Cesare Pavese

«La casa d’Oreste era un terrazzo roseo e scabro e dominava nella gran luce un mare di valli e burroni che faceva male agli ochi. Ero corso per tutto il mattino nella pianura, una pianura che conoscevo, e dal finestrino avevo intravisto le rogge alberate della mia infanzia – specchi d’acqua, branchi d’oche, praterie. Ci pensavo ancora quando il treno s’era messo per ripe scoscese dove bisognava guardare in su per vedere il cielo. Dopo una stretta galleria s’era fermato. Nell’afa e nella polvere mi ritrovai sulla piazzetta della Stazione, gli occhi pieni di coste calcinate. Un carrettiere grasso mi mostrò la strada; dovevo salire salire, il paese era in alto. Gettai la valigetta sul carro e al passo lento dei buoi salimmo insieme.

Giungemmo lassù per vigneti e stoppie riarse, e via via che i versanti mi si allargavano ai piedi, distinguevo nuovo paese, nuove vigne, nuove coste. Chiesi al carrettiere chi aveva piantato tante viti e se bastavano le braccia a lavorarle. Lui mi guardò curiosamente; discorreva alla larga e tendeva a sapere chi fossi. Disse: – Le vigne ci son sempre state, non è mica come fare una casa.

Sotto il muraglione che reggeva il paese, stavo per chiedergli che idea di piantare le case lassù, ma quegli occhi strizzati nella faccia scura mi tennero cheto. Respiravo un odore d’aria mossa e di fichi, che così su quel versante mi parve un sentore marino. Tirai il fiato e borbottai: – Che buon’aria.

Il paese era una viuzza sassosa, dove si aprivano cortili e qualche villa con balconi. Vidi un giardino tutto pieno di dalie, zinnie e gerani – lo scarlatto e il giallo dominavano, e i fiori di fagiolo e di zucca. Tra le case c’eran angoli freschi, e scalette, pollai, vecchie contadine sedute. La casa d’Oreste era all’angolo della piazza, sul terrazzo dei muraglioni, e aveva un roseo colore marezzato – una vera villetta scolorita dalle rampicanti e dal vento. Perché lassù tirava vento anche a quell’ora: me ne accorsi non appena sbucai sulla piazza e il carrettiere m’indicò la casa. Ero sudato e andai dritto ai tre gradini della porta. Bussai col batacchietto di bronzo.

Mentre aspettavo mi guardavo intorno: l’intonaco scabro nella luce, un ciuffo d’erba sul terrazzo contro il cielo, il gran silenzio meridiano. Nello strepito del carro che s’allontanava, pensai che quelli per Oreste erano luoghi familiari, c’era nato e cresciuto, dovevano dirgli chi sa che. Pensai quanti luoghi ci sono nel mondo che appartengono così a qualcuno, che qualcuno ha nel sangue e nessun altro li sa. […]»

tratto da Cesare Pavese, Il diavolo sulle colline, Torino 1997.

Prima edizione Torino 1949.

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