A Palenque, gli altissimi templi a scale si staccano dallo sfondo della selva che li sovrasta con fitti alberi ancora più alti, ficus dai tronchi multipli come radici, aguacates dalle lucide foglie, valanghe di rampicanti, piante pendule, liane. La foresta sembra stia per inghiottirsi quelle colossali vestigia della civiltà maya; anzi, è già da molti secoli che le ha inghiottite, ed esse sarebbero sepolte sotto una verde montagna vivente e proliferante se non fosse per le affilate lame degli uomini che, da quando quei templi sono stati scoperti, combattono giorno per giorno l’assalto della vegetazione e permettono alle costruzioni di pietra d’affiorare dal soffocante intrico di rami e di virgulti.
I bassorilievi che gli antichi Maya scolpirono nella pietra rappresentano, attraverso figure di dèi, d’astri, di mostri, il ciclo della vegetazione del mais. Questo almeno è quanto spiegano i libri; quel che possiamo constatare a prima vista sono connessioni di segni fogliati o fioriti o fruttiformi, una vegetazione di ornamenti che lussureggia intorno a ogni sagoma vagamente antropomorfa o zoomorfa, trasformandola in un viluppo aggrovigliato. Dunque, qualsiasi cosa significhino, sono sempre forme vegetali che i Maya fissano nella pietra: in fondo a ogni discorso c’è lo scorrere della linfa nelle piante; un rapporto quasi di specularità si è stabilito tra la pietra scolpita e la foresta. Il groviglio vegetale s’infittisce anche nella mia testa stordita dal sole e dalle vertigini a salire e a scendere quelle gradinate scoscese, e tra le ramificazioni d’argomenti mi sembra ogni tanto d’intravedere una ragione decisiva, che un attimo dopo scompare.
I bassorilievi e la foresta si definiscono e commentano a vicenda; il linguaggio di pietra racconta e ragiona il processo vitale che lo circonda e lo determina. Ma che senso ha dire la parola «foresta» quando la foresta è lì, presente, incombente? Se è «foresta» la parola che è scritta nelle figure degli dèi-mostri scolpiti, allora i templi nella foresta non sono che una gigantesca tautologia che la natura cerca giustamente di cancellare come superflua. Ecco che le cose si ribellano al destino d’essere significate dalle parole, rifiutano quel ruolo passivo che il sistema dei segni vorrebbe imporre loro, riprendono il posto usurpato; ecco sommergono i templi e i bassorilievi, tornano a inghiottire il linguaggio che aveva cercato d’affermare la propria autonomia e d’erigersi sulle proprie fondamenta come una seconda natura. I bassorilievi istoriati di serpenti e piume e foglie spariscono invasi da nidi di serpenti e di uccelli e da intrichi di liane: invano il linguaggio aveva sognato di costituirsi in sistema e in cosmo: l’ultima parola spetta alla natura muta.
Questa potrebbe già essere una bella conclusione, ma lo stesso corso di pensieri potrebbe anche portare a un punto d’arrivo opposto. La foresta può accanirsi contro i templi quanto vuole; la pietra non si lascia corrodere dall’imputridirsi della mucillagine vegetale, le figure in cui si leggono i nomi degli dèi non si lasciano cancellare dai licheni e dai funghi. Da quando il linguaggio esiste, la natura non può abolirlo: esso continua ad agire nonostante tutto, in un suo ambito separato, che l’impeto convulso delle cose non scalfisce. I nomi degli dèi e gli dèi senza nome si fronteggiano in una guerra che non può avere né vinti né vincitori.
Ma se io attribuisco alla foresta un’intenzione aggressiva, se vedo le radici e le liane agire, assaltare, aggirare il nemico, non faccio altro che proiettare la mitologia dei bassorilievi sulla vegetazione di linfa. Il linguaggio (ogni linguaggio) costruisce una mitologia, e questo modo d’essere mitologico coinvolge anche ciò che si credeva esistesse indipendentemente dal linguaggio. Da quando il linguaggio fa la sua comparsa nell’universo, l’universo assume il modo d’essere del linguaggio, e non può manifestarsi se non seguendone le regole. Da quel momento le radici e le liane fanno parte del discorso degli dèi, da cui si dirama ogni discorso. Le gesta fatte di nomi e verbi e conseguenze e analogie hanno coinvolto gli elementi e le sostanze prime. I templi che custodiscono le origini del linguaggio in cima alle scalinate di pietra o in fondo a cripte sotterranee hanno imposto il loro dominio sulla foresta.
Ma oggi, siamo sicuri che gli dèi parlino ancora il linguaggio della foresta, dai loro templi in rovina? Forse gli dèi che comandano il discorso non sono più quelli che ripetevano il racconto, terribile ma mai disperato, del susseguirsi di distruzione e rinascita in un ciclo senza fine. Altri dèi parlano attraverso di noi, consapevoli che tutto ciò che finisce non ritorna.
Tratto da: Italo Calvino, Collezione di sabbia, Mondadori
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