Prefazione di Benjamin, Immagini di città.
In una celebre e fulminea parabola Borges parla di un pittore che dipinge paesaggi; regni, montagne, isole, persone. Alla fine della sua vita si accorge di aver dipinto, in quelle immagini, il suo volto; scopre che quella rappresentazione della realtà è il suo autoritratto. La nostra identità è il nostro modo di vedere e incontrare il mondo: la nostra capacità o incapacità di capirlo, di amarlo, di affrontarlo e cambiarlo. Si attraversa il mondo e le sue figure, sulle quali si fissa lo sguardo, ci rimandano come uno specchio la nostra immagine, le nostre immagini che, man mano si avanza verso la meta finale del viaggio, restano indietro, appartengono via via a un tempo non più nostro, relitti che si accumulano nel passato. Forse nessuno come Benjamin ha tracciato questo autoritratto attraverso le cose e le figure del mondo, che il corso della storia individuale e collettiva – il progresso – fa a pezzi. Il mondo, per lui, non è la natura, già perduta in un’ epoca tanto anteriore alla sua vita e alla sua infanzia; perduta in un tempo mitico distrutto dal progresso storico, essa balena nell’epifania di qualche scheggia solo nelle pagine di alcuni scrittori epici del passato, come Leskov. Il mondo per lui è la città: la Berlino dei suoi anni infantili, la Mosca o la Marsiglia dei suoi viaggi, la Parigi capitale del XIX secolo con i suoi passages che conducono da un’ epoca – e da una vita – a un’ altra. Le città, da lui colte in istantanee che fermano l’ effimero nell’eternità dell’immagine, sono vive, malinconiche o amabili; la loro aura è la seduzione del sensibile e del presente. Ma le loro case, le loro strade e i volti dei loro passanti hanno delle crepe che, sebbene dissimulate, annunciano, come le rughe su un viso, lo sgretolarsi della vita e della storia, il loro franare e precipitare irredente nel cumulo di rovine del passato. Chissà come Benjamin guarderebbe Portbou, la cittadina catalana dove nel 1940, con la Gestapo alle calcagna e la polizia franchista davanti, si è suicidato e dove oggi il Memorial di Dany Karavan lo ricorda col vuoto, con l’ assenza: un semplice corridoio, un passaggio che scende, fra gli ulivi nel vento, a un mare di un blu insostenibile. La città è, fin dalle origini, un simbolo di potenza subito avvolta dalla caducità; la sua poesia è spesso quella della sua caduta e delle sue superbe rovine, dal lamento per l’ antichissima Ur alle elegie anglosassoni per i centri romani distrutti, dalle città di Kipling sepolte dalla giungla a quelle di Brecht, di cui si dice che di esse resterà solo il vento che le attraversa. La distruzione si addice a Benjamin che, in una celebre pagina, descrive il cammino della Storia come una corsa verso il futuro che lascia dietro di sé cumuli di rovine, seppellendo le vittime cadute durante l’ avanzata del progresso. Benjamin – che nella sua utopia di riscatto dei vinti e dei cancellati fondeva Marx e il Talmud – era avverso, come altri grandi rivoluzionari critici, a ogni regressiva nostalgia del passato e dell’arcaico, così ferocemente ingiusti e violenti; non disconosceva la liberazione che il progresso ha significato per milioni di persone, ma sapeva che il progresso, lungi dall’essere una marcia inarrestabile e illimitata verso un mondo sempre più felice, crea – con le sue stesse conquiste – nuovi problemi e infligge nuove ferite, che occorre sanare restando fedeli ai suoi fini, tornando magari indietro per curare quelle nuove piaghe, per soccorrere chi è stato travolto dalla marcia che gli è passata sopra, ma per continuare poi a procedere, in un continuo processo a spirale. Il suo «Angelus Novus», l’angelo della storia e del progresso, avanza nel futuro, ma si volge indietro a guardare le rovine provocate dal suo incedere e chi vi è rimasto travolto. Se il tronfio e ottuso ottimismo circa il fatale e infinito accrescimento del benessere dell’umanità è caduto da un pezzo, oggi è il progresso in sé che appare a rischio o insostenibile, rendendo nuovamente e ancor più attuale il pensiero negativo e la teoria critica degli Adorno e dei Benjamin, non certo superati ma semmai inattuali, osservava Cesare Cases, non perché troppo bensì perché troppo poco apocalittici, inadeguati a quell’apocalissi crescente prolungata dai media, che ha distrutto lo stesso senso di realtà indistinguibile ormai dalla sua simulazione. Peter Szondi, forse il più acuto e congeniale interprete di Benjamin, ha osservato che la descrizione della città – e in particolare della propria città – è un viaggio nel tempo piuttosto che nello spazio. La città diviene così doppiamente straniera: straniera e sconosciuta come lo era per il bambino che vi muoveva i primi passi senza conoscerla ancora e straniera perché non è più quella di una volta, quando il bambino la scopriva muovendovi quei primi suoi passi. Ma lo sguardo si fa veggente solo se vede l’ estraneità delle cose, la loro alienazione e lontananza. Ogni viaggio è un ritorno all’infanzia; non la nostalgia di un bene perduto, ma di una possibilità di felicità che balenava nell’infanzia e che il futuro, anziché realizzare, ha soffocato; di una stendhaliana promesse de bonheur che la vita e la storia, nel loro corso successivo, hanno smentito. A Marsiglia, il viaggiatore si accorge, aiutato dall’hashish, che col trascorrere del tempo «le cose si fanno più estranee». Con o senza droga, vorrebbe recuperare ciò che non ha mai avuto: il futuro, la possibilità – concreta, latente nel reale – di un futuro umano. Egli va alla ricerca dei «futuri abortiti» (…). Il viaggiatore – il bambino – diviene così il «rabdomante della malinconia»; scopre che la storia – anche la sua – è una storia di vinti. (…) Memoria del presente, ha scritto Antonio Martí Monterde; ritrovare ciò che si sta perdendo nell’attimo stesso dell’accadere. Benjamin è insieme affascinato e inorridito dall’oblio. Quest’ultimo, da una parte, è il marchio del cattivo progresso, che non solo accumula rovine ma le consegna pure alla dimenticanza insieme alle oscure vittime che esse ricoprono; l’ oblio è un’ ulteriore violenza nei confronti di quest’ultime, cui il cattivo tribunale della cattiva trionfante storia malvagiamente universale nega il diritto ad ogni forma di esistenza. Occorre dunque discendere, sprofondare nel passato per ritrovare quei sepolti e quei loro – e nostri – futuri sepolti (…). Ma il magico acciarino, che potrebbe liberare il futuro sepolto dal passato riscattando pure quest’ultimo, non si trova. Resta la dolce e materna infanzia protetta da una calda signorilità borghese, cui lo sguardo dei grandi aruspici del negativo quali Benjamin e Adorno – scriveva anni fa in uno splendido saggio Tito Perlini – non cessa in fondo mai di rivolgersi. L’ albero di Natale «immola all’oscurità rami e aghi, per non essere null’altro che una costellazione inattingibile e tuttavia vicina nella buia finestra di un appartamento». Quell’accogliente intimità borghese, così profondamente amata da Benjamin nel suo calore edipico, è irrecuperabile e qualsiasi tentativo di riproporla artificialmente come un valore è per lui una truffa ideologica, una falsificazione reazionaria, piccolo-borghese e fascistoide, ad uso del dominio e della repressione sociale. La deformazione dell’intimità, che caratterizza la modernità (e la postmodernità) occidentale esige allora la fine della privacy, della vita privata, e l’ avvento di una nuova esistenza collettiva, che recuperi in una nuova dimensione sociale liberata l’ arcaica coralità delle origini. Benjamin crede di trovarla nella «porosa» Napoli (la «porosità» è la chiave di volta della sua lettura della città partenopea), con la gente che non entra nelle case ma ne esce, facendo vita comune sulle scale o nel vicolo. Ma soprattutto si convince di trovarla a Mosca: «Il bolscevismo ha eliminato la vita privata», proclama con entusiasmo (…). Coglie con vivezza l’ epopea della nuova Russia, il suo fervore del futuro, l’aura della rivoluzione che avvolge il popolo, la giocosità infantile dei russi, quasi trasfigurata in quell’infanzia che la rivoluzione deve ritrovare o meglio creare per la prima volta e donare agli uomini in un mondo liberato. Egli coglie l’ accelerazione impressa da Lenin al corso degli avvenimenti; accelerazione che rende rapidamente remota pure la sua immagine. Ma il suo sguardo micrologico – di solito acutissimo nello scorgere le crepe della negatività e nell’attendersi da esse piuttosto che da una gloriosa fanfara la redenzione – stavolta si lascia velare dalla partecipazione emotiva (…). Come nella sua città natale e d’ infanzia, pure a Mosca Benjamin incontra il desiderio obliato, il germe del futuro che quell’infanzia prometteva di far sbocciare. A Mosca lo scambia per un futuro non abortito ma realizzato o in via di realizzazione; come Carlo Levi, anch’egli crede che il futuro abbia un cuore antico e non si accorge dell’involuzione, già in atto, verso il terrore e l’ apparato burocratico del terrore. Tuttavia quello sguardo su Mosca – ancorché talora abbagliato, come del resto quello di quasi tutti coloro che visitavano l’ Unione Sovietica in quegli anni e anche negli anni seguenti – coglie un elemento infinitamente prezioso: la reale speranza e tensione rivoluzionaria al riscatto e alla salvezza, che già prima dello stalinismo il regime aveva irrigidito e soffocato, ma che per la storia e il futuro dell’umanità restano – come le promesse di ogni infanzia per la vita individuale – un lievito imprescindibile, un’ esigenza insopprimibile e dunque il seme di un futuro umano. «Una volta – ha detto Karl Valentin, il geniale cabarettista amico e in certo senso maestro di Brecht – il futuro era migliore». L’ utopia messianica, l’attesa di un Messia che probabilmente non viene ma l’attesa del quale cambia comunque il mondo, è la resistenza a quella beffarda diagnosi, la quale d’ altronde è fin troppo fondata. Il selvaggio anarco-capitalismo postmoderno, persuaso che la storia sia finita, nega ogni futuro e ogni sostanziale possibilità di cambiamento; instaura il suo impero in una specie di presente indefinitamente prolungato, ripetibile come le sue simulazioni mediatiche dalle quali non si distingue. Il viaggiatore, nomade come tutti i profeti, è talvolta sopraffatto dalla malinconia, ma continua testardo a leggere nelle cose ciò che verrà e ad annunciarlo. Le smentite della storia non lo scoraggiano; ciò che tarda, dice la Scrittura, avverrà.
Prefazione di Claudio Magris a «Immagini di città, di Walter Benjamin, Ed Einaudi
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