Diario di Oaxaca

Eccomi dunque in viaggio per Oaxaca, dove insieme ad altri appassionati di botanica trascorrerò una settimana alla ricerca di rare specie di felci, felice di lasciarmi alle spalle il freddo inverno newyorkese. Già sull’aereo (un volo dell’AeroMéxico) si respira un’atmosfera completamente diversa. Appena decollati tutti si alzano, incuranti delle spie luminose ancora accese: c’è chi chiacchiera nei corridoi, chi comincia ad aprire le borse con le cibarie, qualche mamma allatta il suo bebè, dando improvvisamente vita a scene tipiche di un mercato o di un caffè messicani. Appena messo piede sull’aereo ci si sente già in Messico. È la stessa sensazione che ho provato qualche volta sui voli italiani o spagnoli, ma in questo caso è più intensa, con quell’atmosfera di fiesta e allegria che mi circonda. Com’è importante conoscere le altre culture, riconoscere la loro peculiarità e unicità, e rendersi conto, allo stesso tempo, di quanto poco universale sia la propria! Com’è rigida e immobile, invece, l’atmosfera sui voli di linea nordamericani! Incomincio a pensare che questo viaggio mi piacerà. È così difficile al giorno d’oggi divertirsi, eppure la vita andrebbe goduta fino in fondo.

Quando viene servito il pranzo, il mio vicino di posto, un gioviale uomo d’affari messicano originario del Chiapas, mi augura «Bon appétit!» seguito dalla versione spagnola «¡Buen provecho!». Non capisco niente del menu, per cui scelgo la prima cosa che mi capita, e sbaglio, perché mi viene portata un’empanada, mentre avrei preferito del pollo o del pesce. Il mio impaccio, la mia incapacità di parlare altre lingue, ahimè, sono un problema. Non mi piace l’empanada, ma ne mangio un po’ come tributo alla mia acculturazione.

Il mio vicino mi chiede il motivo del mio viaggio in Messico. Gli spiego che faccio parte di un gruppo di appassionati di botanica diretti a Oaxaca, nel Sud del paese. Siamo in parecchi su questo volo da New York, e ci ritroveremo con gli altri a Città del Messico. Quando gli dico che si tratta del mio primo viaggio in Messico, incomincia a parlare con toni entusiastici del paese e mi presta la sua guida. Devo assolutamente andare a vedere, mi dice, l’enorme albero di Oaxaca, vecchio di migliaia di anni, un vero fenomeno della natura. Gli confesso di conoscerlo già in fotografia, fin da bambino, e che è una delle attrazioni che mi hanno spinto a questo viaggio a Oaxaca.

Notando che ho strappato le pagine finali e quella iniziale della bozza di un libro che avevo con me per prendere appunti, e notando il mio disappunto per aver finito la carta, mi offre due fogli del suo blocco (come uno stupido ho lasciato il mio nella valigia che ho consegnato al check-in).

Avendo poi osservato che avevo scelto l’empanada senza sapere che cosa fosse e la mia conseguente espressione contrariata nell’assaggiarla, mi presta di nuovo la sua guida, e mi suggerisce di dare un’occhiata al glossario bilingue sul cibo messicano e alle illustrazioni che lo corredano. Devo stare attento, per esempio, a non confondere atún e tuna, perché lo spagnolo tuna non significa tonno, ma è il frutto di un fico d’India. Altrimenti, mi dice, ogni volta che chiederò il pesce mi porteranno la frutta.

Sfogliando la guida trovo un capitolo riguardante la flora locale, e gli chiedo informazioni sulla mala mujer, la malafemmina, un albero dall’aspetto poco rassicurante, dalle foglie pelose e urticanti. Mi racconta che nelle balere dei villaggi i giovani lanciano i suoi rami per abbordare le ragazze, provocando fastidiosi pruriti tra gli astanti. Si tratta di un gesto tra il goliardico e il teppistico.

«Benvenuto in Messico» mi dice infine quando atterriamo, e aggiunge: «Qui troverà tante cose insolite e di grande interesse». Quando l’aereo finalmente si ferma mi porge il suo biglietto da visita. «Mi telefoni se pensa che possa esserle d’aiuto durante il suo soggiorno qui». Gli do il mio indirizzo che devo scrivere su un sottobicchiere, non avendo con me i miei biglietti da visita. Gli prometto di mandargli uno dei miei libri, e quando mi accorgo che il suo secondo cognome è Todd («mio nonno era originario di Edimburgo»), gli parlo della paralisi di Todd – una paralisi passeggera che accompagna talvolta le crisi epilettiche – e gli prometto di mandargli anche una breve biografia del dottor Todd, il medico scozzese che la scoprì.

Sono colpito dall’affabilità e dalla cortesia di questo signore. Si tratta di una caratteristica dei popoli latinoamericani, o di semplice simpatia personale? O soltanto di un incontro occasionale, di quelli che avvengono in treno o in aereo?

Abbiamo tre ore a disposizione, prima della coincidenza per Oaxaca, così bighelloniamo nell’aeroporto di Città del Messico. Mentre mi accingo a pranzare con due membri del gruppo (li conosco appena, ma nel corso del viaggio stringeremo amicizia), uno dei due si accorge del taccuino che tengo in mano. «Sì,» confesso «penso che terrò un diario di viaggio».

«Ne avrai di cose da scrivere» ribatte. «È difficile trovare un gruppo più strampalato del nostro».

Non sono d’accordo: mi sembra un gruppo splendido, entusiasta, spontaneo, scevro da gelosie, unito dall’amore per le felci. Si tratta di appassionati, amanti della botanica nel senso letterale del termine, anche se molti possiedono una preparazione più che professionale, in alcuni casi addirittura erudita. Mi chiede poi del mio interesse specifico e della mia conoscenza delle felci. «No,» gli rispondo «sono qui più che altro in viaggio di piacere».

Nell’aeroporto incontriamo uno del nostro gruppo appena sbarcato da Atlanta, un omone con una camicia a scacchi, cappello di paglia e bretelle. È David Emory insieme alla moglie Sally. Era all’università con John Mickel (l’amico comune che ha organizzato questo viaggio) nel lontano 1952, a Oberlin. All’epoca John era ancora studente, racconta, mentre lui era già laureato. Fu lui a far nascere in John l’amore per le felci, e non vede l’ora di rincontrarlo, una volta a Oaxaca. Si sono rivisti solo in due o tre occasioni da quando erano compagni di studi, cinquant’anni prima. S’incontrano sempre durante queste spedizioni botaniche, e la vecchia amicizia, l’entusiasmo di un tempo, ritornano come per incanto. Tempo e spazio vengono annullati immediatamente, nonostante provengano da luoghi diversi, grazie alla comune passione per le felci.

Confesso che ancora più che le felci amo le cosiddette piante affini: erba strega (Lycopodium), coda cavallina (Equisetum), Selaginella, Psilotum. Ci saranno anche quelle, mi assicura David: una nuova specie di Lycopodium è stata scoperta durante l’ultimo viaggio nello Stato di Oaxaca, nel 1990, e ci sono poi molte specie di selaginella; una, la «felce della resurrezione», si trova perfino al mercato; una rosetta appiattita, apparentemente avvizzita, di un verde spento, ma che trova nuova vita alle prime gocce di pioggia. Ci sono poi tre varietà di equiseto a Oaxaca, aggiunge, una delle quali è la più grande esistente al mondo. «Ma lo Psilotum,» gli chiedo con ansia «dimmi dello Psilotum». Anche di quello non meno di due specie.

Fin da bambino amavo i muschi primitivi e la coda cavallina, perché erano ritenuti le forme primordiali da cui avevano avuto origine tutte le piante più sofisticate.1 A Londra (città dove sono nato e cresciuto), a parte il Museo di storia naturale, esisteva un giardino di piante fossili, con tronchi e radici di muschi e code cavalline giganti, e al suo interno c’erano diorami con la ricostruzione delle vecchie foreste del Paleozoico, con code cavalline giganti alte fino a trenta metri. Mia zia mi aveva mostrato quelle moderne (alte solo una sessantina di centimetri) nelle foreste del Cheshire, con i loro piccioli rigidi e uniti, ricoperti di coni nodosi. Mi aveva anche mostrato minuscoli esemplari di erba strega e selaginella, ma non aveva mai potuto mostrarmi il più primitivo tra tutti, lo Psilotum, poiché non cresce in Inghilterra. Alcune piante simili, le psilofite, furono le prime a sviluppare un sistema vascolare per il trasporto dell’acqua attraverso i fusti, assurgendo così, quattrocento milioni di anni fa, al ruolo di precorritrici e aprendo la strada a tutti gli sviluppi futuri. Lo Psilotum, in effetti, sebbene venga chiamato talvolta felce a pennacchio, non è una felce, perché non ha vere e proprie radici o fronde, ma solo un fusto verde indifferenziato e biforcuto, non più spesso di una mina da matita. Ma nonostante l’apparenza modesta, era una delle mie piante preferite, e mi ero ripromesso, un giorno, di osservarla allo stato selvaggio.

Sono cresciuto, dicevo, negli anni Trenta a Londra, in una casa con un giardino pieno di felci. Mia madre le preferiva alle piante da fiore, e anche se avevamo rose rampicanti, gran parte delle aiuole era stata adibita alla coltivazione delle felci. Avevamo anche una veranda, sempre calda e umida, dove pendeva un’enorme felce barbuta e prosperavano felci sottili e delicate o anche felci tropicali. La domenica, talvolta, mia madre, o una delle sue sorelle, anch’esse appassionate di botanica, mi portavano ai Kew Gardens, e fu lì che vidi per la prima volta felci torreggianti, alte dai cinque ai dieci metri, avvolte da fronde, e riproduzioni delle forre hawaiane o australiane. All’epoca quei posti mi sembravano i più belli che avessi mai visto.

Mia madre e le sue sorelle avevano ereditato l’amore per le felci dal padre, mio nonno, che era arrivato a Londra dalla Russia verso la metà dell’Ottocento, quando in Inghilterra impazzava ancora la pteridomania, la grande mania per le felci dell’epoca vittoriana. Moltissime case, compresa la loro, disponevano di terrari – i Wardian cases – pieni delle più svariate specie di felci, talvolta rarissime. Questa moda era già passata intorno al 1870 (anche perché aveva portato all’estinzione di diverse specie), ma mio nonno aveva tenuto i suoi Wardian cases fino alla morte, avvenuta nel 1912.

Le felci mi affascinavano per la loro forma a spirale e per le loro caratteristiche vittoriane (che le facevano somigliare ai coprispalliera di trine e alle tende di merletti della nostra casa). Ma, ancora di più, mi intrigavano per la loro origine antica. Mia madre mi raccontava che il carbone che usavamo per riscaldare la casa era composto prevalentemente di felci compresse o altre piante primitive, e talvolta, rompendone un pezzo, si intravedevano le forme del fossile. Le felci erano sopravvissute, senza subire grandi cambiamenti, per oltre trecento milioni di anni. Altre creature, come i dinosauri, erano scomparse, ma le felci, all’apparenza così fragili e vulnerabili, erano scampate a tutte le vicissitudini, a tutte le estinzioni che la terra aveva conosciuto. Il mio senso di un mondo preistorico, di immensi archi temporali, era stato stimolato per la prima volta dalle felci e dai loro fossili.

«Qual è la porta d’imbarco?» ci chiediamo tutti. «È la dieci» suggerisce qualcuno. «Al check-in mi hanno detto che è la dieci».

«No, è la tre» dice qualcun altro. «È scritto anche sul tabellone, porta numero tre». Ad altri è stato assicurato che l’imbarco avverrà attraverso la porta cinque. Ho l’impressione che il numero sia ancora indeterminato. Incomincio a pensare che siano solo «voci», finché, al momento cruciale, un numero risulterà vincitore. È anche possibile che il numero della porta sia indeterminato in senso heisenberghiano, che diventi cioè determinato solo all’ultimo momento (quando cioè, se ricordo bene la formula, «la funzione d’onda collassa»). O ancora che l’aereo, o la sua probabilità, parta simultaneamente da diverse porte d’imbarco, seguendo tutte le possibili rotte per Oaxaca.

Passata la tensione, risolto infine il problema della porta, ci rilassiamo in attesa della chiamata per l’imbarco. Il nostro aereo sarebbe dovuto partire alle 16.45, ma sono le 16.50 e ancora non ci imbarchiamo (anche se l’aereo è lì fuori in attesa). Incontriamo qualche altro membro del nostro gruppo. Siamo in nove, ora, o sarebbe più giusto dire otto di loro e io. Perché a questo punto mi sono un po’ isolato, e seduto a qualche metro di distanza prendo appunti per il mio diario.

Provo quasi sempre questo senso di sdoppiamento, mi sento cioè partecipante-osservatore, come fossi una specie di antropologo della vita, quella terrestre, dell’Homo sapiens (forse per questo ho scelto le parole di Temple Grandin come titolo del mio Un antropologo su Marte, perché come Temple, anch’io sono una specie di antropologo, un «outsider»). Ma probabilmente ogni scrittore lo è.

Finalmente ci imbarchiamo. Il mio vicino di posto, che non fa parte del nostro gruppo, è un signore anziano, calvo, con le palpebre cadenti e una folta barba alla Edoardo VII, che chiede alla hostess una Coca light con rum, mentre io lo guardo con sussiego ostentando il mio succo di pomodoro. «È per diminuire le calorie» mi spiega scherzosamente. «Perché non prendere anche un rum dietetico, a questo punto?» ribatto.

17.25. Facciamo un giro enorme prima di raggiungere la pista di decollo, e i sobbalzi dell’aereo mi impediscono di prendere appunti. Questa megalopoli, ahimè, ha una popolazione di diciotto milioni di abitanti (ventitré milioni, secondo altre stime), ed è una delle più grandi e più sporche città del mondo.

17.30. Decolliamo! Mentre emergiamo dalla cappa che copre Città del Messico, con la città che sembra estendersi da un orizzonte all’altro, il mio compagno di viaggio improvvisamente esclama: «Vede quel vulcano? Si chiama Ixtaccíhuatl. La cima è sempre coperta di neve. L’altro, di fianco, con la testa tra le nuvole, è il Popocatépetl». Improvvisamente diventa loquace, orgoglioso di mostrare e illustrare la sua terra a uno straniero.

Dall’aereo si gode una vista incredibile del Popocatépetl, con il cratere ben visibile, circondato da una catena di picchi innevati. Mi chiedo perché le vette più basse siano ricoperte di neve, mentre il cono vulcanico, più elevato, non lo è; forse, mi dico, il calore che emana dal cono vulcanico, anche quando non è in eruzione, è sufficiente a sciogliere la neve. Circondato com’è da queste magiche, straordinarie vette, si capisce perché gli Aztechi avessero stabilito lì, a duemilatrecento metri d’altitudine, la loro capitale, Tenochtitlán.

Il mio vicino (al suo secondo giro di rum e coca, nel quale gli faccio compagnia) mi chiede il motivo del mio viaggio in Messico. Affari? Turismo? «Né l’uno né l’altro,» gli rispondo «una spedizione botanica alla ricerca delle felci». Sembra interessato, e mi parla del suo amore per le felci. «A quanto pare,» aggiungo «Oaxaca ha la più grande varietà di felci del Messico».

Il mio amico è lusingato. «Non vi limiterete alle sole felci, spero?». E incomincia a parlare con eloquenza e passione dell’epoca precolombiana: la straordinaria raffinatezza dei Maya in matematica, architettura, astronomia; la scoperta dello zero, che compirono molto tempo prima dei greci; la ricchezza e il simbolismo della loro arte; e gli splendori della capitale, Tenochtitlán, che contava più di duecentomila abitanti. «Più di Londra e di Parigi, più di qualsiasi città dell’epoca, fatta eccezione, forse, per la capitale dell’impero cinese». Parla della forza e della prestanza dei suoi abitanti, racconta di come gli atleti corressero in staffetta per quattrocento chilometri, senza sosta, da Tenochtitlán al mare e ritorno, per assicurare ogni giorno il pesce fresco alla famiglia reale. Racconta dello straordinario sistema di comunicazione degli Aztechi, secondo soltanto a quello degli Inca, in Perú. Alcune delle loro conoscenze, alcune delle loro conquiste, continua, hanno un che di sovrumano, come fossero veramente stati figli del sole o esseri venuti da un altro pianeta.

«E poi,» conclude in una visione dolorosa del passato che è forse comune a tutti i messicani «e poi giunse Cortés, con il suo esercito di conquistadores, a portare non solo nuove armi, ma nuove malattie, sconosciute alle popolazioni indigene: vaiolo, tubercolosi, malattie veneree, persino l’innocuo raffreddore. C’erano quindici milioni di Aztechi in Messico prima della Conquista, ma nel giro di cinquant’anni ne rimasero solo tre milioni, ridotti in stato di povertà, degrado e schiavitù. Molti trovarono la morte negli scontri armati, ma un numero ancora maggiore dovette soccombere, indifeso, alle malattie importate dal Vecchio Continente. Anche la religione e la cultura locale ne risultarono impoverite e indebolite, sostituite dalle tradizioni e dalla Chiesa dei conquistadores. Ma da ciò derivò anche una miscela ricca e fertile, una combinazione genetica fisica e culturale al tempo stesso». Il mio vicino continua a parlare della «doppia natura» e della «doppia cultura» del Messico e dei messicani, la complessità, positiva e negativa, che deriva da questo duplice corso storico. E infine, mentre stiamo atterrando, mi parla delle strutture e delle istituzioni politiche, della loro corruzione e inefficienza, dell’estrema iniquità del sistema sociale di un paese che ha più multimiliardari di qualsiasi altra nazione, tranne gli USA, ma anche il maggior numero di poveri che vivono in condizioni disperate.

Quando, giunti a Oaxaca, sbarchiamo dall’aereo, scorgo in attesa nella hall dell’aeroporto John e Carol Mickel, i miei amici del Giardino botanico di New York. John è esperto di felci del Nuovo Mondo, del Messico in particolare. Ha scoperto più di sessanta specie di felci nella sola provincia di Oaxaca, e ha descritto (insieme al suo giovane collega Joseph Beitel) le settecento e più specie della regione nel libro Pteridophyte Flora of Oaxaca, Mexico. Sa trovare meglio di chiunque altro l’ubicazione talvolta segreta o variabile di ognuna di quelle specie. John è stato a Oaxaca moltissime altre volte dopo il suo primo viaggio, nel 1960, ed è lui che ha organizzato per noi questa spedizione.

La sua competenza specifica è la tassonomia, la capacità cioè di identificare e classificare le felci risalendo alla loro evoluzione e affinità evolutiva, ma egli è allo stesso tempo, come tutti gli pteridologi, un esperto botanico ed ecologista, poiché non si possono studiare le felci in natura senza tener conto di come e dove crescono, del loro rapporto con le altre piante e gli animali, del loro habitat in generale. Carol, sua moglie, non è una botanica di professione, ma il suo entusiasmo, e i molti anni trascorsi con John, ne hanno fatto un’esperta al pari del marito.

Il mio primo incontro con John e Carol avvenne un sabato mattina del 1993. All’epoca vivevo nel Bronx, nei pressi del Giardino botanico di New York. Quel giorno stavo facendo quattro passi nei paraggi insieme al mio amico Andrew. Entrammo per caso nel vecchio edificio dove ha sede il museo e Andrew, che mi aveva sentito parlare più di una volta in toni entusiastici delle felci, notò un cartello che annunciava una riunione dell’American Fern Society per quel giorno stesso. Il fatto mi incuriosì (non ne avevo mai sentito parlare), così ci incamminammo per il labirinto di corridoi all’interno dell’edificio, finché al piano superiore trovammo la sala in cui si svolgeva l’incontro, cui partecipava una quarantina di persone. Vi si respirava un’atmosfera vagamente rétro, quasi vittoriana. Si sarebbe potuto trattare benissimo di una riunione di appassionati di botanica degli anni Cinquanta o Settanta dell’Ottocento. John Mickel, appresi in seguito, era uno dei pochi professionisti del gruppo.

Andrew mi sussurrò all’orecchio: «Questo è il genere di persone che fa per te», e come al solito aveva ragione. Non c’era dubbio che fossero le persone giuste, e anche loro sembravano riconoscermi come uno di loro, un appassionato di felci.

Era un gruppo originale, eterogeneo. Si trattava soprattutto di anziani, pensionati, ma c’erano anche molti giovani sui vent’anni, alcuni dei quali lavoravano nelle serre o nelle sezioni di orticoltura del Giardino botanico. C’era poi qualche professionista, naturalisti o insegnanti; diverse casalinghe e addirittura un conducente di autobus. Alcuni abitavano in città, in appartamenti con vasi alle finestre; altri abitavano in campagna, in case con giardini o perfino serre. Era chiaro che la passione per le felci non teneva conto delle differenze sociali, ma poteva prendere chiunque, a qualsiasi età, e diventare parte essenziale della sua vita. Alcuni, avrei scoperto in seguito, facevano più di cento chilometri in auto per partecipare alle riunioni.

Mi capita spesso di partecipare a congressi di neurologia, ma la sensazione che provavo a quella riunione era totalmente diversa; si respirava un’aria di serena libertà e una mancanza di rivalità che non avevo mai riscontrato in un incontro professionale. Forse grazie a quest’atmosfera tranquilla e accogliente, al comune entusiasmo e alla passione per la botanica, forse perché non sentivo nessun obbligo professionale gravarmi sulle spalle, incominciai a frequentare quelle riunioni in modo regolare, ogni mese. Prima di quell’esperienza non avevo mai fatto parte in modo convinto di nessun gruppo o associazione; ora aspettavo con ansia il primo sabato del mese. Dovevo essere all’estero o veramente malato, per mancare all’appuntamento mensile con l’American Fern Society.

La sezione newyorkese fu fondata da John Mickel nel 1973, ma la fondazione della Società risale alla fine dell’Ottocento, epoca in cui fu costituita da quattro appassionati di botanica che si tenevano in contatto mediante uno stretto scambio epistolare. Le lettere furono pubblicate da uno di loro con il titolo di Linnaean Fern Bulletin, attirando immediatamente l’attenzione degli appassionati di felci in tutto il paese.

Furono dunque dei botanici dilettanti a dare inizio all’American Fern Society, com’era avvenuto per la Torrey Botanical Society, un’associazione botanica meno specifica, fondata qualche anno prima sotto l’egida del famoso botanico John Torrey, o per la British Pteridological Society, fondata intorno al 1890. Ancora oggi, a un secolo di distanza, l’American Fern Society, fatta eccezione per qualche professionista, è composta prevalentemente da dilettanti. Ma che dilettanti! C’è il vecchio Tom Morgan, che incontrai per la prima volta quel sabato mattina del ’93, e che praticamente da allora non ha mai saltato un incontro. Tom, che ha una lunga barba bianca e somiglia a Darwin in modo impressionante, ha una cultura e un’energia inesauribili, nonostante sia affetto da qualche anno dal morbo di Parkinson, e si sia di recente fratturato un’anca. Niente lo scoraggia: fa alpinismo sulle Montagne Rocciose e sugli Adirondacks, trekking nella foresta pluviale delle Hawaii e della Costa Rica, sempre munito di taccuino e macchina fotografica, alla ricerca di nuove specie di felci o di ibridi (un ibrido dell’Asplenium, da lui scoperto, Asplenium x morganii, è stato chiamato con il suo nome), di ubicazioni insolite, di strane associazioni delle felci con altre piante o habitat particolari, e di inconsueti usi culturali delle felci (l’uso alimentare delle felci a penna di struzzo, caratteristico di alcune culture, o il tè di Ophioglossum).

Come Darwin, è il prototipo del naturalista dilettante, ma è, allo stesso tempo, perfettamente aggiornato sulle più recenti teorie evoluzionistiche o genetiche. Tom comunque continua a considerare tutto ciò un hobby, un’attività secondaria, poiché di professione è un fisico, un pioniere nella scienza dei materiali. Ha già visitato la regione di Oaxaca, ed è stato lui a spingermi a fare questo viaggio, anche se non fa parte del nostro gruppo; quest’anno, infatti, si recherà a Portorico.

Nell’attività pratica, nella scienza sperimentale, sono ancora i non professionisti ad apportare il contributo maggiore, come avveniva già nel passato. Nel diciottesimo secolo molti di loro erano uomini di Chiesa, come il reverendo William Gregor, che individuò un nuovo elemento, il titanio, in una sabbia nera, presente nella sua stessa parrocchia; o come Gilbert White, la cui Natural History of Selborne è ancora uno dei miei libri preferiti. Tutti questi naturalisti hanno caratteristiche comuni, quali la capacità di osservare e ricordare i particolari e la memoria visiva dei luoghi che, unite al loro amore e all’approccio lirico alla natura, ne fanno una categoria assolutamente peculiare. Verso la metà dell’Ottocento era noto il caso di William Smith, il «padre della geologia», che fino a tarda età «aveva mantenuto un ricordo così preciso delle ubicazioni da riuscire a rintracciare, anche a distanza di anni, il luogo in cui aveva trovato un fossile». È un po’ quello che capita a Tom Morgan, che è capace di ricordare, di ogni felce di una certa rilevanza che abbia esaminato, non solo le caratteristiche ma anche l’esatta localizzazione.

Lo stesso avviene in astronomia, dove comete e supernove sono spesso avvistate per la prima volta da non professionisti (come nel caso di un ministro del culto australiano che, servendosi di un minuscolo telescopio e grazie alla sua capacità di memorizzare l’esatta ubicazione di ogni supernova, ha effettuato rilievi unici nel loro genere sulla frequenza delle supernove in un migliaio di galassie). La presenza dei dilettanti è fondamentale anche in mineralogia: a prescindere dalle borse di studio e dai supporti professionali, essi riescono ogni anno a raggiungere luoghi nuovi e a descrivere nuove varietà di minerali, meglio di quanto qualsiasi professionista sarebbe in grado di fare. Lo stesso avviene per il ritrovamento dei fossili o l’osservazione degli uccelli. In tutti questi campi, quello che è essenziale non è tanto la preparazione professionale, quanto l’occhio esperto del naturalista, che si sviluppa e si perfeziona grazie a una predisposizione naturale, all’amore per la natura, all’esperienza e alla passione. Ed è esattamente ciò che possiedono i dilettanti, intesi nel senso migliore del termine: un amore, una passione vera e propria per la loro materia, e l’esperienza di una vita trascorsa a osservare i fenomeni sul campo. I pochi professionisti appartenenti all’American Fern Society lo hanno sempre riconosciuto, ed è per questo che chiunque, a condizione di amare le felci, è ammesso nel gruppo, anche se manca completamente d’esperienza. «Il più umile dei dilettanti e la più alta autorità professionale sono sempre stati considerati alla pari all’interno della nostra associazione» ebbe a dire il presidente in occasione del quarantesimo anno di attività della stessa, e così è stato anche per me che sono un semplice novellino.

1. O almeno così si raccontava quando ero ragazzo. La teoria corrente, basata sulla sequenza del DNA, e non solo sulla morfologia o sulla sequenza dei fossili di piante primordiali, contrasta simili semplificazioni, ma indica che i licopodi, le felci (comprese le specie affini) e le piante a seme costituiscono le tre principali linee evolutive delle piante vascolari, derivanti tutte, presumibilmente, dall’evoluzione di un antenato comune risalente al Siluriano.

Tratto da:  Oliver Sacks, Diario di Oaxaca, Traduzione di Maurizio Migliaccio, ed. Adelphi