CÉLINE E FLORA

La scrittura mi sottopone ad una esclusione severa, non soltanto perché mi separa dal linguaggio corrente («popolare»), ma piú essenzialmente perché mi vieta di «esprimermi»: chi potrebbe esprimere? Mettendo al vivo l’inconsistenza del soggetto, la sua atopia, disperdendo le lusinghe dell’immaginario, essa rende insostenibile ogni lirismo (come dizione d’una « emozione» centrale). La scrittura è un godimento arido, ascetico, per nulla effusivo. Ora, nel caso d’una perversione amorosa, questa aridità diventa lacerante: sono ostruito, non posso far passare nella mia scrittura l’incantesimo (pura immagine) d’una seduzione: come parlare di chi, a chi si ama? Come far risuonare l’affetto, se non attraverso dei tramiti cosí complicati, che esso perderà ogni pubblicità, e dunque ogni gioia? Ecco una disfunzione di linguaggio molto sottile, analoga al fading stressante che, in una conversazione telefonica, tocca certe volte a solo uno dei due interlocutori. Proust l’ha descritta molto bene — a proposito di tutt’altra cosa che l’amore (l’esempio eterologico non è spesso il migliore?). Quando le zie Céline e Flora vogliono ringraziare Swann per il suo vino d’Asti, lo fanno, per ricerca del momento opportuno, eccesso di discrezione, euforia di linguaggio, asteismo un po’ folle, in una maniera cosi allusiva che nessuno lo capisce; esse producono un discorso doppio, ma, ahimè, per nulla ambiguo, perché il lato pubblico è come cancellato e reso totalmente insignificante: la comunicazione fallisce, non per mancanza di intelligibilità, ma perché si opera un vero schizo tra l’emozione del soggetto — complimentoso o amoroso — e la nullità, l’afonia della sua espressione.

Tratto da: Barthes di Roland Barthes