Charles Darwin si avvicinò al mondo vegetale da studente di teologia, assistendo a Cambridge alle lezioni di John Henslow (1796-1861), del quale divenne presto inseparabile allievo, tanto da essere conosciuto come «quello che passeggia con Henslow». Henslow ebbe un’importanza fondamentale nella vita di Darwin: fu lui a raccomandarlo al capitano Robert FitzRoy per il posto di gentleman companion a bordo del HMS Beagle. E fu sempre da lui che Darwin (Fig. 16) apprese le basi della botanica, ma soprattutto la passione, che lo accompagnò per tutta la vita, per il mondo vegetale. Era tale la sua gratitudine per il maestro, da fargli scrivere nella propria autobiografia che l’incontro con Henslow era stato il più importante di tutta la sua vita. A partire da quei primi anni a Cambridge, e per i successivi decenni, Darwin si dedicò con grande trasporto alle piante, cercando in queste affascinanti creature le prove della teoria dell’evoluzione e continuando a interessarsi a loro fino agli ultimi giorni della sua vita (persino la lettera scritta appena nove giorni prima della morte – l’ultima di cui siamo a conoscenza – riguardava una pianta).
La chiave per comprendere la portata rivoluzionaria di The Power of Movement in Plants, il libro destinato a cambiare la storia della botanica, è contenuta nell’ultimo paragrafo del volume, al quale – come sappiamo – Darwin, secondo un uso già consolidato in numerose altre sue opere, affida le conclusioni essenziali delle sue ricerche. A proposito del rapporto che intercorre fra i movimenti dell’apparato radicale di una pianta e l’esistenza di una forma di intelligenza vegetale egli scrive: «Non è un’esagerazione dire che la punta della radice, così dotata [di sensitività] e che ha il potere di dirigere il movimento delle regioni adiacenti, agisce come il cervello di un animale inferiore; il cervello essendo situato nella parte anteriore del corpo, riceve impressioni dagli organi di senso e dirige i diversi movimenti».
Del resto, nelle oltre cinquecento pagine del suo fondamentale saggio, il geniale scienziato descrive i numerosissimi movimenti delle piante, concentrandosi per i tre quarti dell’opera proprio su quelli delle radici. Le sue osservazioni si focalizzano sulle radici per un motivo preciso: è in questa parte della pianta che egli trova il maggior numero di similarità con il movimento degli animali, ma anche i migliori esempi di comportamento assimilabile a quello degli altri esseri viventi. È nella radice anzi, per essere più precisi nell’apice radicale ossia nella punta di ciascuna radice, che è possibile verificare la sequenza tipica delle fasi che portano le stimmate dell’intelligenza: percezione degli stimoli ambientali, decisione sulla direzione da prendere, movimento finale.
Darwin è convinto che non esista una differenza così sostanziale fra il cervello di un verme, o di un qualunque altro animale inferiore, e la punta di una radice. Così, nel capitolo conclusivo del libro, l’autore ricorda più volte le eccezionali capacità sensoriali dell’apice radicale:
«Crediamo che non ci sia altra struttura nella pianta più meravigliosa, per quanto riguarda le sue funzioni, che l’apice radicale. Se la punta è leggermente pressata o bruciata o tagliata, essa trasmette un’influenza alle parti adiacenti superiori, provocando con la curvatura il loro allontanamento dal sito colpito. […] Se l’apice percepisce che l’umidità dell’aria è superiore su un lato che sull’altro, esso trasmette un’influenza sulle parti adiacenti, che piegano verso la fonte dell’umidità. Quando la luce eccita l’apice della radice […] le parti adiacenti si allontanano dalla luce, ma quando sono sollecitate dalla gravità, le stesse parti piegano verso il centro di gravità».
Darwin per primo si accorse che la punta della radice è un sofisticato organo di senso in grado di registrare diversi parametri e di reagire ad essi. Non solo: dopo aver constatato che l’apice radicale è sensibile agli stimoli esterni, suggerì che quella fosse l’area in cui si generavano i segnali in grado di indurre il movimento delle parti adiacenti della radice. Nei suoi esperimenti osservò che, dopo l’asportazione chirurgica dell’apice, la radice perde gran parte della sua sensibilità: per esempio, non è più in grado di percepire la gravità o di distinguere la compattezza del suolo. Darwin formulò così quella che un secolo più tardi sarebbe stata conosciuta come The root-brain hypothesis, dando contemporaneamente inizio allo studio della fisiologia della radice. Una scelta obbligata, data la «sua importanza per la vita dell’intera pianta».
Come accadde per molte altre sue idee, l’accoglienza della comunità scientifica fu tutt’altro che entusiastica. La maggiore opposizione arrivò dai botanici tedeschi, ed era stata ben prevista dallo scienziato: «Insieme con mio figlio Francis – scriveva – sto preparando un volume piuttosto ampio sui movimenti delle piante nel quale, ritengo, apportiamo molte novità e nuove idee. Temo che il nostro punto di vista incontrerà grande opposizione in Germania».
La ragione di questa forte opposizione non si basava su solide motivazioni scientifiche, essendo soprattutto conseguenza del fastidio che il grande botanico Julius Sachs (1832-1897) provava per quella che riteneva un’ingiustificata «invasione di territorio» da parte di Darwin. A quei tempi Sachs era un botanico stimato e guardava al lavoro di Darwin come al risultato di un «dilettante» – a country-house experimenter – i cui studi non potevano essere paragonati al suo serio lavoro di ricerca di fisiologo vegetale.
Dopo la pubblicazione di The Power of Movement in Plants, Sachs chiese dunque a un suo assistente, Emil Detlefsen, di ripetere gli esperimenti di Darwin, soprattutto quelli che riguardavano il comportamento della radice a seguito della rimozione della cuffia radicale (la parte più esterna dell’apice radicale). Lo scopo, ovviamente, era quello di confutare la validità delle conclusioni cui lo scienziato inglese era giunto nel suo importante saggio. Detlefsen si mise all’opera di buona lena per ripetere gli esperimenti, ma il suo lavoro, come venne in seguito accertato, fu mal eseguito anche a causa della scarsa considerazione in cui era tenuto nel laboratorio di Sachs, e condusse a risultati diversi da quelli ottenuti da Darwin.
La risposta di Sachs, a quel punto, fu veemente. Il botanico accusò i Darwin, padre e figlio, di aver eseguito gli esperimenti in maniera improria (da «dilettanti», appunto) e di essere quindi saltati a conclusioni sbagliate. Essi naturalmente difesero il proprio lavoro.
La diatriba tra questi celebri botanici ebbe una certa eco nella comunità scientifica del tempo e anche per tale motivo, poco tempo dopo, l’ex allievo di Sachs, Wilhelm Pfeffer (1845-1920), a sua volta rinomato botanico, decise di ripetere di nuovo gli esperimenti. Egli era mosso da autentico spirito scientifico e le sue ricerche condussero a risultati identici a quelli ottenuti dai Darwin! Pfeffer riconobbe quindi senza difficoltà la grandezza dei due studiosi nel suo Lehrbuch der Pflanzenphysiologie (Manuale di Fisiologia vegetale, pubblicato nel 1874), libro che un sempre più astioso Sachs bollò come un «semplice mucchio di fatti non digeriti».
Ovviamente oggi sappiamo che Darwin aveva ragione. Anzi: l’apice radicale è ancora più progredito di quanto Darwin immaginasse, essendo in grado di percepire numerosi parametri fisico-chimici provenienti dall’ambiente (vedi … E altri quindici sensi).
Tratto da: Stefano Mancuso Alessandra Viola, Verde Brillante – Sensibilità intelligenza del mondo vegetale, Firenze 2014.
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