CIORAN ADDIO

Cessate, da un pezzo, le visite a Cioran e Simone, nella loro mansarda di rue de l’Odéon; già un paio d’anni fa, prima ancora, la sua memoria prodigiosa s’inceppava spesso, e la paziente compagna era pronta a rattopparne i buchi improvvisi… Ora il calvario di entrambi è finito. Il vecchio amico non lo rivedrò più.

Ha avuto il tempo di veder sparire tutti i suoi più importanti amici di gioventù: Eliade, Beckett, Ionesco, che come lui lasciano un segno nel secolo, e sono un tratto della sua genialità e del suo grido in forma di pensiero. Ionesco gli telefonava ogni giorno per raccontargli la propria angoscia: non sono certo la parola e la spalla degli ottimisti che possano fornire un aiuto quando il mal di vivere prende alla gola.

I tetri Balcani che lo videro nascere ottantaquattro anni fa sono di nuovo «primi nelle stragi» alla sua morte, in Europa, e soffrono gli sia impedito lo sterminio totale al quale agognano per sfogare una volta per tutte il loro bisogno di crudeltà ereditario. Esattamente come pensa Cioran in Storia e Utopia. La guerra continuamente interrotta s’intorva in un incalcolabile stillicidio di crimini. La mano assassina che non viene tagliata ma solo ostacolata è tutta crampi di voglia d’uccidere, e dove arriva a colpire non c’è salvezza. Nella camicia di forza della «trattativa» l’odio compresso cova le sue migliori imprese. Utopia, pensare che la guerra di Bosnia si possa fermarla con le sanzioni e il ragionamento; utopia parallela, credere che una strage senza più freni la risolverebbe, perché – osserva Cioran – il nemico non è mai a terra, il nemico continua a vivere al di là della sua distruzione materiale, e ogni nuovo nato, poi, ne porterà i tratti. Perciò il Serbo vincitore è un vincitore inappagabile, turbato – ancor prima di aver svuotato tutte le case del nemico – dal suo sarcasmo futuro. La storia è tutta quanta utopistica, un non-luogo di perdizione…

Coi libretti cioraniani si vive in intimità e comunione. L’impostura che ci grava addosso peggio della cappa di smog, là finalmente, in quelle pagine di duro lamento, tace. A poco a poco, il suo profilo dell’uomo com’è ora, come è stato fatto dalla civiltà, dalla storia, dalla religione, dal progresso, s’impone come una specie di giustizia allegra, di esecuzione capitale felice e festosa, simile a quella incisa da Hogarth. Alla fine di un paragrafo, talvolta, viene voglia di urlare di gioia come quando alla fine di Oliver Twist sale sulla forca Fagin. Credere nell’uomo è veramente l’idolatria più maledetta, il peccato dei peccati, l’errore degli errori. La discriminazione tra credenti e non credenti nell’uomo è necessaria; ma, contandoci, noi che nell’uomo radicalmente (e nel modo più naturale, come se la lucidità non consentisse altro) non crediamo, risulteremmo davvero pochi.

Questo è uno dei due noi che non implichino adesione a qualche cosa di volgare e di turpe, d’infettato dalla faziosità; si può usarlo senza timore. L’altro noi di nobiltà è riferibile a vinti, sconfitti, dimenticati nell’ordine del Pensiero. Due facce, in verità, della stessa cosa. Chi non crede nell’uomo generalmente è un vinto, si colloca spontaneamente tra gli sconfitti. Tuttavia, paradossico parossismo, succede anche questo: che i migliori amici della società umana si reclutino spesso proprio in questi smilzi ranghi di rinneganti rinnegatori. Chi denuncia che la peste c’è, salva; chi dice che si tratta di un raffreddore, assassina.

Via mistica, senza dubbio… Cioran l’ebbe in comune con Samuel Beckett (e con un altro dei suoi compatrioti, morto molti anni fa, da lui credo conosciuto, un erudito reietto dei più acuti: Matyla Ghyka, e con lo straordinario scopritore Culianu).

Beckett, di cui tracciò un mirabile ritratto psicologico, è il suo vero fratello spirituale. Eliade non era un negatore, Ionesco non fu coraggioso abbastanza: geniali, non sono dei mistici… Cioran e Beckett lo sono. La loro negazione radicale della salvabilità dell’uomo apre uno spazio di calma, in questa nostra invivibile gabbia di scimmie pigiate e malate: uno spazio debolmente illuminato, da parete Eiger, misero, in cui l’incontro con Dio, pur giudicato impossibile, si riscopre ammissibile.

La verità è che l’uomo è un Dio falso, e il più falso degli idoli. Non ci vuole tiepidità nel romperne le statue. Bisogna tirarlo giù dai piedistalli, come i bronzi indecenti di Lenin e Stalin, fare questa yogica respirazione: «io rinnego l’uomo», l’uomo simulacro, l’uomo che si è fatto padrone della terra per farne un inferno mai immaginato da nessun poeta antico, da nessun artista cristiano, l’uomo-che-siamo e che dobbiamo in noi stessi illimitatamente esecrare e abbattere con la scure del pensiero. Questa, dell’odio di sé come prodotto di una prevalenza della Tenebra, è la prima correzione dell’intelletto da fare, per non essere mentalmente irretiti dall’occhio del male. Tutti i credenti nell’uomo sono virtualmente pericolosi: occorre smascherare il fondamento satanico delle loro prediche…

Ricorderemo, noi che lo frequentammo, l’estrema piacevolezza della sua conversazione. Mai un visitatore timido si sarà trovato, di fronte a lui, così cordiale, a disagio. Avrà avuto delle cupezze segrete, delle angosce non esibite: faccia a faccia era sereno e ilare come un antico stoico. Si pensava ad Aristippo, a Epitteto.

 1995

Tratto da:  Guido Ceronetti, Cara incertezza, Adelphi

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