Un suicidio non è soltanto un gesto, è anche dei motivi importanti per compierlo. I motivi teorici li ho, nell’inaccettabilità indicibile di un simile mondo sfigurato e accecato, in preda a dominazioni di terrore, contro le quali combatto in un modo che piacerebbe a Cervantes, e non senza honra, ma troppo, troppo inutilmente. Mi mancano, perché i motivi diventino gesto, una vera vocazione giovanile e una spinta contingente senile (che tuttavia potrebbe presentarsi) e mi ostacolano la paura, i riguardi, la riluttanza alla ribellione suprema all’Ordine misterioso, di mano divina, di cui anche questo disordine potrebbe essere parte. Inoltre, aspetto Qualcuno, e questo ti dica quanto io viva tra il lucido e l’estatico: Qualcuno che sia un inviato dell’Alto, un Veltro, un redentore la cui luce brilli nelle tenebre… finché si aspetta un evento impossibile, veleni e pistole restano nell’armadio… Ti assicuro che non ne tengo, in casa, eccetto un po’ di varecchina, che mi ricorda l’acqua potabile; dovrei faticare per procurarmeli… Ma motivi ideali per uscire da questa morta vita sono un sollievo e un riparo, una specie di capitale in una banca sicura: si sa che basta uno scarabocchio per riaverli tutti in un colpo. Li vado, per ora, accumulando e ogni tanto passo allo sportello, che non è blindato. Del resto, non mancano molti anni: posso anche, invece di radermi da solo, aspettare che mi faccia cenno il barbiere dalla bottega.
Tu che un poco mi conosci, sai che tra i miei motivi non può esserci, sebbene giustificatissima, la misantropia. Ero, in gioventù, un lacrimoso filantropo e sono, in vecchiaia, un asciutto filantropo. Pulito, ma filantropo. Darmi del misantropo è quasi ferirmi. Non so da quali pozzi mi venga, ancora, tanta passione umana. Certo non spreco le adulazioni, se sta lì tutta la misantropia… Forse non riesco ad essere misantropo perché non sono misogino, perché non potrei mai odiare le donne. In tutto sono meno colpevoli dell’uomo, anche se stanno facendo grandi sforzi per superarlo in demenza; non ci riusciranno. Mi fa soffrire vederle sfilare in uniforme, fare il dest-front davanti a delle tribune dove salutano delle vecchie sifilidi cariate, servi del male. Le donne arruolate sono una delle più grandi barbarie di questo secolo, quasi come il massacro degli Armeni e dei nostri fratelli ebrei. Le donne in uniforme mi fanno diventare misantropo…
Mi chiedi notizie della mia infelicità, ma guarda che non è una malattia; in ogni caso non ne sei tu la causa! Non ho vissuto da uomo infelice, tutt’altro: anzi i beaux jours non mi sono stati lesinati, e anche molto intensi, fisici e spirituali, a volte straordinari, vicini al prodigio, inspiegabili… Oggi li rievoco senza soffrire troppo della sopravvenuta penuria. Quando è stato l’ultimo di questi giorni felici? Forse, neppure molti anni fa, una giornata solitaria, in Trentino, quello fu un giorno felice. Non era però una felicità condivisa; queste, da una contagocce che pesca sul fondo… Un giorno veramente felice sembra non riesca a strapparlo più. Neppure tu, col tuo lume tenue, parola lieve, hai potuto indebolire questo ferreo fronte di ore grigie, che rischiara ogni tanto solo la lampada della conoscenza. Questo è un cammino che è stato comune a moltissimi: posso riempire quaderni interi di citazioni. Una geisha ben fatta, con un vero seno e le gambe non troppo corte e non arcuate (dunque piuttosto impensabile), che mi suonasse lo shamisen cantando qualcosa di deliziosamente nostalgico, in un francese da Oriente, appreso in tempi coloniali, e mi massaggiasse a lungo i piedi, ogni giorno, dormendo con me quando io desiderassi questo supplemento di carezza umana e di presenza vitale, potrebbe avvicinarmi di molto a quel che intendo adesso per giorno felice: il solo pensiero di una simile ragazza in arrivo tra un’ora o due, puntuale, mi farebbe fiorire come il bastone di Aronne. Quando torno a Parigi, unico luogo che mi è familiare e che non mi metta spavento fuori di questa malconcia e sconcia Italia, sono a volte tentato di telefonare ai numeri che propongono donne in cambio di non so quanto – forse non molto – denaro, ma finisco sempre per preferire il teatro, la biblioteca e specialmente il giro dei vecchi librai, perché chi sa con quali tetri squallori mentali entrerei a contatto, obbligato anche poi a ripetere atti logori di malavoglia e col rischio, perfino, di questo nuovo contagio che aumenterà il numero degli alcolizzati. Ma è già confortante sapere che si è in una città dove queste cose sono lì, a portata di telefono e di borsa, come un buon servizio di ambulanze. Qui, dove abito, l’unica distrazione sono le fiche di ottobre, ancora staccabili con le proprie mani da una vera pianta con foglie; il cinema quando io sono arrivato era già da tempo sparito. Oh non ci andrei mai al cinema (non offrirebbe nulla di gentile) però mi riscalderebbe piacevolmente sapere che c’è, vicino, una sala e una tenda, dove si agitano ombre di piroscafi e di vestaglie. Direi: stasera al cinema; arriverei fin là, saluterei la cassiera disoccupata e proseguirei il viaggio nella notte. Del tempo cosa dirti: un’infamia, non piove mai! Da più di un anno non piove, poche gocce soltanto, che si perdono subito, come la felicità…
Tratto da: Guido Ceronetti, Pensieri del Tè, Adelphi
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