“Il giorno e la notte sono i viaggiatori dell’eternità… Anche coloro che guidano un traghetto o conducono tutti i giorni il loro cavallo nei campi finché muoiono di vecchiaia viaggiano continuamente. Molti uomini dei tempi andati sono spirati sulle strade. Anch’io sono stato tentato dal vento che sposta le nubi e preso dal desiderio di viaggiare.”
Così parlava, verso la fine del XVII secolo, il poeta giapponese Bashō, vagando per le province del Nord sui sottili sandali di paglia (quanti sandali consumati e lasciati sul ciglio della strada nel corso di un simile viaggio!), con in testa il cono di vimini che costituisce ancor oggi il copricapo dei monaci erranti e dei pellegrini. Cammin facendo, egli visita il tempio del Chuson e il suo santuario tutto d’oro popolato di statue del medesimo metallo, che fanno sgranare ancor oggi gli occhi dei pellegrini e li portano a sognare le magnificenze della Terra Pura. Le miniere della regione avevano alimentato i lontani splendori del Fujiwara; nonostante fossero esaurite da secoli, ossessionarono ancora con il loro miraggio Cristoforo Colombo, per il quale il Cipango (cioè il Giappone) era una delle mete, che egli credette in un primo tempo di trovare nel mar dei Caraibi. Non si sbagliò che di un oceano. Le vesti di galache l’ammiraglio aveva portato con sé in vista di un ipotetico incontro con l’imperatore, il grande daimio, come si diceva allora, o il grande dairi, non gli servirono. Ma quelle vecchie miniere e quei navigatori venuti da oltremare, di cui probabilmente ignora quasi tutto, non interessano Bashō, che vive forse più di ogni altro nell’eternità dell’istante.
Non che disdegni il passato: un poeta così a proprio agio nell’istante non può che tener conto dei milioni d’istanti già vissuti in precedenza e che restano presenti finché ne persistono un ricordo o un’impressione. Vicino a Hiraizumi, egli medita nel luogo dove il più amato tra i giovani eroi medievali del Giappone, Yoshitsune, perseguitato da un fratello ingrato che gli era debitore della propria ascesa al potere, aveva trovato rifugio, ma per finire tradito dai figli del suo protettore, al termine dei riti funebri in onore del loro padre defunto. Proprio lì, davanti alla sua dimora assediata dal nemico, il suo intrepido scudiero, il gigantesco Benkei, un ex monaco un po’ brigante, era morto in combattimento, trafitto da frecce, sostenuto dalla sua solida armatura, proteggendo ancora validamente la soglia per consentire al suo principe di attuare all’interno il proprio suicidio. Bella storia, che ha ispirato numerosi cantori di ballate a partire dal Medio Evo: e Bashō stesso incontrerà sul suo cammino almeno uno di questi cantori ciechi. Ma il poeta, di tale eroismo e di tale fedeltà indomabile, non conserva che un’essenza: sogna, sul limitare di un prato dove ondeggiano dolcemente gli alti steli del susuki, le grandi erbe pendule e tremolanti che, da un capo all’altro del Giappone, palpitano l’estate lungo le strade:
Le erbe dell’estate:
Ecco tutto ciò che resta
Dei sogni di guerrieri morti.
Questo girovago, che ha intitolato uno dei suoi saggi Ricordi di uno scheletro esposto alle intemperie,5 viaggia più per subire che per istruirsi o commuoversi. Il subire è una facoltà giapponese, spinta talvolta fino al masochismo, ma l’emozione e la conoscenza in Bashō nascono da questa sottomissione all’avvenimento o all’incidente. La pioggia, il vento, le lunghe camminate, le ascensioni sui sentieri gelati delle montagne, gli alloggi di fortuna, come quello del dazio a Shitomae, dove divide una stanza dal pavimento in terra battuta con un cavallo che urina tutta la notte, e dove le pulci lo divorano fino all’alba; o ancora quella locanda in cui i mormorii di due cortigiane e di un vecchio gli impediscono di dormire, infastidito forse, o forse scheletro ancora soggetto al desiderio. Quel che ricorda è che uno stesso tetto ha offerto riparo a persone così diverse, tra gli stessi cespugli e sotto la stessa luna. La vista della pesca con i cormorani gli fa pena. Pena per i pesci divorati, pena per i grandi uccelli frustrati che vengono costretti a vomitare i pesci sanguinolenti, o pena per noi tutti? In una cala, alcuni pescatori hanno disposto dei vasi in cui catturano i polpi; rinchiusi tra le pareti della loro prigione, essi si abbandonano a un “breve sogno” prima di essere fatti a pezzi per servire da cibo; un cavallo strappa a uno a uno, per pascersene, i fiori di un arbusto. A Matsushima, davanti al grandioso paesaggio di scogli e isolotti non ancora inquinati ai suoi tempi, gli mancano le parole per andare al di là delle parole: compone la tradizionale poesia di diciassette sillabe, accompagnando il nome della baia con una serie di esclamazioni: “Oh, oh, Matsushima, oh, oh…” Il procedimento non è assurdo per un poeta che vede soprattutto nei suoni la punteggiatura del silenzio. Il più famoso dei suoi haiku7 si limita a evocare il “ploff” della rana nello stagno, che accresce ancora, interrompendola per un istante, quella liquida, quella muta serenità.
Come ogni viaggiatore partito per un lungo periodo, egli si porta dietro del bagaglio: abiti di ricambio, più pesanti o più leggeri, medicine, arnesi del suo mestiere (il suo è quello di essere poeta e, dunque, anche pittore), senza contare gli oggetti di cui ci si sovraccarica perché ce li ha dati un amico o perché servono forse a provarci la nostra identità. Il suo bagaglio personale gli grava tutto sulle magre spalle. Enumera un mantello contro il freddo delle notti, ma il cui peso lo fa sudare al sole; un kimono di cotone per il riposo che segue al bagno bollente, delizia della sua razza, al quale persino un asceta non rinuncia; una di quelle cappe di paglia per la pioggia che fanno somigliare chi le porta a un mucchio di riso in movimento; dell’inchiostro, dei pennelli, e tutto l’occorrente per scrivere; e infine dei regali ricevuti alla vigilia della partenza, che non ha osato rifiutare e che non si sente nemmeno di abbandonare per la strada. Quest’uomo in cammino sulla terra che gira – ma lo sa che gira? Tutto considerato, poco importa – è anche come tutti noi in cammino dentro di sé: i dati registrati all’interno del suo cervello, e che di giorno in giorno crescono, si offuscano, o si modificano a causa di nuove impressioni; le viscere che si muovono nel suo ventre come le spirali delle nebulose ^morirà per una malattia intestinale); il sangue che scorre o ristagna nelle sue vene di uomo già maturo. Viaggi sovrapposti gli uni agli altri. L’ultima tappa fu Osaka, dove nulla faceva ancora presagire la grande città, dura e americanizzata, di oggi. Una dissenteria autunnale se lo portò via. Si aspettava con una certa avidità la poesia tradizionale degli ultimi momenti, ma Bashō aveva detto già da parecchi anni che tutte le sue poesie erano poesie di ultimi momenti.
Non si vede due volte lo stesso ciliegio, né la stessa luna contro cui si staglia un pino. Ogni momento è ultimo, perché è unico. Nel viaggiatore, tale percezione si acuisce per l’assenza delle abitudini fallacemente rassicuranti, tipiche del sedentario, che inducono a credere che l’esistenza resti per sempre così com’è. La notte prima della sua morte, Bashō scarabocchiò alcune righe incompiute che non erano, a dire il vero, la rituale “ultima poesia”; ma i suoi discepoli delusi dovettero accontentarsene. Egli vi si mostrava errante in sogno su una landa autunnale. Il viaggio continuava.
L’amicizia costella la strada. E per compiere un pellegrinaggio in suffragio dell’anima di un giovane signore di cui era stato il condiscepolo e l’amico che Bashō si è messo in cammino per la prima volta. E presso un’amica, monaca e poetessa, che terminerà a Osaka il suo ultimo viaggio. Nel frattempo, amicizie nuove si susseguono. Si contempla insieme la luna d’estate; ci si esercita a comporre “catene” di haiku, esercizio in voga in un’epoca in cui la poesia era, al tempo stesso, un modo di vivere e un gioco di società, mentre ora non è né l’uno né l’altro. Ci si separa con sforzo, “come se si strappassero le due valve della conchiglia di un mollusco”. E l’amicizia, e non l’amore, che ispira la grande poesia dell’Estremo Oriente. Il corpo dalle “cento ossa e dai nove orifizi” e l’anima, sentita come un cencio che si agita al vento, fraternizzano cammin facendo con altri corpi, con altri cenci. La “vecchia borsa da viaggio consumata” si imbatte in altre vecchie borse che il caso mette sulla sua via.
Un amico giapponese mi ha guidata, in una periferia di Kyoto relativamente risparmiata dalla speculazione edilizia, verso quella che fu una delle ultime tappe del poeta. La sua capanna, a Edo, era stata incendiata mentre lui era vivo (gli incendi erano un male endemico a Edo come a Costantinopoli); i suoi discepoli la ricostruirono quasi allo stesso posto, ma capanna e giardino sono scomparsi nell’enorme crescita della Tokyo moderna. A Kyoto, la casetta di un amico che lo ospitò verso la fine della sua vita, Rakushisha, “la casa dei kaki caduti a terra”, invece esiste ancora grazie alle elargizioni di alcuni letterati che provvedono alla sua conservazione.
Guscio semispezzato, questa casetta fa pensare alla spoglia leggera di una cicala. Bashō stesso l’ha descritta nella stagione delle piogge: “Il ritiro del mio discepolo Kyorai8 si trova tra i boschetti di bambù di Shima Saga, non lontano dal monte Arashi e dal fiume Ôi. Avvolto dal silenzio, è un luogo ideale per la meditazione. Il mio amico Kyorai è così indolente da lasciare che le erbe arrivino a coprirgli le finestre e che i rami carichi di kaki gli pesino sul tetto. I buchi nella copertura di paglia sono numerosi, e le piogge di maggio fanno ammuffire le stuoie al punto che non si sa neanche dove coricarsi…” Il monte Arashi è sempre là, e sono sempre là anche i bei bambù, più dritti e più fieri, sembra, che in ogni altra parte del Giappone. Accanto alla porta, si è appeso a un chiodo un grande cappello rotondo da pellegrino. All’interno, se si può parlare di interno in un luogo così aperto alle intemperie, riparo più che abitazione, lo scarso arredamento, costituito da stuoie e da utensili, deve assomigliare a quello di cui si servivano il poeta e il suo amico. Un braciere incassato nel pavimento, che oggi contiene solo cenere, ha dovuto diffondere un po’ del suo calore avaro. Quando si legge Bashō, si è colpiti nel vedere come le stagioni, così attentamente seguite nel loro ciclo, vengano sentite sia per gli inconvenienti e i malesseri che portano sia per l’estasi degli occhi e dello spirito che la loro bellezza dispensa. L’estate, la stagione calda e umida, è accompagnata da nugoli di zanzare, e l’umidità fa marcire tutto; ma è soprattutto al freddo dell’inverno che Bashō sembra sensibile. Durante le lunghe camminate, la sua ombra lo accompagna “gelata sul terreno”. In una capanna in cui trascorre la notte, spenta la lampada, gira attorno al braciere mezzo morto, rianimando come può le proprie membra intirizzite. La natura viene amata nonostante gli aspetti penosi, o talvolta sconvenienti, che dei poeti occidentali passerebbero discretamente sotto silenzio; per questo giapponese, invece, gli insetti che corrono sulla pelle fanno sentire meglio l’estate; senza le mani e i piedi intorpiditi, la neve dell’inverno non sarebbe più reale di quella di un dipinto.
Sulla soglia della casetta dei kaki caduti, Bashō ascolta lo scorrere dell’acqua da una pompa rustica, la cui erogazione intermittente è punteggiata dal rumore secco dei due condotti di bambù che si congiungono l’uno all’altro; i frutti si schiacciano sul terreno, troppo copiosi per essere raccolti. Pensa che la strada di montagna che va da Kyoto a Osaka è erta, e i suoi passi meno sicuri di un tempo? E lì che, ricevendo in sé presagi di morte, ha composto lo haiku che è forse la sua più bella poesia?
La sua morte prossima.
Nulla la fa prevedere,
Nel canto della cicala.
tratto da Marguerite Yourcenar, Il giro della prigione, trad. it. Fabrizio Ascari, Milano 1999. Titolo originale Le tour de la prison, Parigi 1991.