Il Cimitero nella Foresta
Il Nord è essenzialmente la sua luce e in particolare quella del pomeriggio avanzato, quando il giorno trapassa in una sera annunciata già da qualche ora ma che sembra non calare mai, indefinitamente rinviata da una chiarità tenace. Una luce tersa, che rende l’aria trasparente e avvolge le cose nel bagliore di una struggente lontananza, nella nostalgia di tutto ciò che manca. Sotto i cieli tropicali o equatoriali, dove il buio cala di colpo e si passa repentinamente dal sole accecante e insostenibile alla notte, un europeo avverte con un sentimento di estraneità la mancanza di questo indugiare del crepuscolo. Nelle pagine di tanta grande letteratura scandinava, quella luce diventa l’alone della vita vera e della sua assenza – promessa e disillusione, felicità e malinconia, il senso della vita che brilla al di là della realtà immediata, come brilla oltre le montagne di neve per Borkman, il personaggio di Ibsen, il poeta che, scrutando a fondo il disagio della civiltà, diceva che pretendere di vivere, di vivere veramente, è da megalomani.
Fra gli alberi del Cimitero nella Foresta di Stoccolma è ancora chiaro, nonostante l’ora, e i bianchi tronchi delle betulle rompono il verde cupo degli abeti e del fogliame come creste di spuma un mare scuro. I cimiteri consueti sono selve di pietra, che incalza e soffoca le piante, sempre più striminzite fra una tomba e l’altra, ridotte a qualche siepe di bosso o a qualche smilza fila di cipressi, talora a pochi fiori in un vaso. Sono città, necropoli e metropoli di marmo, maestosi trionfi della morte e del suo ordine. Questo cimitero di Stoccolma – costruito o meglio inventato da due grandi architetti, Erik Gunnar Asplund e Sigurd Lewerentz, in un lavoro di progettazione ed esecuzione iniziato nel 1915 e durato mezzo secolo – è invece un bosco che circonda, invade e copre la pietra, e in cui sembra trionfare l’irregolarità della vita.
Molte tombe sono disseminate in modo casuale, asimmetrico fra gli alberi e nel crepuscolo paiono animali acquattati e dissimulati nell’erba; non imponenti lastre sepolcrali, ma piccole lapidi sparse, un discreto sottobosco di nomi e date, che sporgono da terra come radici. Qualche tomba è più rilevante di altre, ma non ce n’è alcuna veramente pretenziosa; la prosopopea di tante cappelle di famiglia con cupola e colonne, che rende spesso pacchiani i nostri camposanti è impossibile e inimmaginabile in questo paesaggio, in cui sarebbe grottesca come un abito da sera indossato per andare a vagabondare nel bosco, spiare animali e seguire le loro tracce, raccogliere funghi, sentire l’odore di resina e di terra bagnata.
Qui la morte sembra uguaglianza, fraternità; la naturalezza di un evento familiare e ovvio come respirare, dormire, camminare, che non conosce distinzioni e gerarchie e ignora la pompa funebre. Alcune cappelle, come quella della Resurrezione, si impongono con evidenza all’attenzione e hanno un ruolo centrale nella topografia e nelle cerimonie, ma altre spuntano d’improvviso alla svolta di un sentiero, capanne di legno di boscaioli piuttosto che chiese, rifugi in cui ripararsi dalla pioggia più che luoghi di preghiera o di esequie – anche se forse un albero, sotto il quale ci si siede per riprendere fiato, può essere un buon posto per pregare, più di altri, ufficialmente deputati alla devozione.
I nostri cimiteri di pietra sono uno spazio-tempo dedicato alla morte, cui si pensa doverosamente durante la compunta e breve visita e che si dimentica appena usciti. Qui la visita non è un rituale funebre, quanto piuttosto un girovagare nella foresta e percepire il suo respiro; si è attenti agli alberi, all’indicibile tenerezza delle slanciate betulle, al rosso delle foglie, ai rami che la luce limpida e bianca ritaglia nitidi contro il cielo, alle orme di qualche animale, al richiamo di un uccello. Quei defunti sparpagliati intorno non sono più anonimi o irreali né più inquietanti o sublimati della folla fra cui ci si muove ogni giorno per le strade. Non ci sarebbe nulla di profanatorio se su questi prati si venisse a giocare o a fare l’amore. Il pensiero della morte va e viene, benevolo e indifferente; una lapide lo fa riemergere e un ciuffo di abeti su una collina, simile a uno squadrone di cavalieri con le lance pronti a gettarsi nella battaglia, lo porta via. Qualche tomba ha solo una croce o neppure quella, soltanto un pezzo di legno infilzato sul terreno; i fiori sono allora un freschissimo e minimo mazzolino posato sulla terra o sull’erba. Margit, che sta ai margini di un viottolo, sotto grandi abeti scuri, ha solo il nome, non il cognome, come Vilhelm, a pochi passi da lei.
Gli architetti del cimitero si proponevano di sviare l’attenzione dei vivi dalla tristezza della morte, di creare una confidenza sensuale con la natura, con la foresta che parla ai sensi con i suoi odori, i suoi colori, la corteccia ruvida al tatto, il sapore acerbo delle bacche da masticare e sputare. La foresta è un giusto scenario per chi non si sente solo con la sua angoscia, ma inserito nel mondo che lo circonda e nelle generazioni, nella storia della specie e in quella ancora più grande di cui anche la specie non è che un breve momento.
Ma tomba e foresta, pietre e tronchi, sono e dicono la stessa cosa, il trionfo del tempo distruttore su Margit. Il Cristianesimo – quasi assente da questo cimitero – ha reso impossibile forse per sempre la serenità e l’oggettività classica, la pacata accettazione che l’individuo sia consegnato al niente e sia dunque niente; questa foresta è piena d’incanto e di poesia, ma non è altro che la fonderia di bottoni di cui si parla nel Peer Gynt di Ibsen, in cui ogni bottone usato – ogni uomo – viene triturato, fuso, distrutto per sempre e riutilizzato, almeno in qualche suo pezzo, per la fabbricazione di altri bottoni.
Negli occhi di chi muore il Cristianesimo impone di leggere una radicale, atterrita o stupida assurdità che chiede di essere redenta. In una straordinaria parabola ebraica, riportata da Enzo Bianchi nel suo indelebile volume Vivere la morte, quando viene l’ora della fine di Aronne, Dio dice a Mosè: «Parlagliene tu, perché a me dispiace». Di fronte a questa tristezza di Dio per la morte di un uomo, non c’è bosco che tenga. Dopo la rivoluzione ebraico-cristiana di tutti i sentimenti umani, neanche uno scettico come Montale, vaccinato contro tutti gli assoluti e tutte le fedi, può appagarsi di passeggiare tranquillamente fra i morti come i fiori; quando perde una persona amata cerca un varco nell’orizzonte, un tramite impossibile, vorrebbe escogitare un segnale “studiato per l’aldilà”, anche se dubita di ogni aldilà.
In un’Apocalisse apocrifa Eva, morendo, chiede di ricongiungersi con Adamo – che l’ha preceduta e insieme al quale ha vissuto, trasgredito ed espiato, goduto e perduto il Paradiso terrestre – e la terra in cui chiede di essere accolta è come un grande corpo, una carne amata. Anche la foresta, nonostante tutto, è un trionfo della morte, seppure tanto più generoso – e più ambiguo – dei mausolei di pietra. Certo, è facile dire che la vita è più forte della morte – ci sono germogli, gemme, fiori. Se è per questo, la vita è anche più forte della saggezza e dell’intelligenza. Asplund e Lewerentz, i due artefici del Cimitero nella Foresta e di quel paesaggio che dovrebbero insegnare a superare ogni smarrimento e ogni miseria individuale dinanzi alla grande legge del Tutto, finirono per litigare penosamente, in un miserevole scontro che emarginò Lewerentz, il più dotato dei due. La meschinità quotidiana è più universale – e più forte – della morte e della vita.
26 ottobre 1998
tratto da: Claudio Magris, L’infinito viaggiare, Milano 2005.
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