Riccardo Dalisi – Gocce di latte
Le radici antropologiche del sud e la sfida alla società dei rifiuti.
Nel 1982 in quella Napoli post-terremoto, lui era professore di Composizione architettonica della Facoltà di Architettura e io ero un suo studente. Il suo interesse era rivolto al recupero dei grandi edifici del centro storico di Ponticelli (antico casale di Napoli). Pezzi di edilizia di origine rurale raccolti intorno a grandi corti chiamate “e Curtine” che Dalisi amava definire soggiorni a cielo aperto. Luoghi su cui si sono stratificati nel tempo corpi, ambienti dettati da continue necessità agricole prima, urbane dopo. Bisogni che si erano sedimentati, idee, carne e sudore che nel tempo avevano preso forma. Muro contro muro, voltine che sorreggono ballatoi e terrazzini, scale su archi rampanti; in ogni angolo, in ogni spazio residuo si inserivano nuovi pezzi, nuove necessità. Tutto intorno ad un vuoto: luogo dove si raccoglie un pezzo di umanità emarginata quella che un tempo veniva denominato sottoproletariato urbano. Quell’apparente disordine formale era stato creato da un’antica e lunga operosità che aveva raggiunto, nel pieno della modernità, una densità abitativa critica. Quell’importante pezzo di storia, quegli elementi caratterizzanti del paesaggio locale andavano recuperati dandogli un ruolo nella città moderna.
Bisognava inserire nuovi standard abitativi pulendo gli eccessi, diradando e inserendo cellule abitative nel tessuto tortuoso esistente. La cucina e il soggiorno erano i luoghi che avevano bisogno di una riflessione particolare. L’idea del gruppo di studio era d’inserire sulla parete finestrata un blocco cucina sul modello americano. La critica del professore fu quella che vicina alla finestra era il posto del tavolo. Il luogo dove i bambini fanno colazione e godono la luce diretta del sole. Ricordo un ulteriore particolare nelle sue parole, che allora mi sembrava strano, estraneo alla formazione di un architetto; soprattutto in quell’ambiente dominato dal razionalismo. La sua lezione di come disporre gli spazi passò anche sul latte versato sul tavolo La macchia di latte, diceva, che sempre i bimbi fanno versare sul tavolo, diventa matrice di disegni che il piccolo dito propaga sul piano verso l’esterno come raggi che esplodono dal nucleo. Questo particolare ricordo mi appare alla mente, mentre visito il suo studio e le sue opere. Diventa la mia chiave di lettura per capire la sua produzione artistica di come nasce e si sviluppa: da un nucleo originale che si dirama verso l’esterno conquistando lo spazio e la luce. Le sue composizioni mi appaiano come originate da quel processo che si manifesta sia nel disegno con il latte sul tavolo sia nell’antropologia delle grandi conformazioni architettoniche di Ponticelli.
Da quella cultura antica e popolare dove le cose si stratificano, si dilatano dettate dalle necessità sia da continue ispirazioni espressive e sia da un lungo processo di identità culturale. Oggi nel suo studio, a distanza di 30 anni, vedo nella sua produzione anche una sfida contro quella civiltà del consumo e dei rifiuti. Nel suo fare si evidenzia un programma, un modello di società che nega il rifiuto dove i materiali non muoiono mai perché hanno un’altra possibilità, una nuova possibilità di prendere vita. Un programma artistico profondamente radicato nella cultura materiale dei luoghi che si sta concretizzando anche con l’esperienza laboratori dei giovani del Rione Sanità di Napoli e con gli artigiani di Rua Catalana. Immagini di arcaiche di divinità si mischiano con personaggi di favole. Disegni dai tratti primitivi e infantili che si depositano uno dopo l’altro, in un ambiente e in una Napoli, in un sud che i poeti descrivono contemporaneamente disperata e vitale. Nello studio-laboratorio segni si sommano ad altri segni, bozzetti a bozzetti, modellini di caffetterie a modellini di oggetti con misteriose funzioni saturando ogni spazio, ogni angolo possibile. Le cose si accumulano e negano il loro destino, la deriva che conduce al rifiuto.
Il lavoro quotidiano a cui il maestro si dedica ha la funzione di ridargli vita, trasformandoli in preziosi oggetti d’arte. Il professore ci illustrata disegni dove le campiture vengono coperte con bucce di caramelle o gocce di caffè rimaste nella tazza dopo il suo consumo e metalli che sembrano sempre raccolti e riportati in vita da un deposito di rifiuti. Ancora una volta quello che si vede sembra essere realizzato per dare l’opportunità al bambino di creare forme sotto il sole. In questo suo studio, che è anche un tortuoso spazio laboratorio, si depositano continue idee e forme che vanno oltre la vita personale dell’artista. Qui un esercito di oggetti con significati lontani dai valori che dominano il mondo contemporaneo sembra pronto a riempire di senso la città desertificata dai miti del consumismo. Prima di salutarci, attraverso il balcone, ci indica la Napoli millenaria che sembra uscire dal mare o forse sprofondare in esso.
Antonio Guarino, Riccardo Dalisi – Gocce di latte. Le radici antropologiche del sud e la sfida alla società dei rifiuti, in «Diari», (2010).