E dunque, un lento morire. Per ora emerge un senso di colpa retrospettivo, la vergogna per i giudizi sbrigativi di un tempo, di quando stavo bene, montavo le scale a due gradini per volta, marciavo a velocità disumana. Andavo di fretta. Con le gambe, coi giudizi. Gli ausili per invalidi suscitavano la mia impazienza: ma perché non si levano di torno, questi incapaci? Per i malati, nessuna compassione – col sovrappopolamento che c’è, cosa la fanno tanto lunga, perché non se ne vanno? Quanto a chi perdeva tempo con le visite ai malati: che squallore, possibile non abbiano nulla di meglio da fare? Ricordo la diffidenza verso un compagno di scuola: andava regolarmente a trovare la zia malata, ci passava ore e ore – trovavo morboso tanto attaccamento a una vecchia, rifuggivo dal comprendere il suo sentimento, provavo anzi un oscuro timore, come di venirne contaminata. La debolezza m’ispirava paura e repulsione. Ogni forma di debolezza. Forse per il piacere selvaggio della rapidità fulminea, dell’efficienza, del buon funzionamento. Da chi era lento, incapace, inetto, occorreva allontanarsi come da uno scandalo. Non ero poi così diversa da quell’antropologa fidanzata di Gea che le disse, dopo averla lasciata: poteva andare tutto bene, se solo non ti veniva la pessima idea di ammalarti.
Col ricordo ancora fresco di tanta insolenza – dovrei dire spietatezza – c’è ironia nel mio trovarmi adesso malata. I simili alla me stessa di un tempo mi hanno abbandonata. Altri invece si fanno più assidui, affettuosi.
E così, questo lento morire mi costringe a conoscere ciò da cui mi ero sempre tenuta alla larga: l’essere deboli, lenti, indifesi, inefficienti, privi di energia. Per questo forse, ispirata dalla recensione alla prima traduzione in lingua inglese, ieri sera ho preso in mano lo Zibaldone, di quel Leopardi di cui tanto diffidavo perché insomma, era gobbo e infelice e si era ficcato in testa di riversare amarezza sul mondo.
Ecco gli acquazzoni prepotenti e gioiosi di novembre. Queste secchiate d’acqua che precipitano dall’alto dei cieli mi mettono allegria, si accompagnano a una nebbiolina diffusa che colma lo spazio del giardino trasformandolo in una sorta di grembo opalescente. Le forme risaltano con incremento di presenza, la luce acquista una qualità di illuminazione come da interni. Noto un tralcio di convolvoli rosa sbocciati nell’orto coi tepori di San Martino: inumidito dal vapore acqueo, il colorito prende vigore e risalta. Al margine estremo del bosco, là dove la pioggia che dilava impetuosa dal monte si raccoglie nei fossati di delimitazione dei campi, Macchia, esuberante fox terrier, che come tutti i cagnolini ha una visione animista del mondo, cerca di afferrare l’acqua coi denti e impadronirsene quasi si trattasse di una biscia cui dare la caccia. Sembra impazzita: percorre al galoppo il fossato, insegue gli zampilli, balza contro corrente per poi sfrecciare a valle. Simile ad astemia baccante, celebra con danze e piroette l’improvvisa animazione che trasforma il suo regno, normalmente asciutto e tranquillo, in una festa di rumori, di scrosci, di liquidi schiaffi e gorgoglianti ruscelli. Una baraonda di sensazioni travolgenti. Mentre Giulio mi ripara col grande ombrello verde da pastore, respiro e osservo. Assaporo la gioia delle forme che la bruma leggera, anziché velare, svela più nitide: il rosso acceso delle bacche, il disegno di certe chiazze violacee sulle foglioline tondeggianti dell’albero della nebbia, il loro giallo ancora in parte verdognolo inciso da tratti bruni che paiono usciti dal pennello intinto nell’inchiostro di china di un calligrafo.
Tratto da: Pia Pera, Al Giardino ancora non l’ho detto, Ponte Alla Grazie