CREPARE DENTRO D’AMORE
Di una serrata intervista che mi verrà fatta nel 2027, posso anticipare qui una delle meno flebili risposte: – Il secolo nel quale sono vissuto e da cui mi sto liberando a poco a poco, ha concentrato in tre opere letterarie (lascio fuori del conto quelle in versi) la quasi totalità della sua forma spirituale, il segreto della sua propria essenza, il suo oro alchemico di estrazione melmosa, il meglio del suo conoscere e partecipare del dolore umano per mezzo della trasfigurazione poetica; e queste sono I racconti di Kafka, il Voyage au bout de la nuit di Céline e I racconti della Kolyma di Varlam Šalamov. Un ebreo di frontiera, un medico antisemita, un poeta russo, testimone e relitto dei lager comunisti… Nominando questi tre autori si può dire: il Ventesimo è lì, il suo massimo sforzo di doloroso atleta per la verità è lì –.
A questi tre monumenti farei portare un’iscrizione molto simile a quella che dettò Simonide per i morti delle Termopili: «O tu che passi, va’ tra i viventi e digli che al fondo da noi toccato della disperazione e della privazione di qualsiasi Dio, noi abbiamo ritrovato e salvato le ragioni calpestate della compassione umana e le sparite tracce dell’amore infinito».
Noioso, l’intervistatore vorrà costringermi ad aggiungere qualche altro nome. «E il teatro? E il cinema?».
Il cinema è già mortissimo oggi, figuriamoci nel 2027! Il teatro vivrà ancora, nelle strade, nelle periferie incendiate.
Sarò paziente, risponderò. «Amico, ho cento anni, vuoi che mi ricordi di tanti nomi? Se di amore-compassione parliamo, al principio e a metà del secolo, in tutto quel disonore umano che si preparava e si stava attuando, tale amore ebbe un momento nel Giardino di Cechov e in Finale di partita di Beckett. Quanto al cinema mi restringerei al Dreyer di Dies Irae e al Chaplin di The Kid. Basta, passiamo ad altro».
Ormai è tardi, e nella vita ho lavorato anche troppo. Ma mi dispiace di non aver fornito io stesso versioni italiane di Germinal di Zola e del Voyage, epopee atroci di questi due tremendi secoli, vortici di un lamento che invoca aiuto dalle bassure umane e dalle disgregazioni astrali, approdi definitivi alla sponda del tragico contemporaneo («Eccoci! E qui restiamo!») di una lingua d’Occidente al culmine delle sue tensioni creatrici. Ero adatto a farlo, perché mi sono col tragico veterotestamentario e greco fatte e indurite le ossa.
Sull’amore, sessuale, extra e metasessuale, passionale-compassionale (è tutt’uno) il Viaggio celiniano abbonda di folgorazioni che incendiano il mio altarino straccione da campo, dove celebro per sterminati cumuli di larve in movimento i miei riti di prete clandestino aggrappato allo Spirito, e intorno a perdita d’occhio ho le distese appestate del mondo.
Ecco, dalla pagina 486 dell’edizione famosa Denoël e Steele (non potrei leggere il Voyage stampato in altro modo) estraggo questa scheggia riparatrice, lenitrice, di un’incredibile e torturante fecondità psicologica: «Di compassione ne ha, la gente, per gli invalidi e i ciechi e si può dire che ne hanno, amore di riserva. Ce n’è un’enormità. Non si può dire il contrario. Soltanto, è disgrazia che tutti quanti, con tanto amore di riserva, restino carogne. Non gli esce, ecco tutto. È intrappolato dentro, gli resta tutto dentro, non gli serve a niente. E dentro di loro ne crepano, d’amore».
Per più sciagura, mezzo secolo dopo, anche le riserve mute hanno patito perdite, e il gelo è cresciuto, ma quel ils en crèvent en dedans, d’amour brilla di puro cristallo in fondo alla notte.
Sono le spaccature d’abisso in cui si rivela, come nella luce miracolosa di Rembrandt, l’amore infinito.
1990
Tratto da: Guido Ceronetti, Cara incertezza