25[…] Birkin, appena cosciente e tuttavia del tutto coerente nelle sue azioni, lasciò la casa e, attraverso il parco, si diresse verso l’aperta campagna, verso le colline. La giornata splendida si era rannuvolata e cominciava a cadere qualche goccia di pioggia. Camminando senza meta raggiunse un declivio deserto dove s’addensavano boschetti di noccioli, fiori, cespugli d’erica e giovani abeti raccolti in piccoli gruppi, pieni di teneri germogli, un angolo verde e rugiadoso dove un torrentello correva verso il fondovalle che si intravedeva immerso nell’ombra, o almeno così sembrava. Si rendeva conto di non aver ancora recuperato la piena coscienza di sé, di muoversi quasi immerso in una specie di oscurità.
E tuttavia era come in cerca di qualcosa. Si sentiva felice su quell’umida costa coperta di cespugli e di fiori. Avrebbe voluto toccarli tutti, saturarsi del loro contatto. Si tolse gli abiti e, nudo, sedette tra le primule, muovendo i piedi leggermente tra i fiori, poi allungò le gambe e quelle e le ginocchia ne furono accarezzate, e così le braccia, che egli vi immerse fino alle ascelle, e poi vi giacque in mezzo, disteso, godendo del contatto dei fiori sull’addome, sul petto. Ed era un contatto così delicato, così fresco e penetrante che gli sembrò di sentirsene impregnare.
Ma quei fiori erano troppo teneri e morbidi. Corse attraverso l’erba alta sino ad un piccolo gruppo di giovani abeti non più alti di un uomo. Gli spessi rami frondosi gli frusciarono addosso punzecchiandolo dolorosamente mentre avanzava, gli lanciarono spruzzi di piccole gocce gelate che gli piovvero sul ventre, e gli frustarono i lombi con i ciuffi pungenti degli aghi. Un cardo lo punse, ma non troppo a fondo, perché i suoi movimenti erano prudenti e leggeri. Distendersi e rotolarsi tra i giacinti appiccicosi e freschi, sdraiarsi prono e coprirsi il dorso di manciate d’erba umida e tenera, soffice come un sospiro, più soffice, più delicata, più tenera della carezza di qualsiasi donna; e poi lasciarsi graffiare dalle frange scure e vellicanti degli abeti; e ancora, sentirsi sferzare le spalle dai rami scabrosi dei noccioli, e stringersi sul petto il tronco argentato di una betulla, sentire sotto le mani la sua levigatezza, la sua solidità, i suoi nodi vitali e le sue rughe, questa sì era felicità, questo sì era indicibilmente bello e appagante! Nulla al mondo avrebbe potuto dargli le stesse meravigliose sensazioni, se non quella freschezza, quella tenerezza delle piante che si infiltrava nel sangue. Quale fortuna per lui essersi potuto accostare ad esse, che parevano aspettarlo mentre lui era in cerca di loro, quelle deliziose, arcane, sensibili creature vegetali! Come si sentiva pago e felice!
Mentre si asciugava un po’ col fazzoletto pensò ad Hermione e al colpo che gli aveva inferto. Ne sentì il dolore al capo ma, dopo tutto, che importanza poteva avere tutto questo? Che gliene importava di Hermione e di tutto il resto dell’umanità? Lui aveva potuto apprezzare quella perfetta, fresca solitudine, così deliziosa e nuova e inviolata. Che sbaglio, quando aveva creduto di aver bisogno dei suoi simili, di una donna! No, lui non voleva nessuna donna, proprio per niente. Le foglie, e le primule e gli alberi, essi gli stavano a cuore, essi soli erano veramente desiderabili, gli penetravano nel sangue, arricchendolo. E infatti si sentiva ora incommensurabilmente ricco, e felice. […]
tratto da D. E. Lawrence, Donne innamorate, trad. it. Delia Agozzino, Roma 2012.
Titolo originale Women in love; prima edizione New York 1920.
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