In questo oscuramento di menti – la guerra è cosmica – la finestra Ernst Jünger ancora illuminata, consola.
Ha gli anni del Cinema, Jünger. Nacque molti mesi prima che i Lumière fissassero il movimento idiota di un tale, innaffiato dal proprio annaffiatoio, in una stazione senza pensilina. Nacque quando in Italia regnava ancora Umberto I e a Londra la grande Vittoria regina. L’Europa era in pace e nessuno immaginava in quale voragine tutti sarebbero precipitati diciannove anni dopo. E Jünger, pistola in pugno, a caccia d’uomini in Fiandra, a Verdun, dentro alle Tempeste d’Acciaio, dove la morte mieteva più che nella pestilenza nera del secolo XIV. Pareva scritto per lui il versetto del salmo 91: «Mille ne cadranno al tuo fianco diecimila alla tua destra: tu non sarai toccato». Fu toccato, in verità, fu coperto di ferite, ma non ghermito; in lui il Destino, un Dio preservò un patrimonio di pensiero, un lievito di futuro: particelle di luce furono strappate alla morte perché il feroce combattente che le aveva ricevute in dono le sparpagliasse per il mondo della tenebra.
Particelle di luce di chi ebbe anche familiarità con le tenebre; perché non frequentandole non si può dire di averle veramente guardate in faccia: così come la guerra, neppure i sistemi totalitari, le droghe, la politica in quanto parte integrante della tenebra furono ignoti a Jünger. Con quei vasti rimandi al pensiero magico, a quella parte di contatto col mistero del mondo che sempre si manifesterà estaticamente e con l’aiuto della follia, Jünger sul punto dove il Logos, come gli apostoli in Cilicia, non può penetrare, grazie alla sua natura di grande Anarca, di transfuga dalla mobilitazione razionalista universale, s’inoltrò con la stessa intrepidezza del combattente che avanzava in testa verso la linea del fuoco.
Un giorno, certamente, diventerà patrimonio pubblico la sua smisurata collezione di insetti. L’attrazione per gli insetti è in bilico, anche questa, tra magia e tenebre: difficile, nell’insetto, intravedere l’agnello o l’ulivo. C’è un Agnello di Dio ma non c’è un Coleottero di Dio, una Mosca di Dio, un Ragno di Dio, una Cimice… Neppure la farfalla, sebbene vista come simbolo dell’anima liberata: è un verme alato, che con lo splendore dei colori si sforza di far dimenticare il suo passato che sempre ritorna, la sua vera natura di verme.
La mirmecologia è una scienza di abisso: tutto è crudeltà, violenza, schiavitù e sopraffazione nelle repubbliche delle formiche, ma in un ordine perfetto. Ora, tutta la società moderna tende a ricreare la perfezione del formicaio, violenza istituzionalizzata e garanzia di funzionamento illimitato: tenebra su tenebra. Non riuscendo a essere formicaio che molto imperfettamente, ci fa soffrire la nostra profonda infelicità di schiavi mancati.
Un vero sociologo dovrebbe essere anche mirmecologo, capirebbe meglio dove tende e dove più brancola nell’imperfezione il nostro impulso sociale.
Guardò le api vere, altro perfetto mondo totalitario, e le immaginò di vetro, quelle del giardino di Zapparoni. Questa favola satirica, Le api di vetro, del 1957, è centrale nella denuncia jungeriana degli orrori della Tecnica. Là, nelle officine di Zapparoni, si varca l’assoluto dell’atroce: «la soglia del mondo indolore». Su chi la passa, il tempo non ha più potere, nessun brivido lo scuote più, entra come Tito nel Tempio incendiato da minchione che può tutto, eccetto rabbrividire ad un’apparizione dell’irreparabile. Dal 1957 al Duemila, l’universo Zapparoni ha avuto tempo di estendersi a tutto quel che per la mente esiste, e il disagio per chi non riesce a pensarsi ape di vetro e a pensare da vetrificato è forte, una tortura che solo con la morte ti lascia.
Ha una bellezza la solida, misteriosamente protetta da occulte forze crepuscolari, vecchiezza quasi senza termine di Jünger. La si ammira come un’operazione tra le più rare degli alchimisti della natura. Oltre, ben oltre i raccapriccianti novanta, lo scrittore svevo ha continuato a distillare pensiero, ad esplorare caverne impensate, a volte popolate d’insetti mai visti, simili alla romena della Pestera, dove di sicuro avrebbe voluto discendere… Ha una bellezza la vita di uno scrittore che attraversa le vicende di un intero eone, con la presenza lucida e i riflessi ben calzati di un equilibrista su un filo d’acciaio sopra una sterminata voragine.
Aveva ventidue anni quando Lenin prese il potere: quegli stessi occhi che videro allora questa ascensione di spavento, hanno veduto la fine dell’Unione Sovietica, il ripristino del nome di San Pietroburgo e la riunificazione della Germania. Udì il rimbombo dei colpi sparati da Danilo Prinkip a Sarajevo e oggi può vedere sul video il ritorno minaccioso di Sarajevo tra i chiodi che crocifiggono l’immagine umana. Aveva diciassette anni quando i giornali illustrati mostrarono l’immane cetaceo tecnico Titanic urtato dalla Némesis sbucata dall’Artide per punirne l’arroganza, e oggi può seguire su qualsiasi giornale l’avvicinarsi, tra i cavalli di Frisia pieni di varchi che circondano le posizioni fortificate della libertà d’Occidente, di un terrore teocratico totalitario con bramosia di distruggere e di schiacciare, più feroce dei Thugs e del Vecchio della Montagna, sopportabile da api di vetro ma da esseri umani no – può osservare in tutto la formazione di una unità planetaria dello smog e della malavita, e il dominio del cifrario elettronico sull’insanguinata ragione.
Non essendo cristiano, e piuttosto blandamente un Occidentale, Jünger non avrà avuto tormenti, non avvertirà neppure il fiato del Duemila nella sua rocciosa cervice. L’insetto è realmente millenario, e questa nostra idiozia di terzo millennio non ne brucia le ali. L’insetto ha particelle di luce che la tenebra non può afferrare. Una buona certezza che abbiamo è che quella volgare soglia non sarà varcata, alla Zapparoni, in modo indolore. Mescolate alle api di vetro, ci saranno ancora anime che dolorano.
Tratto da: Guido Ceronetti, Cara incertezza, 1994
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