Vedo un albero, un sorriso, un’aurora, un ricordo. Non è senza limiti ognuno di essi? Cos’altro attendo più di questa vista definitiva, più di questa incurabile vista del bagliore del tempo?
Gli uomini soffrono dell’avvenire, si precipitano nella vita, fuggono nel tempo, cercano. E niente mi fa più male dei loro occhi indagatori, vani, e tuttavia privi di vanità.
Io so che tutto è finale, che esiste soltanto un istante, ogni istante, che l’albero della vita è uno sgorgo d’eternità reversibile negli atti dell’essere.
E così non voglio più niente. Spesso, quando sono immerso nella notte, in grandi notti che innalzano davanti alla mente i fondi del mondo, come farei a sapere se sono o non sono più? E si può, allora, essere ancora o non essere più? Oppure, prigioniero delle indefinitezze della musica, perso in esse, risparmiato dalle venture della respirazione, come potrei rassomigliare ai miei simili?
Non avere che uno scopo: essere più inutile della musica. Non vi si scopre né è né non è. Dove ci si trova come vittima conturbata del suo fascino? Ma non è, essa, un nessun dove sonoro?
Gli uomini non sanno essere inutili. Hanno cammini da seguire, punti da raggiungere, bisogni da soddisfare. Non sanno godere dell’incompiutezza, quando il “senso” della vita non è che l’estasi di tale incompiutezza! Ma come rivelare loro l’apparente semplicità di questo mistero, come fare perché, ebbri ed estasiati, ne subiscano il fascino? Mi tornano in mente certe notti e certi giorni…
Silenzi notturni nei giardini del sud… Su chi si piegano le palme? I loro rami sembrano idee logore. Un tempo, quando nel mio sangue scorreva più alcol e più Spagna, la mia collera le avrebbe rigirate verso il cielo, la mia passione avrebbe rimesso in verticale la loro stanchezza terrestre, i battiti del mio cuore le avrebbero spinte verso prossimità stellari. Adesso, sono felice d’essere separato dagli astri da rami di palme pensose, felice di assaporare sotto il loro stormire una dolce solitudine, di annientarmi nello splendore di una terra resa divina dalla notte.
Se vivessimo nei giardini, la religione non sarebbe possibile. È la loro assenza a suscitare in noi la nostalgia del paradiso. Uno spazio senza fiori né alberi porta a guardare al cielo e ricorda ai mortali che il loro primo antenato dimorò per breve tempo nell’eternità, all’ombra degli alberi. La storia è la negazione del giardino.
Tratto da: Emil Cioran, Breviario dei vinti
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