non rappresentasse del resto, nei propositi della signora d’Estrées, che un compromesso temporaneo: si poteva sempre sperare che la vedova del Valois si decidesse un giorno a cercar rifugio in uno dei suoi conventi favoriti, e che Gabrielle, che nel frattempo avrebbe forse scambiato il suo titolo di duchessa con quello di regina, non dovesse attendere troppo per insediarsi comodamente a Chenonceaux con il figlioletto. In realtà, la splendente duchessa morì a pochi mesi di distanza dalla duplice visita in Turenna, per le conseguenze di una gravidanza difficile, e il Bearnese, quasi vedovo, ritornò solo, l’anno seguente, per siglare l’atto che assicurava la tenuta tanto ambita al piccolo Vendôme.

In occasione della nuova visita reale, Louise dovette supplicare una volta di più che venisse fatta giustizia degli assassini di Enrico III e che il defunto re prendesse infine possesso della sua tomba. Ma invano. Fu soltanto dieci anni dopo, quando Enrico IV cadde a sua volta sotto il pugnale di un attentatore, che ci si affrettò a trasferire nella basilica reale senza pompa alcuna le spoglie dell’ultimo Valois, poiché l’etichetta voleva che la bara del re in carica venisse ricevuta all’entrata della cripta da quella del sovrano che l’aveva preceduto sul trono. Louise allora non era più di questo mondo.

Nel 1601, nel cuore dell’inverno, la piccola regina abbandonò Chenonceaux per andare a riscuotere le entrate del suo ducato del Borbonese, che Enrico IV le aveva finalmente costituito come dovario. Era una partenza definitiva, alla quale la si forzava, o contava la poverina di ritornare a Chenonceaux, alleggerita di una parte delle sue preoccupazioni pecuniarie? Lo si ignora. Comunque sia, la regina sopportò male quel viaggio compiuto in periodo di galaverna: cadde ammalata a Moulins, dove morì il 29 gennaio. La si seppellì in una chiesa della città; in seguito la sua salma fu trasferita nella cappella di un convento parigino che aveva contribuito a fondare. Ad ogni modo non le era venuta l’idea di reclamare per se stessa una sepoltura regale. Eppure l’ottenne. Due secoli dopo, nel periodo postrivoluzionario, allorché si volle restaurare a Saint-Denis la cripta dei re, devastata e svuotata dei suoi morti, si cercarono un po’ dovunque ossa reali per riempire alla meno peggio il sotterraneo sconsacrato. Si pensò a Louise, che riposa così, paradossalmente, in mezzo a tombe vuote e a statue spezzate, accanto alle tristi bare degli ultimi Borboni. Ma troppo tardi: Enrico III non era più là. Mihi, sed in sepulchro. Anche nella tomba, Enrico e Louise non erano destinati ad essere interamente l’uno dell’altra.

Per più di cinquant’anni, Chenonceaux non fu che una magnifica proprietà abbastanza trascurata dove si arieggiavano le sale e si lucidavano gli specchi nelle rare occasioni in cui veniva a trovarsi sull’itinerario di un giro reale. Durante dodici anni tuttavia, la duchessa di Mercoeur, matrigna e tutrice di quell’intrigante arruffone che fu Cesar de Vendôme, vi si era ritirata in un esilio semivolontario, amministrando come meglio poteva la tenuta a stento salvatasi dalle controversie, anche a costo di dissodare una parte del parco per rimpinguare le rendite della fattoria. Ella ospitò nel sottotetto del castello un convento di cappuccine. Verso il 1677, riapparvero gli uscieri, inviati questa volta dai creditori del nipote di Cesar, l’ignobile ed illustre Philippe de Vendôme; essi ottennero un sequestro che durò vent’anni. I debiti del grande Vendôme eguagliavano quasi quelli di Caterina; ci mancò poco che gli alberi non venissero tagliati fino all’ultimo per pagare le pantagrueliche gozzoviglie, le mute di cani, e gli onerosi favori dei valletti del più crapulone dei principi. Nel 1696, il grosso Vendôme arricchitosi nuovamente grazie ai casi della guerra, riprese possesso della sua tenuta e vi sistemò per venticinque anni un suo vecchio compagno di bagordi: il castello per questo signor d’Aulnay non fu altro che una casa di campagna. Dopo la morte del grande guerriero sbracato, il castello passò ai Condé, dato che un ridicolo matrimonio aveva unito, già avanti negli anni, lo scandaloso Vendôme e una signorina di Condé ubriacona e sgraziata. Chenonceaux era troppo costoso per il signor Duca nelle cui mani era finito; in capo a pochi anni, i Condé vendettero la tenuta al signor Claude Dupin, che aveva cominciato come esattore delle imposte.

Nel XVIII secolo, Chenonceaux ridivenne dunque quel che era stato all’inizio della sua storia: la proprietà di un finanziere. Il signor Dupin era fermiere generale; la moglie, Louise de Fon-taine, passava per figlia naturale del Rothschild dell’epoca, Samuel Bernard; questi, in ogni caso, favori la giovane coppia. Marito e moglie appartenevano a quella borghesia ricca, inquieta, avida di letteratura e di arte alla moda, che fece lo splendore del Settecento. Le cupe pitture dell’appartamento di Louise di Lorena furono ricoperte con una mano di bianco; il castello ridivenne la dimora dei Piaceri, e anche delle belle arti e persino delle scienze, dato che le persone della buona società all’epoca di Newton si occupavano di fisica.

I Dupin avevano come protetto e quasi come parassita un certo Jean-Jacques Rousseau, che non bisognava confondere con il suo omonimo Jean-Baptiste, personaggio celebre per le sue poesie di carattere religioso e i suoi piacevoli e salaci epigrammi. Jean-Jacques, un quasi perfetto sconosciuto, aveva dei begli occhi, maniere mediocri, un temperamento atrabiliare addolcito dalla voglia di riuscire e di piacere alle belle donne, e si intendeva a sufficienza di musica per comporre ariette incantevoli. Il suo bagaglio letterario o musicale era del resto del tipo abituale: una commedia non ancora rappresentata e probabilmente irrappresentabile, un’opera di cui era l’autore, e che era stata quasi portata sulla scena proprio grazie ai buoni uffici di un membro della famiglia Dupin, un’altra cui aveva prestato soltanto la sua collaborazione, e che aveva riscosso un certo successo, ma senza che il suo nome fosse comparso sulla locandina. Infine, fatto abbastanza banale in un’epoca in cui abbondavano i sistemi e i progetti di riforme, era l’inventore di un nuovo metodo di notazione musicale, disdegnato dalla gente del mestiere, ma che avrebbe forse potuto interessare le signore alla moda, cui gli si consigliava di rivolgersi. A prima vista, nulla distingueva dunque quest’essere poliedrico dalle dozzine di strimpellatori o di scribacchini giunti nella grande città a tentarvi la fortuna. Per di più questo svizzero che cercava di farsi valere a Parigi aveva trentacinque anni, età che rappresenta al tempo stesso la fine dell’adolescenza e l’inizio della vecchiaia per una siffatta impresa. Se, cosa che nessuno si sognava di fare, si fosse scrutato nel suo passato, ciò che vi si sarebbe visto sarebbe sembrato pietoso, ignominioso o losco: la povertà, il vagabondaggio, la condizione di lacchè, un’inclinazione alla pigrizia e al furtarello, la malattia o l’ipocondria persistente, timidezze e manie sensuali, le materne elargizioni di una donna un po’ pazza e affascinante. Guardando ancor più da vicino, vi si sarebbe trovata anche una tendenza alla fantasticheria appassionata che avrebbe fatto sorridere quella società acuta e fredda, e infine, frammista a tutte le debolezze e a tutte le bassezze, e ancor più nascosta di quanto lo potessero essere quelle, la dote perigliosa del riformatore, l’incapacità di rispettare o di accettare il mondo così com’è.

I rapporti di Rousseau con la signora Dupin cominciarono con un equivoco. La donna lo aveva ricevuto alla toletta, con i capelli sparsi, le braccia nude, la vestaglia mal chiusa: poco avvezzo alle libere grazie parigine, il timido postulante credette ad un invito. Se Nattier non ha mentito, la signora Dupin possedeva una delicata bellezza da figurina di Sèvres; non più giovanissima, aveva pressappoco l’età della tenera Maman di Charmettes, che aveva impartito a Rousseau le prime lezioni di voluttà, e della signora de Larnage, di cui aveva ottenuto i favori per combinazione durante alcune serate trascorse in una locanda; proprio come le altre due amanti, costei apparteneva al mondo di donne di buona famiglia, o quasi, che popolava i sogni di questo figlio di artigiano. Brillante, amica delle arti, ritratto dell’eleganza, la signora Dupin rappresentò brevemente per Jean-Jacques il delizioso ideale che egli incarnò in seguito più a lungo nella signora d’Houdetot, e a cui infine avrebbe dato vita e realtà in Julie. Scrisse una dichiarazione appassionata che gli venne restituita con altero disprezzo. La signora Dupin era virtuosa, fatto degno di nota in una figlia e sorella di donne leggere. Però, quasi certamente, non avrebbe congedato un duca innamorato con la stessa mancanza di riguardi.

Ma se Rousseau era troppo dappoco per essere respinto con garbo, lo era troppo anche perché gli si serbasse rancore. La signora Dupin gli affidò per otto giorni la custodia del figlio, che si trovava momentaneamente senza precettore. Il giovane Dupin de Chenonceaux era destinato a dissipare al gioco una buona parte del denaro guadagnato dal padre con la riscossione delle imposte reali, o prodotto dalle speculazioni di Samuel Bernard. Fini nell’isola Bourbon, dove la famiglia lo spedì dopo uno scandalo che aveva fatto molto rumore. Questo allievo poco dotato per lo studio esasperò Rousseau che, a sentire lui, non avrebbe acconsentito ad occuparsene una settimana di più, nemmeno se la signora Dupin gli si fosse offerta in cambio. Il compito di Jean-Jacques fu più facile con il figliastro della sua protettrice, Dupin de Francueil, con cui ripassava la chimica che ignorava, del resto, quanto il suo discepolo. Lo si adoperò anche per mettere in bella copia i modesti scritti della signora Dupin, tra cui figura un Traité du Bonheur, dal titolo e dal soggetto in armonia con i tempi e tipico del Settecento quanto lo è ai giorni nostri un trattato sull’angoscia. E dunque nelle vesti di subalterno che Rousseau frequentò assiduamente l’hôtel Lambert a Parigi, dove questi finanzieri vivevano in una cornice non meno splendida di quella di Chenonceaux, e da dove lo si escludeva nei giorni in cui si riceveva l’Académie.

Tali funzioni, interrotte dal soggiorno a Venezia in qualità di segretario dell’ambasciatore di Francia, con cui Rousseau si mise in urto violento, durarono in tutto quasi cinque anni. Un magro salario annuo di novecento lire si arrotondava con le discrete gratifiche elargite dalla signora Dupin all’unione illegittima del suo uomo di lettere, e Rousseau, che si commuoveva sempre ai regali delle donne, non rifiutava quei piccoli presenti, come invece in seguito, divenuto filosofo, avrebbe respinto con rabbia i vasi di burro di un ammiratore. Nel 1747, i Dupin lo condussero a passare l’autunno con loro a Chenonceaux.

L’invito dovette piacere a un uomo costretto da due anni in camere ammobiliate di Parigi, e inoltre forse abbastanza sollevato di lasciare momentaneamente l’insulsa Thérèse che aveva giurato di non abbandonare né di sposare mai, e tutta una disastrosa famiglia irregolare. Ma in ogni tempo, e fino alla Raspelière dei Verdurin, le case di campagna della società parigina sono servite soprattutto da sfondo campestre ai divertimenti portati dalla città, e ciò che l’invitato, che era ancora solo il compositore delle Muse galanti, ritrovava, e del resto gustava in quello scenario fiabesco al punto da ricordare un fondale d’opera, era il lusso dell’hôtel Lambert trasferito sulle rive del fiume e sotto gli alberi, i violini, i clavicembali, la possibilità da far valere i suoi piccoli talenti di società senza cui non sarebbe appartenuto al suo secolo:

Nel 1747, ci recammo a trascorrere l’autunno in Turenna, al castello di Chenonceaux, residenza reale sullo Cher, ed ora di proprietà del signor Dupin, fermiere generale. Ci si divertì molto in quel luogo; vi si mangiava assai bene: vi divenni grasso come un monaco. Vi si fece molta musica. Vi composi parecchi terzetti vocali, ricchi di notevole armonia… Vi si diedero delle rappresentazioni teatrali. In quindici giorni, io scrissi una commedia in tre atti intitolata L’Engagement téméraire. Vi composi altre piccole opere, tra cui un lavoro in versi intitolato L’Allée de Sylvie, dal nome di un viale del parco che fiancheggiava lo Cher; e tutto ciò si fece senza interrompere il mio lavoro sulla chimica e quello che facevo presso la signora Dupin.

Questo breve passo, unico documento che ci resti di quelle vacanze in Turenna, basterebbe a dimostrare che per il preromanticismo la poesia della storia restava da scoprire. A Chenonceaux, Jean-Jacques non indugiava a commuoversi sul passato.

Dunque, non si è verificato nulla di essenziale per Rousseau durante quelle quattro o cinque settimane di operosi piaceri: un intermezzo alla Watteau, un tempo inutile nella vita di questo velleitario che non sapeva ancora dove l’avrebbe condotto il suo vero genio. Eppure, ogni uomo è racchiuso così bene nella sua interezza in ogni frammento della sua vita che non è difficile ritrovare a Chenonceaux tutto Jean-Jacques. La padrona del luogo ha avuto la sua importanza tra le scarse esperienze romantiche, più sognate che vissute, che hanno finito per condurre questo goffo spasimante all’ardente fusione di saggezza e di follia della seconda parte della Nuova Eloisa, uno dei più bei romanzi d’amore e insieme uno dei più misconosciuti. I suoi due allievi, Dupin de Chenonceaux e Dupin de Francueil, l’appassionato di tris e l’appassionato di chimica, sono stati per Rousseau uno dei suoi rari tentativi di pedagogia pratica; essi hanno potuto ispirare alcuni dei precetti o dei consigli dell’Emilio, dedicato nel 1761 alla giovane e commovente signora di Chenon-ceaux, malinconica sposa del giocatore espatriato nell’isola Bourbon. I terzetti composti durante quell’autunno in Turenna hanno anticipato quelli dell’Indovino del villaggio; ha portato nei viali del parco le sue fantasticherie di passeggiatore solitario; la cortesia sapientemente dosata della padrona di casa o di un viandante socievole, o forse l’insolenza di un valletto che indovinava in quel signor Rousseau l’antico domestico, hanno potuto farlo riflettere sull’ineguaglianza fra gli uomini; quanto sapeva della fortuna del fermiere generale è forse all’origine di certe osservazioni del Contratto sociale a proposito del fisco in regime monarchico. Quelle persone di mondo così ben inserite nel loro tempo che ne accettavano persino le libertà, finché le giudicavano inoffensive, non sospettavano (più di quanto non sospettasse lo stesso Rousseau) che quanto quel loro segretario troppo ben nutrito preparava a Chenonceaux era il romanticismo e la rivoluzione.

“Lo scribacchino della signora Dupin” ritornò in rue Saint-Jacques: “Mentre io ingrassavo a Chenonceaux, la mia povera Thérèse ingrassava a Parigi in un’altra maniera.” Situazione difficile, che gli suggerì l’idea di utilizzare l’istituzione dei trovatelli. Ha provveduto meglio alla sua progenie spirituale, poiché la sua influenza, diretta o indiretta, si perpetua ancora oggi in quasi tutti i temi che si toccano, che si tratti di letteratura o di educazione, dei rapporti dell’individuo con la natura o dei suoi rapporti con lo stato, poiché il suo gusto della sincerità persino nell’inconfessabile ha contribuito a trasformare la nostra concezione dell’uomo, e la cura appassionata di sfrondare la vita del convenzionale o del superfluo per riafferrarne i valori essenziali si è trasmessa, attraverso una lunga serie di intermediari, a Ibsen, a Shaw, a D.H. Lawrence, e per la mediazione di Tolstoj, a Gandhi. Nelle Confessioni, la visita a Chenonceaux conclude in certo qual modo il periodo dell’apprendimento sociale in Jean-Jacques: in seguito i suoi rapporti con i Dupin si allentarono, un po’ perché si affezionò ben presto alla giovane signora di Chenonceaux, la nuora nata Rochechouart che la signora Dupin si divertiva, sembra, a tiranneggiare, ma soprattutto perché Rousseau si immerse sempre più nella sua opera. Resta oggi l’unico uomo di cui cercavamo la traccia nel brillante Chenonceaux del XVIII secolo, fra la moltitudine iridescente e folleggiante di una fine estate.

La signora Dupin si ritirò definitivamente nella sua casa di campagna dopo la morte del fermiere generale; la tenuta finiva così nuovamente nelle mani di una vedova, e che si chiamava anche lei Louise. Ma tale vedovanza non ebbe nulla di tragico. Durante trent’anni, la signora Dupin trascorse nella bella dimora la vita sempre più rallentata degli anziani. La stessa Rivoluzione disturbò appena il torpore di quella vecchiaia; il curato del villaggio, che simpatizzava per le nuove idee, era un amico di casa; permise che i rivoltosi martellassero gli stemmi e bruciassero i documenti muniti di firme reali, ma quando degli agitatori da osteria proposero di distruggere questa dimora che era appartenuta ai tiranni, egli, com’è risaputo, fece in modo di ritirar fuori il vecchio cavillo previsto dai procuratori legali di Diane de Poi-tiers: Chenonceaux era passato di privato in privato, e non era mai stato una proprietà della corona. Inoltre, il castello era un ponte, ed i buoni repubblicani non distruggono i ponti. La signora Dupin diede un suo personale contributo all’edificazione dei rivoluzionari; oltre ad aiuti in denaro, ella prestò ad un teatro creato “per istruire il popolo” delle scene che forse erano state quelle dell’Engagement téméraire. Passata la tempesta, messo da parte comprensibilmente il gusto per le riforme, la vecchia signora mostrava con un sorriso ai suoi rari visitatori la camera di quello che lei chiamava l’Orso di Ginevra, salito nel frattempo al rango di pericoloso giacobino e di grand’uomo. Può darsi che il ricordo dell’ardore amoroso manifestatole quarant’anni prima da Jean-Jacques lusingasse ora la novantenne. Può anche darsi che ella l’avesse completamente dimenticato.

La proprietà sulle rive dello Cher appartenne per buona parte dell’Ottocento al nipote di Dupin de Francueil, il conte di Villeneuve. Nel 1845, George Sand, nata Aurore Dupin, fece visita ai suoi cugini di Chenonceaux, accompagnata dal figlio maggiore Maurice; da una sua lettera apprendiamo che si meravigliò della bellezza del luogo, apprezzò particolarmente l’interno “sistemato all’antica”, ed osservò con materna indulgenza che Maurice si divertiva moltissimo a vuotare dalle finestre del castello il suo vaso da notte nel fiume. Più tardi, il castello cadde nelle mani di una signora Pelouze, sorella del concussionario Wilson che fu il deplorevole genero del presidente Grévy. Il fratello e la sorella diedero a Chenonceaux delle feste elettorali e vi sparsero l’eco e l’odore degli scandali della Terza Repubblica. La signora Pelouze e suo fratello erano di origine scozzese: può darsi che i mediatori abusivi venuti da Parigi, al momento del sigaro, rivolgessero dei complimenti a Maria Stuarda per compiacere alla loro ospite. E più probabile che la loro conoscenza della storia del castello si limitasse al secondo atto degli Ugonotti di Meyerbeer, ambientato, com’è noto, nei giardini di Chenonceaux, e che si apre con la grande aria della regina Margot che celebra la bella Turenna. In ogni caso, è nello stile di Meyerbeer e di Scribe che la bionda Pelouze e il suo astuto fratello ebbero cura di decorare la loro proprietà.

A dire il vero, non era la prima volta che il denaro degli affari, che sono quello che sono, si riversava su Chenonceaux ma il gusto, a dir poco, era degenerato tra i Bohier-Semblançay e i Pelouze-Wilson: una delle peggiori disavventure del castello fu di esser stato restaurato per interessamento di questi ultimi, e sotto la direzione dell’architetto di Sainte-Clotilde. La signora Pelouze fece dei debiti, che la vendita di croci della Legion d’onore non bastò a coprire; neppure il fallimento ed il sequestro che ne seguirono erano catastrofi nuove per Chenonceaux.

Prima di questo episodio grottesco, la vecchia tenuta ricevette ancora una visita regale. Nel 1847, Gustave Flaubert, ventiseienne, ne fece una delle tappe preliminari di una lunga gita in Bretagna con Maxime Du Camp. I due viaggiatori ammirarono del castello “la soavità singolare” e “l’aristocratica serenità”. Si mostrò loro quanto si poteva visitare allora, e le brevi annotazioni di Flaubert in Per campi e per lidi danno un’idea di come fossero quegli interni, decorosi e senza lusso, con le loro vecchie tappezzerie e i loro autentici caminetti rinascimentali, prima che la signora Pelouze vi sovrapponesse allo stile Enrico II quello del Secondo Impero. Non si dimenticò la cucina, e Flaubert, forse affamato per il lungo cammino percorso a piedi, e sempre sensibile alla poesia delle vivande, si incantò davanti all’abbondanza di pentole fumanti, di cui però, meno fortunato di Rousseau, non potè gustare il contenuto. Ma l’immaginazione storica si era sviluppata dai tempi di Jean-Jacques. Nell’Educazione sentimentale, è a Fontainebleau che Frédéric, trascurando col pensiero la sua affascinante e banale amante, si immerge in una concupiscente fantasticheria davanti alle immagini e agli emblemi di Diane de Poitiers, ma sembra proprio che sia a Chenonceaux che Flaubert stesso abbia incontrato per la prima volta quel ricordo. Nella camera detta di Diane, gli si mostrò come appartenuto alla favorita un certo letto a baldacchino in damasco rosso ciliegia e bianco, ed egli pensò allo straordinario piacere che si sarebbe provato rigirandosi su un materasso che era stato dell’amante di un Valois, voluttà che valeva bene, a suo parere, quelle procurate da più tangibili realtà. Gli si fecero vedere dei vecchi ritratti, davanti ai quali egli sognò di antichi balli e di colpi di spadone. Gli vennero mostrate anche delle armature in una sala d’armi, un gigantesco corno da caccia, una staffa che sarebbe stata quella di Francesco I, delle ceramiche di Caterina de’ Medici. Era cominciata l’età dei turisti.

Cambiamo prospettiva: accantoniamo le figure troppo note, i profili della lanterna magica della storia di Francia, o della storia letteraria della Francia. Dedichiamo un pensiero ad altri occupanti del castello, abitanti anonimi che superarono in numero quelli che noi conosciamo o crediamo di conoscere: i domestici con le loro incombenze, i loro intrighi, le loro preoccupazioni personali, i cuochi che all’interno dei piloni dell’antico mulino hanno sgozzato, spennato, sbudellato, tagliato, arrostito e sbollentato, preparando nel corso di quattro secoli migliaia di pasti, i valletti che si occuparono una stagione dopo l’altra del mobilio che si portavano dietro di castello in castello i principi e i signori del Rinascimento; quelli che lucidarono i cassoni di Caterina de’ Medici e spolverarono le dorature dei Dupin; gli Scapini e i Mascarilli del cavalier d’Aulnay, e le serve in grembiule bianco del conte di Villeneuve. Usciamo dal castello: pensiamo ai giardinieri che fecero, disfecero e rifecero le aiuole o le siepi, alle oscure dinastie di fattori e di guardiacaccia, che ebbero anche loro, senza dubbio, individui speculatori ed individui scialacquatori, mogli energiche e tristi vedove. Ricordiamo i muratori in piedi sulle loro impalcature, l’architetto intento ad esaminare il suo progetto e a rallegrarsi con cognizione di causa della bellezza del materiale o dell’audacia delle strutture. Allontaniamoci di qualche passo: pensiamo alle innumerevoli generazioni di uccelli che hanno volteggiato attorno a quelle pietre, alla sapiente architettura dei nidi, alle genealogie reali degli animali della foresta e alle loro tane o ai loro ripari senza fasto, alla loro vita nascosta, alla loro morte quasi sempre tragica, e così spesso dovuta agli attentati dell’uomo. Un altro passo lungo i viali: pensiamo alla grande razza degli alberi le cui diverse specie si sono succedute o sostituite le une alle altre in questo sito che per antichità fa impallidire i quattrocento o cinquecento anni dei verdi giganti. Discostiamoci ancora un po’ da ogni preoccupazione umana, ed ecco l’acqua del fiume, l’acqua più vecchia e più nuova di ogni forma, e che da secoli lava i cenci della storia. La visita alle vecchie dimore può condurre a punti di vista inaspettati.

Mount Desert Island. 1956 e 1961

tratto da Marguerite Yourcenar, Con beneficio d’inventario, trad. it. Fabrizio Ascari, Milano 1985.

Titolo originale Sous bénéfice d’inventaire, Parigi 1962.

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