Sulla «Stampa» (28 marzo) una nota del Taccuino di Sciascia mi tira con fulmineo magnete, regalandomi un po’ d’insonnia supplementare, a discutere di Céline e di antisemitismo. L’interesse, il consenso, lo stupore e la repulsione sono inevitabili, quando si tratta del caso Céline. Sembra impossibile che in uno stesso autore tanta verità e tanto insudiciamento della verità abbiano potuto abitare insieme. Bisogna parlarne.
Sciascia, da un fatto di cronaca terroristica, ne fa lettura, oggi, di fascisti italiani, sicura: ma chi mette una bomba può aver letto qualsiasi cosa. Di libri giusti il fanatico e l’assassino ne trovano quanti ne vogliono, perché la più impensata pagina piegano ad affilargli il coltello. Per arrivare a Céline c’è di mezzo anche la notevole difficoltà del suo linguaggio. Non circolano oggi edizioni italiane dei suoi libri antisemiti. In Francia, non mi risulta ce ne siano state ristampe dopo la caduta di Vichy. (Io ho letto Bagatelles nell’edizione del 1937). Se per caso si trova una copia, il testo esige, per essere capito, un certo addestramento filologico, di cui le palestre dei picchiatori non forniscono diplomi. Può darsi che nella cellula nera, mi pare toscana, che ha voluto metterlo tra i suoi teschi, qualcuno avesse letto il suo nome in una lista di francesi collaborazionisti; tanto può bastare. Conosco, invece, parecchi lettori colti di Céline: nessuno è fascista, nessuno è antisemita. Da qualche anno Giulio Einaudi fa tradurre, da Celati, e stampa, cose di Céline. Non si può certo dire che Einaudi voglia procacciarsi lettori fascisti o antisemiti. Significa aver compreso l’importanza di uno scrittore.
Céline entrò nella scrittura con un oscuro capolavoro, una tesi di dottorato in medicina, del 1924, su Ignazio Filippo Semmelweis, medico sublime, di vita tragicissima, della giovane scuola viennese, tra il 1840 e il 1865. La frivolezza non era il suo genere: sopra un pezzo di delirio umanitario d’uomo (Semmelweis, che lottò contro le epidemie di puerperale, era un medico dentro un veggente, un Geremia da teatro anatomico), Céline cominciò a costruire il suo inconfondibile stile. Non ci sono biografie di Semmelweis che valgano le poche decine di pagine celiniane, che la casa Adelphi (né fascista, né antisemita) farà uscire tra breve in versione italiana.
Nel 1932 esplose Voyage au bout de la nuit, seguito poi da Mort à crédit. Non di loro ho, qui, da parlare. Sono colossi di scrittura. Dietro l’aggressione stilistica, la rivolta dell’immaginazione, la satira misantropica, monumenti di pura pietà umana semmelweissiana. Il Voyage è come un ingrossamento mostruoso e moderno, a ondate ritmiche gigantesche, del rotolo scarno dell’ebreo Qohélet, il Predicatore che sradica le illusioni volgari. Avendo scandito e riscandito Qohélet nella sua sacra musica semita, e amato il tremendo delle verità del Voyage, posso dire: è così.
Il Voyage stupì, impressionò i letterati; tra anarchici, socialisti e comunisti fece furore. Ma da questi fu preso, a torto, per bandiera rivoluzionaria, un libro che trattava essenzialmente, in una straordinaria tensione musicale, della miseria e del destino umano. Tradotto in russo dalla compagna di Aragon, conobbe le strepitose tirature sovietiche, e Céline fece il suo viaggio in Russia, per spendere i rubli dei diritti accumulati. Poi, del regime sovietico e della sua dottrina di Stato scrisse ferocemente, implacabilmente: fin qui, senza tradire la verità. In Bagatelles, la visita all’ospedale venerologico di Pietroburgo è di un’impressionante forza satirica.
Ma l’autore di quei due colossi covava da lunghissimo tempo qualcosa di turpe, che alla sua immagine di alto scrittore preparava un orribile sfregio di vetriolo. Niente fa intravedere, nei primi libri, le linee demenziali di un futuro visionario antisemita. Eppure un giorno, sotto il regime di Vichy, la sua faccia allucinata e plebea sarà religiosamente esposta nelle vetrine dei bottegai antisemiti, con questa leccatura: potente visionario antisemita.
Nel 1937 uscì Bagatelles pour un massacre; nel 1939 L’école des cadavres; nel 1941 Les beaux draps, tre pamphlets antisemiti. L’ultimo fu ritirato dalla circolazione per ordine di Vichy, decisione approvata dallo stesso censore nazista (una sua lettera è al Centro di Documentazione ebraica di Parigi). Céline, subito persuaso di un complotto giudeo-nazista ai suoi danni, rovesciò sui suoi censori inaspettati le sue smisurate ingiurie. Non ebbe molti amici neppure tra gli antisemiti: per alcuni, Céline disonorava, col suo turpiloquio, l’antisemitismo… Così anche la maledizione lo malediceva.
Sull’antisemitismo degli honourable men ci sono storie per gli archivi dell’assurdo. Bernanos, allievo superfedele dell’antisemita della France juive, Drumont, era convinto che Hitler disonorasse l’antisemitismo. Bernanos, maurassiano, ultracattolico, scrittore aristocratico di grande forza, era diventato antifascista dopo che le stragi di Maiorca, occupata dai nazionalisti nel 1936, gli imbrattarono di sangue lo scapolare. Attaccava, nell’hitlerismo, l’antisemitismo criminale, nella strana persuasione che quello drumontiano, con la stessa percentuale di paranoia, fosse conforme alle regole della cavalleria. In un testo del 1941, Bernanos dice di non credere sincero l’antisemitismo hitleriano: appena vinta la guerra, Hitler, gettata la maschera, chiamerebbe a Berlino i banchieri ebrei, per farli partecipare ai trionfi del germanesimo. Hitler non sapeva che fare, per provare la sua sincerità agli angelici intellettuali antisemiti.
Bernanos, purgatosi in tempo del suo fanatismo maurassico, è stato santificato. Ma era un cavaliere crociato che avrebbe puntigliosamente schiacciato sotto gli scudi qualunque ghettolino ebraico, nel suo viaggio verso la Terrasanta.
Il romanziere stupefacente del Voyage incarna senza dubbio, nell’infernale groviglio di Bagatelles, che rivela un autentico possesso demoniaco, il macellaio col coltello alzato. Scrivere non è un mestiere innocente, e un destino integralmente tragico non si placa che nella soddisfazione completa del Male. Proprio alla vigilia della strage, lo scrittore dal linguaggio unico, lo scavato dai dolori umani, presta la sua mano potente ai miserabili che costruiscono, coi materiali più ignobili, lo scannatoio, inveendo contro gli uccisori perché lenti ad inaugurarlo. Dio acceca chi vuole e illumina chi vuole.
Nella visione, si capisce, sono le vittime future ad assumere volti di minaccia presente. L’ebreo celiniano è un bisillabo nudo, un manichino calvo che il visionario veste di centinaia di abiti crivellando di mitraglia ogni camuffamento. Ebreo è la guerra, il negro, l’arabo, il bistrot, il comunista, il teatro, tutto il Mediterraneo, l’America (Judenland, in una canzone della Hitlerjugend), l’oltre-Loira, il Credito Lionese, la Russia, l’antisemita Stalin, la medicina, tutto. L’ebreo è tutto, eccetto che imbecillità, patrimonio, secondo Céline, dell’ariano, una bestia di cui si sforza inutilmente di svegliare il pigro istinto difensivo. Col prefisso spregiativo you (youtre, youpin) si crea l’ebreo astratto in combinazioni senza fine. Ma, terminato il sinistro abbaiamento, è un uomo vivo che è portato al supplizio.
I pamphlets celiniani non sono un raptus isolato. Quando furono scritti, il mostro antisemita impregnava lo spazio letterario e giornalistico europeo. Il pacifismo, in Francia, aveva faccia antisemita: una guerra mondiale era imminente, congiura ebraica. Nell’anno di Bagatelles, Darquier de Pellepoix, capo del Rassemblement antijuif, chiedeva apertamente l’espulsione o il massacro degli ebrei. Il professor Labroue, un sorboniano, aveva però qualche preoccupazione tecnica: «La pelle dell’ebreo» sosteneva il cattedratico «è insensibile al fuoco». Come bruciarlo?
Erano antisemiti Morand, Jouhandeau, Giraudoux; Maurras chiedeva agli ebrei, desiderosi di redimersi, di morire in guerra; Drieu La Rochelle, di tornare ad essere, per riscattarsi, un popolo combattente in Palestina (proposta insidiosa, ma profetica, di un antisemita); Robert Brasillach invitava a trattarli «senza sentimentalismi». La caccia era aperta. L’originalità solitaria di Céline cedeva all’invasione del luogo comune, il distruttore di stupidità si affannava per un posto vistoso nelle file del disonore antisemita.
L’eccezionalità di Céline è mantenuta, anche nel libro che più lo inchioda alla sua triste maledizione, da una penetrazione di veggente che di quando in quando scarica la sua massiccia elettricità al di là delle gole sordide dove la ragione è artigliata dai mostri. Se si potesse raschiare via da Bagatelles lo stolido prefisso you, che sporca e offende ogni cosa, si vedrebbero apparire, incredibili e incongrui, diamanti di verità che non c’è vergogna a esibire. (Difficile perché la bruttura non è superficiale, quel prefisso ha radici in una reale setticemia).
Le apologie pulite, postume, di Céline, si sforzano di costruire con sottigliezze quasi disperate la sua difesa; bisogna però rassegnarsi, perché il senso morale non sia traviato dai bisogni dell’intelligenza, a non dissimulare lo schifo. Di lui, nelle sue ritrattazioni successive, a furori calmati, niente di veramente convincente: frantumi, nuove insolenze… Meglio restare scettici circa il suo ravvedersi. A Meudon ho incontrato Lucette, la sua vedova; lui vivo, non avrei potuto lesinargli la simpatia. Che cos’altro fare, se non sforzarsi di capire?
Céline aveva una visione comune a tutti gli angosciati e in cui c’è del vero, del vero che soltanto l’angoscia afferra: il potere occulto, il male che guida la storia, la forza delle società segrete di malvagi, la potenza mondana di quelli che nei salmi sono chiamati i reshaìm, gli esclusi dalla luce. Il sortilegio del tempo (anche oggi, come sempre, si crede per incantesimo a stupidità sanguinose, che domani faranno vergognare chi le ha credute) e la mediocre cultura extraprofessionale gli hanno indicato nell’umanità ebrea la sostanza disumana dei reshaìm; così ha scritto, per sua sciagura, il nome ebreo nella Colonna
Infame. Ma era proprio il Potere Occulto a sussurrargli l’ebreo l’ebreo… Céline identifica l’ebreo anche con cose che non sono denaro, usura, banche, cambiali; l’alcool, da lui aborrito, ogni momento (Juif-bistrot-vinasse) è riferito all’ebreo, oste degli osti, vinattiere universale.
Un potere che fa il male si rivela nel momento in cui sta per essere distrutto e sostituito, o resta irrivelato. I reshaìm dei salmi non hanno nome, seguitano a vivere e a operare, ma non sono mai quelli di cui si dice sono loro. Anche Jack lo Squartatore è stato, per un momento, sui giornali e per i poliziotti, nel mito popolare, e per qualche ripperologo è tuttora, un ebreo. Se voglio un perché filosofico della persecuzione cui Céline ha prestato la sua lama complice, che cosa trovo? Caos; bambine e alcool, confusi. Chi vuole dare ai reshaìm un volto corre rischio, sempre, di servirli. Ma a qualcuno sarà mai data, in sogno, una risposta, che non sia un simulacro falso come lo youtre di Céline?
C’era un re biblico che fu messo in una casa d’isolamento perché metzorà, affetto da una malattia innominabile e misteriosa. La sua faccia ripugnava allo sguardo, era coperta di veli e di cera. Ma era un re antico, consacrato dal Dio nascosto: il sigillo, in profondo, della regalità al detronizzato, al reietto, restava. E all’irremovibile unzione sacra la malattia aggiungeva il suo valore di segno incomprensibile e ugualmente divino. Céline metzorà… Sono molto grato a Sciascia per avermi offerto l’occasione di grattare un poco questo scabroso argomento.
Tratto da: Guido Ceronetti, La carta è stanca
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