L’architettura dovrebbe poter essere goduta da tutti, ma spesso soltanto i ricchi hanno l’opportunità di farlo. L’architetto lavora per i ricchi, per i governi, per le imprese, un tempo lavorava al servizio di principi e re, e i poveri sono segregati nelle favelas in condizioni di vita assurde! Dunque, la missione dell’architetto, molto spesso, non si realizza. È questo il motivo per cui ripeto che l’architettura non è importante ma è un pretesto: cioè, l’architetto compie la sua funzione se prende coscienza di come trasformare la sua professione in atto politico.
Io penso che la questione politica faccia parte di qualunque professione, e a maggior ragione dell’architettura, dal momento che l’architetto agisce in uno degli ambiti fondamentali della vita dell’uomo: quello sociale. La città, la convivenza, l’esistenza quotidiana e lo spazio di ognuno di noi, sono il suo campo di battaglia.
Qui, l’architetto può prendere una posizione e lottare.
Sono entrato nel Partito comunista brasiliano spinto dal sentimento di rivolta per le ingiustizie a cui assistevo, interessato al pensiero di Karl Marx e sotto l’influenza di Luís Carlos Prestes.
È stata la presenza di Prestes a farmi davvero interessare alla politica. Negli anni Trenta aveva combattuto in clandestinità, era stato in Russia e poi era tornato in Brasile per rovesciare il governo di Getúlio Vargas, ma fu arrestato insieme a sua moglie, l’ebrea tedesca Olga Benario – che fu deportata in Germania gravida della figlia, e lì morì in un campo di concentramento.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il Partito comunista tornò legale per un breve periodo.
Prestes partecipò alla Costituente del 1946 insieme a compagni di partito come lo scrittore Jorge Amado. A quel tempo, io e Jorge eravamo già amici, lo diventammo dal primo momento.
La traversie, però, non era finite. Quando, nel 1964, la dittatura militare prese il potere, il partito fu dichiarato ancora una volta illegale e Prestes fuggì in esilio in Unione Sovietica. Tornò solo nel 1979, dopo l’amnistia generale, e fui io la prima persona che cercò.
Venne nel mio studio. Ricordo che lo ricevetti con il rispetto che si doveva a una figura del genere. Prestes era il leader! Ed era più anziano di me. Gli diedi del “signore”. Al che, lui obiettò: «No, Signore è il padrone di fazenda!».
In quel momento, il suo problema era basilare: una casa dove poter vivere e lavorare. Non aveva potuto comprare la casa che voleva. Gli dissi che si sbagliava: «L’appartamento è tuo perché l’ho già comprato per te» rivelai.
Aiutare un amico e una causa, ecco qualcosa che mi fa molto piacere; ovvio, quando posso farlo. Ma è una cosa normale, dovrebbe essere sempre così, perché siamo tutti fratelli. L’esempio di Luís Carlos Prestes ha avuto una forte influenza su di me, poiché il suo obiettivo principale era l’uguaglianza.
Quando ho avuto bisogno io, c’è stato qualcuno che mi ha dato una mano. Nel 1964, i militari presero il potere mentre io ero all’estero, mi trovavo in navigazione verso la Francia e ricevetti l’aiuto di André Malraux, all’epoca ministro della Cultura di Charles de Gaulle.
Quando giunsi a Parigi, Malraux firmò un decreto speciale che mi permetteva di fermarmi in Francia a lavorare. Era una figura straordinaria, uno degli uomini che ricordo con più affetto: la cultura, la sensibilità, l’interesse nei confronti del mondo. E mi piacque molto il suo romanzo La condizione umana.
Nel frattempo, a Rio, i militari avevano messo sottosopra il mio studio e anche la redazione di “Modulo”. Io ero comunista, avevo partecipato alla militanza fin dagli anni Quaranta, non avevo mai nascosto le mie idee e per questo motivo, tante volte, avevo perso delle opportunità di lavoro.
Quando, alcuni mesi dopo, tornai in Brasile, fui convocato immediatamente dalla polizia e sottoposto a un interrogatorio.
Mi ricordo un lungo tavolo, con i militari da un lato e io dall’altro e la prima domanda che un ufficiale mi fece: «Allora, mi dica Niemeyer, a conti fatti, cosa volete?».
Io risposi: «Cambiare la società».
Allora il militare si voltò verso il suo superiore e, sarcasticamente, ripeté quello che avevo detto: «Vogliono cambiare la società!».
Il clima era teso, dovevamo continuamente comparire davanti alla polizia, giustificare le nostre idee, ma eravamo spinti dalla convinzione di essere dalla parte del giusto. Non c’era tempo per la paura e la battaglia era lunga. Dopo le elezioni del 15 novembre 1978, quando i brasiliani respinsero con forza la dittatura aprendo al ritorno in Parlamento dei diritti politici, il cammino verso la libertà del paese non era però ancora compiuto.
I brasiliani erano stremati, stanchi di sottostare a un potere totalmente arbitrario. La dittatura aveva riportato il Brasile all’epoca della colonia, però la cruda realtà veniva nascosta dalla propaganda e dai falsi indici di crescita economica, vantaggiosi solo per chi si era associato ai militari.
C’era la necessità di nuove leggi che potessero assicurare i diritti politici e individuali e ristabilire la libertà di espressione, soppressa nel 1968 dall’AI-5 (Ato Institucional Número Cinco), il complesso di norme censorie che la dittatura aveva introdotto per soffocare una volta per tutte le forze di opposizione. La dittatura era cominciata nel 1964 e si era perfezionata dal 1968 in avanti, facendosi più dura, repressiva e violenta.
Dopo le elezioni del 1978, chiedevamo due cose: l’amnistia generale, perché nessun brasiliano si trovasse costretto a vivere fuori dal paese senza poter collaborare con il nuovo corso, e poi una nuova Carta costituzionale che ristabilisse le libertà fondamentali, di espressione, riunione e organizzazione. Entrambe le riforme sarebbero arrivate: l’amnistia nel 1979 e la Nuova Costituzione nel 1988. Ripenso al tono sarcastico di quel capitano: vogliono cambiare la società!
Nel 2002 un operaio, Luiz Inácio Lula da Silva, è diventato presidente della Repubblica e dopo di lui è stata eletta una donna, Dilma Rousseff, che da giovane aveva combattuto per i nostri stessi ideali e che fu torturata da quegli stessi militari.
Oggi è lei che governa…
Il sorriso è tornato sulle nostre labbra.
Però la lotta non è finita.
La mia lotta non si può certo paragonare a quella di chi scende in strada e protesta, ma avere coscienza di ciò mi dà una certa tranquillità.
Abbiamo apprezzato l’impegno di Lula per il cambiamento, ma la miseria continua, ci circonda in ogni dove. La lotta è chiara: i poveri devono diventare meno poveri e i ricchi meno ricchi. È possibile che sia così difficile accettare che anche i poveri, gli esclusi, nutrano il legittimo desiderio di voler partecipare alla costruzione di una società e non restarsene confinati ai margini?
È possibile che i ricchi vogliano continuare per l’eternità a dominare il mondo dall’alto dei loro privilegi?
Tratto da: Oscar Niemeyer, Il mondo è ingiusto
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